L’Italia e il Trattato di pace di Parigi del 10 febbraio 1947
Un Trattato duro, a tratti palesemente deleterio per le stesse Nazioni che lo votarono, segnerà tra l’altro la perdita dei nostri ultimi possedimenti coloniali

L’Italia che esce dal Secondo Conflitto Mondiale è una Nazione debole sul piano internazionale, i cui tentativi per essere accettata fra le grandi potenze appaiono costantemente frustati; considerata una potenza minore dell’Asse, non le venne quindi riconosciuta la cobelligeranza come invece si aspettava, da ciò conseguì un trattamento da Paese vinto da parte delle altre potenze, intenzionate a non dimenticare il recente passato fascista[1]. I lunghi ed estenuanti negoziati, che porteranno alla firma del Trattato di Parigi nel 1947, segnarono una netta sconfitta per la politica estera italiana[2]; l’Italia dovette accettare pesanti clausole economiche e militari, nonché la perdita di tutti i possedimenti coloniali[3].

La classe politica italiana, divisa su tutto, era tuttavia concorde sulle colonie e non considerava il colonialismo un fenomeno da cancellare in toto. Dato questo presupposto culturale e politico, l’autodeterminazione dei popoli era un concetto quasi del tutto estraneo al dibattito pubblico che precedette e seguì la firma del Trattato[4]. Possiamo cogliere maggiormente questo atteggiamento attraverso l’analisi di un grande quotidiano come «La Stampa» che, insieme a tutta la stampa italiana, assunse acriticamente la posizione del governo italiano.

È opportuno ricordare che per la politica estera italiana la questione delle colonie e di Trieste erano le maggiori fonti di preoccupazione[5].

Un primo interessante commento[6] del direttore Filippo Burzio comparve sulla prima pagina del quotidiano, a pochi giorni dalla firma del Trattato. Burzio, dopo avere rammentato le parole di Benedetto Croce, che aveva definito il Trattato che stava per essere firmato «quanto di più orrendo ci possa capitare»[7], denunciava altresì «la canea di tante Nazioni – ad alcune delle quali l’Italia ha donato civiltà, benessere e opere pubbliche – che le si gettano addosso per spogliarla di quanto è loro possibile arraffare, colonie e lembi di patria e officine e quattrini, per spogliarla anche del diritto di continuare a compiere la sua alta missione di civiltà nel mondo».

L’articolo focalizzava poi l’attenzione sulle clausole del Trattato che prevedevano la cessione di metà della flotta e la rinuncia ai sommergibili. A giudizio del direttore clausole così vessatorie nei nostri confronti rivelavano l’esistenza in «coloro che le hanno formulate, o per loro ripicca e incomprensione o perché incapaci di resistere a pressioni interessate e maligne, il partito preso di offenderci senza motivo, di umiliarci contro il loro stesso vantaggio». Burzio rammentava l’importanza dell’azione svolta dalla flotta italiana durante la guerra e, soprattutto, il significato che aveva assunto, essendo «la prima sanguinosa prova della nostra volontà di riscatto dagli errori del passato». Non solo la marina era dimezzata, ma le navi rimaste erano le più antiquate.

Degna di interesse la parte finale, in cui il direttore dimostrava di comprendere pienamente quanto forte fosse il peso degli assetti internazionali, poiché notava che «il rancore ha superato l’interesse stesso di chi ci punisce; conviene infatti all’Inghilterra la scomparsa della nostra marina dal Mediterraneo di fronte al più che probabile crearsi di una cospicua marina jugoslava, se, come è prevedibile, la Russia lascerà a questa sua alleata al di qua degli stretti, le navi che dovremmo cederle?».

Pochi giorni dopo, Filippo Burzio scrisse un altro fondo sull’argomento[8]. Il giornalista confessava disagio e una profonda insofferenza per «l’assurdità di una situazione, in cui noi – uomini e partiti che fummo contro la criminale follia fascista – dobbiamo avallare la rovina della patria da quella causata, e portarne l’ingiustificata responsabilità […] gli ex nemici ci dicono: Voi siete stati aggressori, dunque siete colpevoli e per di più siete vinti; e noi rispondiamo: Voi avete a vostra volta mancato agli impegni della Carta Atlantica e a quelli dell’Armistizio, e ci imponete ora una pace alla Brenno». Con l’espressione «Pace alla Brenno» il direttore si riferiva all’episodio di Brenno, capo dei Galli Insubri, e al suo ammonimento «Vae victis!» («Guai ai vinti!») rivolto ai Romani sconfitti[9].

