«La Stampa» racconta la Shoah
Molti e vari furono i motivi che portarono il giornale italiano a dare della Shoa e della persecuzione degli Ebrei in Italia durante il Ventennio fascista un’immagine non corrispondente alla realtà

Prima del Secondo Conflitto, la comunità ebraica italiana contava circa 47.000 persone, che si ridussero a meno di 30.000 nel secondo dopoguerra. Una perdita così notevole è ascrivibile a svariate cause, tra le quali le abiure, le emigrazioni e le persecuzioni. Tra i sei milioni di Ebrei vittime della Shoah, vi furono anche 7.557 Ebrei Italiani[1].

Il cammino che gli Ebrei Italiani dovettero intraprendere, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, per una reintegrazione civile, sociale ed economica fu impervio e difficile.

Dal punto di vista prettamente giuridico, la rottura con la precedente legislazione razziale italiana fu risoluta; malgrado qualche resistenza iniziale del primo Governo Badoglio, e nonostante le riluttanze espresse dalla Santa Sede che nell’estate del 1943 segnalava all’Esecutivo l’esistenza nella Normativa Antiebraica di elementi «meritevoli di conferma»[2], il processo di abrogazione delle Leggi Razziali, imposto dagli Alleati con l’articolo numero 31 dell’armistizio lungo, firmato a Malta il 29 settembre del 1943, portò entro il 1947 al superamento delle norme razziste e alla restituzione dei pieni diritti civili e politici agli ex perseguitati. La storiografia più recente ha fornito un’ampia documentazione sul difficile reintegro degli Ebrei Italiani nel legittimo possesso dei beni e del lavoro che la Legislazione antisemita aveva loro tolto, inoltre ha anche delineato il contesto sociale che accompagnava questo ritorno: indifferenza, insofferenza, e alcune volte aperta ostilità.

Ancora più complesso si rivelò ritornare alla vita all’interno di una comunità nazionale in cui, come nota Guri Schwarz, «l’antisemitismo fascista non aveva riguardato la sola minoranza perseguitata e i rapaci avvoltoi che avevano profittato della sua fragilità, ma aveva coinvolto la riscrittura dei codici della cittadinanza e la formulazione – anche tramite la raffigurazione di un controtipo negativo – di una diversa concezione dell’identità nazionale, che acquisiva carattere prescrittivo»[3].

Fino agli anni Sessanta, lo sterminio degli Ebrei non fu oggetto di un’analisi approfondita in nessuna parte d’Europa; nell’Europa Orientale, soprattutto in Polonia, centro nevralgico del disegno di annientamento del popolo ebraico, dopo il 1947 fu negata la natura specificatamente razziale e antisemitica della persecuzione, inserendo gli Ebrei sterminati nel calcolo dei cittadini uccisi dalla guerra nazista, occultandone l’identità attraverso un generico anonimato.

In Occidente, non vi fu questo processo di occultamento della specificità dell’Olocausto, tuttavia non vi furono quell’attenzione e quella presa di coscienza collettiva che il genocidio ebraico avrebbe meritato.

L’elaborazione di tematiche quali le leggi razziali, la persecuzione e lo sterminio fu per gli Ebrei Italiani un processo privato, che non coinvolse la collettività; infatti, fin dalla caduta della dittatura fascista si andò progressivamente affermando un’interpretazione della politica antiebraica da cui era espunta ogni responsabilità italiana, ritenendo, erroneamente, la legislazione antisemita un’imposizione della Germania nazista, inoltre si esaltava l’inesistenza dell’antisemitismo in Italia e l’impossibilità che il popolo italiano avesse potuto collaborare con degli spietati assassini.

La glorificazione del rifiuto della normativa antisemita da parte del popolo italiano alludeva, direttamente, alla distanza che separava gli Italiani dalla dittatura fascista, non facente parte della storia italiana essendo una parentesi, dalla Repubblica Sociale, dagli orrori della guerra e dallo sterminio. La classe dirigente, politica e intellettuale, decise di fondare la nuova identità nazionale sul mito della Resistenza: il periodo fascista, e con esso le Leggi Razziali, l’alleanza con la Germania hitleriana e le persecuzioni razziali e politiche divennero un incidente nella storia e nella psicologia della Nazione, che era meglio rappresentata dal mito della Resistenza, stabilendo, di conseguenza, un antagonismo irriducibile tra il popolo italiano e il regime fascista. Questo atteggiamento autoassolutorio non rispondeva solamente a esigenze di politica internazionale, separare le sorti dell’Italia da quelle dell’ingombrante ex alleato tedesco per evitare una pace punitiva da parte dei vincitori, ma anche ai bisogni di natura psicologica di un Paese che, dovendo iniziare una difficile opera di ricostruzione, intendeva farlo senza il peso di uno scomodo passato, caratterizzato da molteplici spaccature all’interno della società civile.