La protesta, rivolta da parte della Costituente o dal governo in nome del popolo italiano, contro il vessatorio Trattato sarebbe nata non da un malinteso patriottismo, bensì dalla rivolta del senso della verità, della giustizia e dell’equità morale. Il Trattato imponeva: «1) le mutilazioni territoriali metropolitane, violatrici del principio di nazionalità e di autodecisione dei popoli; 2) la rapina (per fortuna ancora sospesa) delle nostre modeste colonie prefasciste; 3) la sorte serbata alla flotta; 4) la messa dell’Italia in condizioni di assoluta e umiliante impotenza nei confronti delle Nazioni confinanti, e soprattutto della Jugoslavia». È interessante notare come il giornalista faccia riferimento al principio di autodeterminazione dei popoli, ma non riconosca tale diritto alle popolazioni africane, infatti definisce la perdita delle colonie, non ancora avvenuta in quel momento, una rapina.

Nondimeno, il direttore era consapevole che la mancata firma del Trattato, non un atto prettamente individuale bensì pubblico, avrebbe non solo coinvolto un popolo fortemente provato dalla guerra ma comportato conseguenze non previste e non volute. I gruppi dirigenti della Nazione, Costituente e governo, non avevano, dal punto di vista morale, il diritto di assumersi una simile responsabilità. Vi erano, a parere del direttore, due alternative: o interrogare tramite referendum il popolo o scegliere in sede politica una soluzione con meno gravi incognite e una maggiore utilità.

In conclusione, Burzio argomentava che solo il governo era in possesso di tutti gli elementi utili per prendere le decisioni adeguate al caso, decisioni che il popolo avrebbe dovuto con patriottismo accettare. In effetti, la ratifica del Trattato era un passo obbligato per la libertà del Paese e per l’ottenimento degli aiuti economici previsti dal piano Marshall.

Nei giorni successivi, il quotidiano diede spazio alle discussioni alla Costituente, mettendo in risalto soprattutto la contrarietà al Trattato[10].

La notizia della firma del Trattato fu data in prima pagina, ma senza commenti[11].

Pochi giorni dopo, fu ancora il direttore Filippo Burzio a chiosare con forte apprensione il difficile momento[12]. Oltre all’angoscia per una nuova dittatura di Destra o di Sinistra che sembrava volersi imporre sull’Italia, il direttore aveva il forte timore che «nuovi funesti conflitti intestini, ispirati a speculazioni nazionalistiche sull’ingiusta pace firmata ieri a Parigi, vengano a straziare ulteriormente il corpo della Patria». A questo riguardo, menzionava alcuni episodi avvenuti nei giorni precedenti, attentati dinamitardi a Gorizia e a Trieste; l’uccisione di un generale inglese a Pola; in ultimo una violenta rissa davanti all’Altare della Patria.

La revisione del Trattato non poteva passare attraverso la violenza, «la via della rissa faziosa», ma dalla «concordia pacifica e operosa», in caso contrario l’Italia sarebbe stata definitivamente «perduta (come è oggi la Germania) e scenderà, per quanto sembri impossibile, più ancora in basso nell’abisso della sua perdizione».

La scomparsa politica del nostro Paese dalla scena internazionale, se pur auspicata da qualche Nazione «troppo tenace nel suo rancore», avrebbe comportato un’Italia straziata e divisa, percorsa dalle fasi incendiarie della guerra civile, un vero focolaio di destabilizzazione per l’intera area geopolitica, non più costituita da «paratie stagne regionali o continentali» bensì da Paesi in strettissimo collegamento fra loro. Per queste motivazioni, il direttore Burzio riteneva fondamentale una revisione delle clausole più vessatorie del Trattato, fra cui rientrava soprattutto la perdita delle colonie africane prefasciste, «[…] la piaga che brucia di più, in quanto corrisponde ad una più rovente ingiustizia».

In conclusione, il giornalista auspicava l’avvento di un nuovo Cavour che, «raccogliendo la bandiera d’Italia dal fango della Pace di Parigi riunisca intorno a sé l’unanimità nazionale per una pacifica e laboriosa ripresa, nella collaborazione europea e mondiale».

La firma del Trattato non significava la ratifica, demandata all’Assemblea Costituente che decise di consegnare la ratifica dopo che il Trattato fosse divenuto esecutivo a norma dell’articolo 90 e quindi fosse stato approvato da tutte le quattro potenze. La Gran Bretagna ratificò il 29 aprile; gli Stati Uniti il 9 maggio e l’URSS a fine agosto. Il Trattato entrò in vigore per l’Italia il 15 settembre 1947[13].

Nel dettaglio, il Trattato stabiliva riguardo alle nostre colonie «che le potenze avrebbero dovuto decidere […] entro un anno dall’entrata in vigore del Trattato, pena il deferimento della questione all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Nel verificarsi di questa eventualità, le potenze si impegnavano inoltre ad accettare le raccomandazioni dell’Assemblea Generale sulle misure necessarie per darvi attuazione»[14]. A metà del 1947 venne formata una Commissione d’inchiesta fra le quattro potenze che, non arrivando ad alcuna soluzione, apriva la strada all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

Il quotidiano seguì lo svolgersi delle sedute della Commissione molto attentamente e con forte spirito critico, mettendo in risalto l’ostilità britannica alle richieste italiane[15]. In effetti, l’interesse dell’Inghilterra era di avere basi militari nell’area Palestina-Egitto-Cirenaica[16] e di instaurare sulla Somalia una sorta di protettorato informale[17].

L’atteggiamento del giornale verso la Commissione Internazionale, che doveva redigere un rapporto sulle ex colonie, può essere colto attraverso un breve fondo di Giulio De Benedetti, il nuovo direttore del quotidiano dalla fine del gennaio del 1948, significativamente intitolato La promessa del marinaio[18].

Il giornalista iniziava argomentando che il rapporto della Commissione Internazionale per le ex colonie italiane era unanime su un punto: «Si tratta di territori in gran parte deserti, per sfruttarli sono necessari ingenti capitali e moderni mezzi tecnici». Su questo aspetto, oltre che su ragioni strategiche, insisteva l’Inghilterra per liberare l’Italia da un «peso che è pronta a sopportare in vece nostra». Il direttore ammetteva che era stato sicuramente un errore aver profuso energie e capitali in terre così povere e inospitali, ma ricordava altresì le imprese poderose compiute in alcuni decenni. Inoltre, rammentava, in modo retorico, quanto gli Italiani fossero legati sentimentalmente a quelle terre.

De Benedetti esortava gli Inglesi a dire chiaramente se volevano le nostre colonie e ad affermare, senza ipocrisie, «avete fatto la guerra e l’avete perduta, ora pagateci il prezzo della sconfitta», e poiché «amano il gioco onesto potrebbero aggiungere abbiamo anche affermato che il nostro nemico non era il popolo italiano ma il fascismo, che abbattuta con il vostro aiuto la tirannia vi avremmo accolti come alleati», ma alla fine le promesse non sarebbero state mantenute.

Il direttore concludeva argomentando che i governi, almeno quelli meno incauti dei marinai, avrebbero dovuto sapere che l’ora della tempesta poteva tornare.

La lunga vicenda della sistemazione delle ex colonie italiane ebbe termine all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 21 novembre 1949. La risoluzione prevedeva: 1) l’indipendenza della Libia, comprendente la Cirenaica, la Tripolitania e il Fezzan; 2) un’amministrazione fiduciaria sulla Somalia, «trusteeship», affidata all’Italia; 3) la questione dell’Eritrea fu demandata ad un’apposita Commissione d’inchiesta con il compito di presentare un progetto per la soluzione migliore.