Molti studi hanno evidenziato la necessità per i partiti antifascisti di una legittimazione politica; questi, consapevoli dell’adesione della maggioranza della popolazione al regime, della natura di minoranza della Resistenza e delle sue caratteristiche anche di guerra civile, avrebbero evitato di chiamare l’Italia a un risoluto confronto con il passato per non smembrare il Paese e minare il loro consenso elettorale, rivendicando, invece, l’idea di una generale ostilità degli Italiani al fascismo e presentandosi come rappresentanti di un popolo privo di colpe, protagonista di una vittoriosa guerra di liberazione nazionale sotto la leadership antifascista. La promozione di questa narrazione del passato fascista, e della Resistenza come mito fondante della Repubblica unita all’altro mito fondante, il fascismo come parentesi nella storia italiana, non riguardò soltanto le forze politiche di Sinistra desiderose di ottenere una legittimazione politica[4], ma anche le formazioni politiche moderate interessate a cancellare il coinvolgimento della popolazione italiana, soprattutto quello delle élite economiche e politiche, con il regime, addebitando tutte le colpe su Mussolini e i suoi più stretti collaboratori, favorendo così una transizione politica non dolorosa, in combinazione con un processo di epurazione molto debole[5].

Le prime riflessioni sull’Olocausto nacquero e si svilupparono coerentemente con il «paradigma antifascista», che prevedeva una narrazione edulcorata e rassicurante dell’esperienza vissuta dagli Italiani durante il conflitto[6]. Gli stessi Ebrei Italiani, desiderosi di essere nuovamente accettati nella società, acconsentirono all’utilizzo degli stereotipi proposti da tale retorica[7].

Nell’immediato secondo dopoguerra, il giornalismo italiano si conformò al clima politico e culturale dettato dal paradigma dell’antifascismo adottando linee editoriali che si confacevano ai suoi assiomi principali, quali, per esempio, la completa opposizione tra regime e società italiana[8], la contrarietà della popolazione alla svolta antisemita[9], nonché «l’affermazione di una perfetta linea di continuità – e dunque di un rapporto di filiazione – fra la resistenza opposta al fascismo nel Ventennio e la battaglia finale contro di esso ingaggiata dopo l’8 settembre»[10].

Gli storici che si sono occupati dell’atteggiamento dell’opinione pubblica nell’immediato dopoguerra sono concordi nel registrare il silenzio della stampa nazionale sul coinvolgimento degli Italiani nella deportazione e nello sterminio degli Ebrei[11]. Tuttavia, la stampa rappresenta un ambito di ricerca prezioso, poiché, riflettendo le dinamiche politiche e culturali della società contemporanea e anche le rappresentazioni collettive dell’identità nazionale, offre la possibilità di analizzare come, nell’immediato dopoguerra, si formasse la memoria della deportazione e il radicamento di narrazioni stereotipate.

Risulta di particolare interesse, quindi, studiare le modalità con cui una delle più importanti testate indipendenti, «La Stampa», si confrontò con i temi della deportazione e della Shoah. Scomparsa dalle edicole il 25 aprile del 1945, perché fortemente compromessa con la Repubblica Sociale Italiana, «La Stampa» riprendeva le pubblicazioni il 18 luglio con un nuovo nome, «La Nuova Stampa», e un nuovo direttore, Filippo Burzio, nominato dal Comitato di Liberazione Nazionale. La linea editoriale di Burzio, un personaggio particolare, antifascista e monarchico, liberale e giolittiano, si contraddistinse per la lontananza dagli «estremismi totalitari di Destra e di Sinistra».

Come la maggior parte dei giornali italiani, anche «La Nuova Stampa» adottò una linea editoriale che si adeguava al paradigma antifascista, delineando agli occhi dell’opinione pubblica l’immagine di un’Italia vittima della dittatura fascista e dell’occupazione tedesca. Inoltre il giornale si dimostrò estremamente attento allo status internazionale dell’Italia, soprattutto in occasione dei negoziati che portarono alla firma del Trattato di pace di Parigi del 10 febbraio 1947[12], denunciando in più occasioni l’accanimento delle grandi potenze contro il nostro Paese[13], specialmente in merito alla questione delle colonie.

Data questa impostazione, non sorprende che tematiche che facessero emergere un’immagine dell’Italia dissonante rispetto a quella di vittima innocente di una dittatura e di una spietata occupazione non trovassero spazio nelle pagine del quotidiano o fossero trattate in modo da enfatizzare la rappresentazione più funzionale al paradigma antifascista, come accadde nell’articolo[14] pubblicato in prima pagina che Vittorio Cerruti[15], ex ambasciatore a Berlino, dedicò all’atteggiamento di Mussolini verso i provvedimenti antisemiti della Germania hitleriana. Cerruti era stato inizialmente un sostenitore del nazionalsocialismo tedesco, per poi allontanarsene già dall’autunno del 1933 a causa della sua politica antisemita.

Il diplomatico si riferiva alla lettera che Mussolini aveva scritto al Führer in occasione della violenza antisemita scatenata da attivisti del Partito Nazionalsocialista nel marzo del 1933 in diverse regioni della Germania, con l’imbrattamento e la chiusura dei negozi appartenenti agli Ebrei e aggressioni ai giuristi ebrei nei tribunali per impedire lo svolgimento della loro attività. Subito dopo, fu indetto da parte del Partito Nazista un boicottaggio dei negozi ebraici fissato per il 1° aprile; il boicottaggio fu giustificato in quanto risposta ai primi tentativi esteri di ostacolare il commercio dei prodotti tedeschi, inoltre i vertici del Partito cercarono di imputare agli Ebrei Tedeschi la responsabilità per le crescenti critiche al nuovo Governo. Il regime nazista varò subito dopo il boicottaggio una prima serie di leggi antiebraiche che escludevano gli Ebrei dall’esercizio dell’avvocatura e da altre professioni regolamentate dallo Stato, introducendo successivamente delle quote che limitavano il numero degli studenti ebrei. Il fine ultimo di una simile linea politica era chiaramente l’espulsione degli Ebrei Tedeschi dalla vita pubblica, che si estrinsecò nei mesi seguenti con il varo di svariate misure burocratiche vessatorie e l’allontanamento dalla vita culturale[16].

Il diplomatico scriveva che era stato pubblicato un «proclama contro gli Ebrei» che prevedeva, oltre il boicottaggio dei negozi, anche l’espulsione dalle scuole, dalle biblioteche, dai teatri e dai concerti. Cerruti continuava affermando di aver informato in breve tempo del «proclama» il Governo Italiano poiché esso aveva provocato «profonda costernazione persino fra i tedesco-nazionali e che i numerosi fautori del nazismo scorgevano in esso un’arma potente posta in mano degli avversari di Hitler». Inoltre il diplomatico affermava di conoscere bene i sentimenti del Duce in proposito, che «aveva meco condannato aspramente l’antisemitismo del Führer, espressi l’avviso che una severa, ancorché elevata e personale sua parola di monito a Hitler avrebbe potuto costituire forse l’unica speranza per la revoca dei provvedimenti escogitati».

Nella parte centrale dell’articolo era riprodotto il messaggio personale di Mussolini a Hitler: «Ritengo che il proclama del partito per la lotta contro gli Ebrei, mentre non rafforzerà il nazionalsocialismo all’interno, aumenterà la pressione morale e le rappresaglie economiche del Giudaismo mondiale. Senza l’alimento fornito dal proclama la campagna sarebbe andata attenuandosi e dopo qualche tempo sarebbe cessata. Il regime fascista ha al suo attivo parecchie di queste campagne e le ha superate adottando o la tattica dell’indifferenza o quella della controffensiva per stabilire la verità in modo palese. Credo che il Governo deve invitare il partito a non dare corso pratico al suo proclama, nell’attesa che il Governo, valendosi di tutti i mezzi a sua disposizione, dalla radio alla stampa e alla diplomazia ristabilisca la verità. […] Gli stessi Ebrei Tedeschi devono essere sollecitati a dire la verità, ma dopo il proclama per essi sarà assai difficile farlo. Ogni regime ha non solo il diritto ma anche il dovere di eliminare dai posti di comando gli elementi non completamente fidati, ma per questo non è necessario, anzi può essere dannoso, portare sul terreno della razza, semitismo e arianesimo, quello che è invece semplice misura di difesa e sviluppo di una rivoluzione. Voglio credere che Hitler comprenderà la portata esatta del mio intervento e soprattutto lo spirito dal quale è animato. La questione dell’antisemitismo può sollevare contro Hitler i nemici, anche cristiani, della Germania». Cerruti continuava scrivendo che dopo pochi giorni aveva avuto la possibilità di leggere a Hitler il messaggio personale di Mussolini, che non sortì alcun effetto, infatti, secondo il diplomatico, il Führer si mostrò sempre più irritato e nervoso, fino ad affermare che, nonostante la stima che provava per il Duce, lui non «capiva nulla del problema ebraico», dato che l’Italia aveva la fortuna di avere pochi Ebrei, non scorgendo, quindi, «il pericolo che costituisce l’Ebraismo intimamente legato al bolscevismo nel mondo intero». Il colloquio con Hitler si era rivelato un completo fallimento.