Il governo italiano aveva tentato di conservare i possedimenti coloniali in un periodo storico in cui le grandi potenze avevano già accettato l’idea che le colonie seguissero la via dell’indipendenza nazionale, inoltre si era mostrato incapace di comprendere quanto l’assetto politico internazionale fosse mutato, con il ruolo sempre più preminente degli Stati Uniti che, insieme alla Gran Bretagna, ottennero i maggiori risultati politici, rispettivamente l’accordo militare con l’Etiopia e le basi militari in Libia[19].


Note

1 Dissertazione della tesi di laurea di Elisabetta Sensi, La Somalia nella politica estera italiana dal dopoguerra al 1960, LUISS Libera Università Internazionale degli Studi – Carlo Guidi, Facoltà di Scienze politiche, relatore professor Federico Niglia, anno accademico 2008-2009, pagine 42-43.

2 Per la politica estera italiana durante il secondo dopoguerra Silvio Beretta-Marco Mugnaini (a cura di), Politica estera dell’Italia e dimensione mediterranea: storia, diplomazia, diritti, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2009, pagina 51.
Mario N. Ferrara, La politica estera dell’Italia libera (1945-1971), Milano, Pan, 1971.
Alfonso Sterpellone, Vent’anni di politica estera, in La politica estera della Repubblica Italiana, volume II, Milano, Edizioni di Comunità, 1967.
Brunello Vigezzi, L’Italia unita e le sfide della politica estera. Dal Risorgimento alla Repubblica, Milano, Unicopli, 1997.

3 Confronta Gian Paolo Calchi Novati, L’Africa d’Italia. Una storia coloniale e postcoloniale, Roma, Carocci, 2011, pagine 351-376.
Sara Lorenzini, L’Italia e il Trattato di pace del 1947, Bologna, Il Mulino, 2007.
William Roger Louis, Imperialism at bay: the United States and the Decolonization of the British Empire, 1941-1945, New York, Oxford University Press, 1978.
Gianfranco Rossi, L’Africa italiana verso l’indipendenza (1941-1949), Milano, Giuffrè, 1980.
Rinaldo Salvadori-Pier Giacomo Magri, Il Trattato di pace con l’Italia e la questione delle ex colonie italiane (1947-1960), Parma, Studium parmense, 1972.

4 Su questo aspetto confronta Basilio Cialdea, La sorte delle colonie italiane, in «Relazioni Internazionali», XI, 1947.
Italo Papini, L’Eritrea ha ragioni di esistere?, in «Africa», II, 1947, pagine 5-6, 95.
Aspetti dell’azione italiana in Africa. Atti del Convegno di studi coloniali, Firenze, 29-31 gennaio 1946, Centro di Studi Coloniali – Università degli Studi di Firenze, Firenze 1946.
Amministrazione fiduciaria all’Italia in Africa. Atti del secondo Convegno di studi coloniali, Firenze, 12-15 maggio 1947, Centro di Studi coloniali – Università degli Studi di Firenze, Firenze 1948.
Atti del terzo Convegno di studi africani, Firenze, 3-5 giugno 1948, Centro di Studi coloniali – Università degli Studi di Firenze, Firenze 1949.
Il Congresso nazionale per gli interessi del popolo italiano in Africa, in «Africa», II, 1947, pagine 5-6, 100-102.

5 Ennio Di Nolfo, Le paure e le speranze degli Italiani 1943-1953, Milano, Mondadori, 1986.

6 Filippo Burzio, L’interesse e il rancore. La nostra flotta, «La Stampa», 2 febbraio 1947.

7 Il 24 luglio del 1947 Benedetto Croce ribadì in un discorso alla Costituente il suo dissenso verso la ratifica del Trattato. Confronta http://www.filosofico.net/crocefilosofo/crocepagee.html#discorso247, 1947.

8 Filippo Burzio, Parole inutili a Brenno, «La Stampa», 6 febbraio 1947.

9 Confronta Tito Livio, Ab urbe condita, V, 48.

10 Confronta Anonimo, La dichiarazione De Gasperi, «La Stampa», 7 febbraio 1947.
Anonimo, La protesta di De Gasperi alla Costituente contro il duro Trattato imposto all’Italia, «La Stampa», 9 febbraio 1947.
Anonimo, Perché il governo firma, «La Stampa», 9 febbraio 1947.