Nella parte finale del suo intervento, il diplomatico scriveva che Von Neurath, Ministro degli Esteri Tedesco, si era mostrato molto preoccupato dalla campagna antigermanica, sperando che il Governo Italiano potesse condannarla attraverso una dichiarazione ufficiale o ufficiosa. A questo proposito Cerruti chiosava affermando che «Mussolini, evidentemente risentito per il categorico rifiuto del Führer di ascoltare il suo consiglio, non tenne alcun conto della richiesta del Ministro degli Esteri Germanico».

È opportuno soffermarsi su alcune informazioni contenute nell’articolo. Cerruti affermava che Mussolini aveva condannato l’antisemitismo del Führer, in realtà, come ha illustrato Giorgio Fabre, nei primi mesi del 1933 il Duce aveva provveduto ad allontanare tutti i suoi sottoposti «ebrei o con nome ebraico», inoltre in via riservata aveva invitato Hitler a rimuovere dai posti di responsabilità gli Ebrei Tedeschi senza rendere palese una persecuzione[17]. La storiografia più recente ha evidenziato come, tra il 1935 e il 1936, la «questione ebraica» avesse assunto un’importanza notevole per la politica interna e Mussolini decidesse, senza alcuna imposizione e agendo allo stesso tempo da stimolo e da mediatore all’interno del gruppo dirigente del Partito, di risolverla dando al Paese una moderna politica antisemita.

Ben prima della Legislazione Razziale contro gli Ebrei del 1938, il regime fascista aveva attuato provvedimenti razzisti e segregazionisti verso le popolazioni delle colonie considerate inferiori[18], quindi le diatribe pubbliche di Mussolini contro il razzismo tedesco devono essere correttamente correlate al fatto che «questo era contro tutti e tutto e al suo mancare di senso di equilibrio»[19], non certo al suo considerare ineluttabile una ferrea gerarchia fra le razze. Inoltre in Italia sussistevano paradigmi culturali su cui predisporre una politica di discriminazione antiebraica[20], tra i quali il tradizionale antigiudaismo cattolico[21], l’antisemitismo all’interno delle scienze biologiche e antropologiche nazionali aperte sostenitrici della nuova fase razzista[22]. L’intenzione del regime era ottenere una sorta di «spinta totalitaria», similare a quella acquisita dal nazismo attraverso l’adozione dell’ideologia razzista della «Volksgemeinschaft»[23].

È totalmente mancante nel quotidiano la trattazione, anche minima, dei provvedimenti antiebraici del 1938; una simile linea editoriale corrispondeva a un’esegesi della politica antisemita fascista, sviluppatasi subito dopo la caduta della dittatura, da cui era eliminata ogni responsabilità italiana, dato che la Legislazione Antisemita era considerata un’imposizione della Germania, inoltre era evidenziata l’inesistenza dell’antisemitismo in Italia e l’impossibilità che gli Italiani fossero stati i «volenterosi collaboratori» di spietati assassini. Si può ipotizzare che l’attenzione dedicata dal quotidiano, come dal giornalismo italiano in generale, ai processi contro i criminali nazisti non corrispondesse solamente al dovere di informare su importanti eventi internazionali, ma, attraverso l’uso di titoli molto suggestionanti, volesse rimarcare l’estraneità del popolo italiano all’antisemitismo genocidario tedesco.

Prima di trattare del tema della deportazione ne «La Nuova Stampa», risulta opportuno fare alcune considerazioni; in primo luogo, l’Italia ebbe una duplice evoluzione politica, poiché lo sbarco degli Alleati nel Sud avvenne nell’estate del 1943, mentre l’insurrezione del Nord il 25 aprile del 1945, ciò comportò che la stampa della parte settentrionale del Paese fosse ancora fascistizzata nel momento in cui gli Alleati liberavano i campi di concentramento, liberazione che ebbe una forte copertura mediatica da parte anglo-americana. Tuttavia, l’informazione sui campi di concentramento appariva frammentaria ed esigua anche in quei giornali del Sud Italia che avevano conosciuto prima la liberazione da parte degli Alleati. Inoltre è importante ricordare che la situazione del Paese era molto problematica; infatti, l’Italia che usciva dal Secondo Conflitto Mondiale era una Nazione debole sul piano internazionale, i cui tentativi per essere accettata fra le grandi potenze furono costantemente frustrati. Considerata una potenza minore dell’Asse, non le venne quindi riconosciuta la cobelligeranza come invece si aspettava, da ciò conseguì un trattamento da Paese vinto da parte delle altre potenze, intenzionate a non dimenticare il recente passato fascista. I lunghi ed estenuanti negoziati che portarono alla firma del Trattato di Parigi nel 1947 segnarono una netta sconfitta per la politica estera italiana; l’Italia dovette accettare pesanti clausole economiche e militari, nonché la perdita di tutti i possedimenti coloniali.

A una posizione marginale nell’arena politica internazionale corrispondeva una marginalità anche nell’ambito dell’informazione.

In secondo luogo, il giornalismo italiano dell’immediato dopoguerra aveva gravi problemi in ambito organizzativo e tecnico, con risorse molto limitate che lo obbligavano a pubblicare edizioni soltanto di due pagine.

L’interesse degli organi di stampa nazionali si rivolse, quindi, verso la situazione politica interna e internazionale che più coinvolgeva il presente e il futuro dell’Italia. Tale linea editoriale permetteva di evitare di porre domande difficili su un passato che doveva, invece, essere modellato sui principi del paradigma antifascista.

Il primo approccio al tema della deportazione da parte de «La Nuova Stampa» avvenne nell’agosto del 1945 attraverso un articolo di Vero Roberti[24], pubblicato in prima pagina[25]. Il giornalista, inviato a Bolzano, si soffermava su coloro che «ritornavano… i nostri, sofferenti e ammalati, dalla prigionia e dall’internamento… quasi ogni giorno rientrano dalla Germania gli internati italiani. Arrivano, febbrili di gioia, sulle tradotte e ricevono il saluto della Patria al Brennero». L’articolo di Vero Roberti non forniva alcuna informazione sugli ex deportati, infatti, sembra che siano utilizzati soprattutto in modo retorico per contrapporne le figure di poveri malati di tubercolosi («i medici li visitano e le crocerossine li assistono amorevolmente… alla fine la voce di un sanitario risuona come una condanna: anche oggi il 4% di tubercolotici! Questo è il triste rendiconto di ogni sera, dopo l’arrivo degli internati») a quelle dei cittadini italiani, «ex cittadini» italiani li definisce l’articolista, che nel biennio 1939-1940 avevano optato per la nazionalità tedesca e si erano trasferiti in Germania, per poi rientrare nuovamente in Italia. Roberti evidenziava la differenza tra «questi ritorni in Italia; lungo la stessa strada ritornano gli internati italiani che soffrirono la più crudele delle prigionie e dall’altra migliaia di stranieri che hanno combattuto contro l’Italia e che forse hanno martirizzato i nostri connazionali nei Gefangenenlager. I primi tornano ammalati, bisognosi di cure e di pace; gli altri, invece, ritornano ancora dominati dall’oscuro potere di un odio teutonico a rubarci le case e il lavoro e a tradirci adesso per l’Austria nello stesso modo come ci tradirono ieri per la Germania?».

Nella parte conclusiva, il giornalista invocava un intervento del Governo Italiano, poiché «gli Italiani dell’Alto Adige vorrebbero conoscere a questo proposito il punto di vista del Governo Italiano perché fino a oggi non hanno altro che questa probabilità: preparare i bagagli per scendere a Sud di Salorno. Gli Italiani dell’Alto Adige sono soffocati dall’invadenza tedesca e chiedono che si faccia qualcosa per difendere questa loro e nostra terra dove tanto lavoro italiano è stato speso e dove tanti sacrifici sono stati sopportati».