11 Anonimo, La pace è stata firmata, «La Stampa», 11 febbraio 1947.

12 Filippo Burzio, Ci siamo?, «La Stampa», 12 febbraio 1947.

13 Confronta Elisabetta Sensi, La Somalia nella politica estera italiana dal dopoguerra al 1960, LUISS Libera Università Internazionale degli Studi – Carlo Guidi, Facoltà di Scienze politiche, relatore professor Federico Niglia, anno accademico 2008-2009, pagina 53.

14 Confronta Elisabetta Sensi, La Somalia nella politica estera italiana dal dopoguerra al 1960, LUISS Libera Università Internazionale degli Studi – Carlo Guidi, Facoltà di Scienze politiche, relatore professor Federico Niglia, anno accademico 2008-2009, pagina 55.

15 Confronta Anonimo, Le nostre colonie, «La Stampa», 29 maggio 1947.
Italo Zingarelli, Sorte delle nostre colonie, «La Stampa», 21 settembre 1947.
Anonimo, Aspirazioni inglesi sulle nostre colonie, «La Stampa», 28 settembre 1947.
Anonimo, La sorte delle nostre colonie, «La Stampa», 2 ottobre 1947.
Anonimo, Aperta la conferenza per le nostre colonie, «La Stampa», 4 ottobre 1947.
Anonimo, Divergenze di vedute nella Commissione quadripartita, «La Stampa», 5 febbraio 1948.
Anonimo, Le nostre colonie, «La Stampa», 17 febbraio 1948.
Paolo Monelli, Che cosa hanno capito?, «La Stampa», 26 maggio 1948.
Anonimo, Pubblicato il rapporto sulle nostre ex colonie, «La Stampa», 22 luglio 1948.
Anonimo, Le richieste dell’Italia per l’amministrazione fiduciaria, «La Stampa», 31 luglio 1948.
F., Solo Russia e Francia per la restituzione, «La Stampa», 3 settembre 1948.
Edoardo Depuri, Difficile l’accordo in seno all’UNO, «La Stampa», 4 settembre 1948.
C.M.F., Perché l’Inghilterra si oppone alla restituzione, «La Stampa», 11 settembre 1948.
Domenico Bartali, La Conferenza per le colonie ha avuto inizio nel disaccordo, «La Stampa», 14 settembre 1948.
Domenico Bartali, Viscinski propone per le colonie un’amministrazione fiduciaria, «La Stampa», 15 settembre 1948.
Anonimo, La sorte delle colonie si deciderà fra un anno?, «La Stampa», 17 settembre 1948.
Edoardo Depuri, Si conferma l’adesione di Washington alla tesi inglese, «La Stampa», 26 novembre 1948.
Domenico Bartali, Come dietro le quinte si discute delle colonie, «La Stampa», 30 novembre 1948.
Domenico Bartali, Un piano di compromesso sarà presentato dalla Francia, «La Stampa», 4 dicembre 1948.
Edoardo Depuri, Gli Stati Uniti favorevoli alla tesi italiana per le colonie, «La Stampa», 5 dicembre 1948.
Anonimo, La Francia favorevole a un compromesso, «La Stampa», 15 dicembre 1948.

16 Confronta Foreign Relations of United States, volume III, The British Commonwealth; Europe, Washington, United States Government Printing Office, 1972.

17 Confronta John Drysdale, The Somali dispute, London, Pall Mall Press, 1964.
Sylvia E. Pankhurst, Ex Italian Somaliland, London, Watts, 1951.

18 Giulio De Benedetti, La promessa del marinaio, «La Stampa», 25 agosto 1948.

19 Confronta Gianfranco Rossi, L’Africa italiana verso l’indipendenza (1941-1949), Milano, Giuffrè, 1980, pagina 588.

(marzo 2012)

Tag: Daniela Franceschi, Trattato di pace, Parigi, dopoguerra, Novecento, Filippo Burzio, Italia, La Stampa, Seconda Guerra Mondiale, 10 febbraio 1947, colonie italiane.