L’unico successo italiano del Trattato di pace di Parigi del 10 febbraio 1947 fu appunto il mantenimento del Brennero; mentre l’accordo De Gasperi-Gruber, siglato dai Ministri degli Esteri di Italia e Austria, assicurava la tutela etnica, culturale ed economica della minoranza tedesca in Alto Adige.

Il primo accenno allo sterminio ebraico è rintracciabile nell’articolo[26], pubblicato in prima pagina nel settembre del 1945, di Ercole Moggi[27]; è importante evidenziare che si tratta di un accenno molto breve, senza alcuna informazione più dettagliata, infatti l’attenzione del giornalista è rivolta soprattutto verso i partigiani internati nei campi tedeschi. Il giornalista iniziava l’articolo paragonando il ricordo della città di Verona come era un tempo, «dove la vita era così confortevole e il suo centro urbano ti riportava di colpo qualche secolo addietro nella fulgente età degli Scaligeri», alla situazione attuale, «una delle città più martoriate dalla guerra». In mezzo a tante rovine, l’attivismo delle associazioni e dei comitati che prestavano assistenza ai «nostri reduci dai crudi campi della prigionia e della deportazione tedesca». Il giornalista ammetteva, anche attraverso le informazioni ricevute da persone del luogo, che all’inizio era stato molto difficile coordinare gli aiuti, tuttavia il problema era stato risolto con la creazione di un centro unico di smistamento, situato a Pescantina, a circa 20 chilometri da Verona. Dopo aver descritto l’aspetto del campo, «50 o 60 baracche di legno compensato anche di bell’aspetto», e la sua organizzazione, il giornalista aveva avuto la possibilità di parlare con gli ex deportati. Moggi scriveva che «tutti avrebbero una lunga serie di sofferenze da narrare, ma tutte si eguagliano: fame, freddo, umiliazioni, bastonate». Il giornalista si soffermava sull’esperienza di un giovane di Domodossola, che raccontava di essere stato presente nel settembre del 1944 «agli inizi vittoriosi della Divisione Piave, comandata da Carletto per la conquista dell’Ossola che fu conclusa dopo qualche giorno con l’entrata in Duomo esultante delle divisioni agli ordini di Superbi e di Alfredo Di Dio e delle due formazioni di garibaldini comandate da Moscatelli». Il giovane era stato rastrellato insieme a molti altri compagni ossolani e condotto prima a Intra e poi al carcere milanese di San Vittore. L’interlocutore del giornalista continuava affermando che durante il soggiorno nei campi in Germania era corsa voce che Hitler intendesse «liquidare» tutti i prigionieri presenti nei campi, «il barbaro proposito si era già iniziato, com’è noto, sugli Ebrei». Dopo che i Russi invasero la Germania, i deportati italiani ebbero un misero miglioramento delle loro condizioni, infatti i Sovietici requisirono le poche provviste che erano riusciti a procurarsi, inoltre erano sempre sorvegliati da sentinelle. Entro breve tempo gli internati italiani ripararono nelle zone occupate dagli Angloamericani, dove ebbero un trattamento migliore, di cui «i nostri reduci serbano il più riconoscente ricordo».

Dall’esame di questi primi articoli è possibile trarre alcune considerazioni; nell’immediatezza della fine del Conflitto, l’attenzione del giornale era rivolta alla figura del deportato politico o militare, non al deportato per motivazioni razziali, infatti Anna Rossi-Doria osserva come nell’opinione pubblica del tempo sussistesse un’importante differenza tra i deportati politici e gli Ebrei, poiché «i deportati politici furono considerati e si considerano fin dall’inizio i più simili ai partigiani, non solo perché molti di loro lo erano stati, ma anche perché comunque pagavano nel lager il prezzo, in qualche modo messo in conto, di una consapevole scelta antifascista compiuta in precedenza. Quest’ultima li differenziava sia dagli Ebrei, che entravano nel campo di sterminio per ciò che erano, non per ciò che facevano, sia dagli internati militari, che erano prigionieri di guerra, anche se, come vedremo, privi dei diritti di questi. […] Il deportato politico era stato un resistente, un protagonista attivo della lotta di liberazione, non una vittima: poteva quindi legittimamente rappresentare la deportazione. Non a caso il simbolo di quest’ultima fu per tutto il primo periodo Buchenwald, non Auschwitz»[28].

La tendenza della stampa antifascista, e della stampa in generale, a equiparare le vittime della persecuzione razziale a quelle della persecuzione politica portò in secondo piano la specificità dell’Olocausto. Tale fenomeno fu molto articolato, infatti deve essere contestualizzato all’interno della più generale tendenza delle opinioni pubbliche europee a rimuovere la memoria di quella vicenda, e soprattutto il consenso o la complicità di ampi settori delle società nazionali alle politiche di persecuzione e sterminio degli Ebrei[29].

Lentamente, tuttavia, il genocidio ebraico catturò l’attenzione del giornale, che diede ampio spazio ai resoconti dei processi[30], tra cui naturalmente quello di Norimberga, contro i criminali nazisti. I resoconti dei processi non erano frutto di corrispondenze dei giornalisti de «La Stampa», bensì si trattava di notizie riprese da agenzie di stampa estere, come l’International News Service, l’United Press e l’Overseas News Agency. I titoli e i temi scelti dal giornale per descrivere le inaudite violenze perpetrate ai danni degli Ebrei e degli altri perseguitati sembravano avere la funzione di impressionare, più che di informare il lettore. Come è stato spesso notato, in questo periodo storico il genocidio degli Ebrei fu in qualche modo assimilato non solo alla tragedia della deportazione degli oppositori politici e dei militari, ma alla più generale morte del senso dell’umanità e del ritorno della barbarie originata dal Conflitto.

Nel processo di Norimberga «fu non solo posta tutta l’enfasi sulle sole colpe tedesche – anzi, sulle colpe di un pugno di gerarchi nazisti – oscurando le responsabilità di altri regimi e altri popoli, ma fu anche distorta la percezione della natura storica peculiare delle politiche antisemite che maturarono in Europa ben prima dell’inizio del Conflitto»[31]. In pratica, il processo fu parte di un meccanismo dell’oblio funzionale alla costruzione di una nuova identità europea. Tutto ciò era di aiuto all’Italia, che asseriva, a gran voce, la sua incolpevolezza, la sua integrità morale e la sua naturale vocazione antifascista.

La forma giornalistica maggiormente usata dai mezzi di informazione italiani per far conoscere i campi di concentramento fu la testimonianza dei sopravvissuti, a cui, tuttavia, non fu aggiunto alcun articolo di carattere «educativo». Infatti, anche se è indubbio il valore della testimonianza per il formarsi della memoria della deportazione, essa rappresenta comunque una esperienza individuale, non collettiva, parziale per sua stessa natura. Tali testimonianze furono numericamente troppo esigue per poter fornire al lettore una conoscenza omogenea e approfondita dell’universo concentrazionario nazista.

Antonio Antonucci[32] fu il giornalista de «La Stampa» che si interessò maggiormente delle testimonianze dei sopravvissuti. I primi articoli di Antonucci riguardavano la testimonianza di Bruno Piazza, avvocato ebreo di Trieste sopravvissuto ad Auschwitz. Antonucci riproponeva in due servizi[33] parti della memoria che Piazza aveva scritto subito dopo il rientro in Italia, con la speranza che qualche editore volesse pubblicarla; la morte improvvisa del suo autore ritardò di 10 anni la pubblicazione, che avvenne nel 1956 da parte della casa editrice Feltrinelli con il titolo Perché gli altri dimenticano. Il giornalista aveva lavorato sul testo, «che aspetta ancora un editore», pubblicando due articoli molto dettagliati sulla vita nel campo di Auschwitz, ricercati nella forma, inframmezzati da frasi retoriche come «orrore, orrore… tutta la vita di Auschwitz non è che un seguito di orrori», oppure «ad Auschwitz, il bastone è un personaggio di primo piano», «i Germanici tengono molto all’igiene. Questa gente da uccidere, vogliono che sia sana. È più saporito», «le donne erano sottoposte a docce bollenti, e a depilazione, testa compresa. A vederle, non sembrano nemmeno donne, queste povere bambole da vetrina, ancora in attesa di parrucca. In fondo, perché dovevano essere donne? Erano numeri».

Antonucci scrisse[34] anche del testo autobiografico di Gino Valenzano, L’inferno di Mauthausen (come morirono 5.000 deportati italiani)[35]. Ogni pagina, scriveva il giornalista, recava con sé raccapriccio, «il mimino che si può dire. Per quanto abituati a racconti che fermano il respiro a ogni cuore appena sensibile, si resta sgomenti». Antonucci proseguiva scrivendo dell’arresto di Gino Valenzano e del fratello, per poi lasciare idealmente la parola all’autore del libro, il cui obiettivo era soltanto quello di documentare in modo esatto, infatti il giornalista affermava che il testo «è poco più di un rapporto. Presentato da chi, essendo sfuggito agli orrori dell’apocalisse, ne riferisca, non agli uomini, ma a potenze superiori, per semplice esattezza. Va compulsato come documento». Lo stesso Valenzano scriveva che «il libro è scritto come un reportage di uno scampato all’apocalisse e informa gli uomini con un solo scopo: quello di precisare. I deportati erano ammassati, compressi, interamente nudi, circa 200 di numero in ogni vagone, e così, senza tregua, erano condotti a Mauthausen […] È facile immaginare il caos che nasceva in quei vagoni dopo alcune ore. L’odore. La debolezza. La fame, la sete. Alcuni tentarono come matti di leccare l’acqua che colava dal tetto lungo le pareti del vagone. Ci fu chi perse la sua serenità e credette di vedere la sua casa […]. Alcuni arrivarono cadaveri. Altri, usciti di senno, vennero subito uccisi».

I libri di Valenzano e Piazza non furono le uniche opere sulla deportazione e sullo sterminio pubblicate in Italia; infatti, dal 1944 al 1950 furono dati alle stampe 38 libri da parte di piccole case editrici, nel dettaglio due nel 1944, tredici nel 1945, diciassette nel 1946, tre nel 1947, due nel 1948 e uno nel 1950.

Il giornale non si interessò di queste opere, a esclusione di Se questo è un uomo di Primo Levi[36], a cui Arrigo Cajumi[37], scrittore e critico letterario, dedicò un’ampia recensione[38] pubblicata in prima pagina. Il libro di Levi fu recensito anche da Italo Calvino, Cesare Cases e Umberto Olobardi[39]; tutti ne apprezzarono l’alto valore letterario e testimoniale[40]. Se questo è un uomo uscì nelle librerie l’11 ottobre del 1947 nella collana «Biblioteca Leone Ginzburg (Documenti e studi per la storia contemporanea)» della piccola casa editrice De Silva, con in copertina una riproduzione di L’esecuzione del 3 maggio di Goya. Ne furono stampate 2.500 copie, ma le vendite non superarono le 1.500.

Cajumi aveva incollato sul libro Se questo è un uomo di Primo Levi la pagina del giornale che riportava una notizia appresa durante il processo di Norimberga; un internato francese aveva tradotto, per conto delle truppe russe che avevano liberato Auschwitz, la corrispondenza tra l’officina della Bayer, facente capo all’azienda chimica I. G. Farben, e il comando del campo: 150 donne erano state vendute come cavie a 170 marchi a testa per la produzione di un nuovo sonnifero.

Tre immagini rimanevano incancellabili nella memoria: «la partenza per Fossoli e l’arrivo ad Auschwitz; la scena dell’eliminazione degli inadatti da mandare nella camera a gas; lo spettacolo del campo abbandonato ai malati e ai moribondi, mentre l’esercito sovietico sopraggiunge. Di queste tre agonie, il Levi è pittore stupendo, senz’ombra di retorica, o di declamazione; parlano i fatti, e il sentimento». Cajumi paragonava lo stile «lindo e conciso, che ignora i partiti, e arriva naturalmente all’arte» di Levi a quello di David Rousset, il cui Univers Concentrationnaire[41], pubblicato in italiano dalla Longanesi con il titolo Dio è caporale, era considerata l’opera di «un letterato surrealista e di un militante politico, e riesce meno del nostro chimico». In effetti, Rousset scrisse il libro come militante politico, tuttavia è opportuno ricordare che l’esperienza di un deportato politico non potrà mai essere sovrapposta a quella di un deportato ebreo; Buchenwald, dove fu internato Rousset, non era Auschwitz, le loro stesse memorie naturalmente sono divergenti. Inoltre a due anni dalla fine della guerra era ancora difficile cogliere la specificità dello sterminio ebraico, quindi la differenza tra campi di concentramento e di sterminio non era percepita, dato che la conoscenza del mondo concentrazionario nazista era ancora alla fase embrionale.

Il critico continuava soffermandosi sul valore testimoniale del libro, poiché «la memoria degli uomini è corta, e la loro follia incredibile», notando come il dovere della memoria trovasse molti ostacoli, poiché «molti hanno già dimenticato, trovano di cattivo gusto chi ricorda, e si sofferma sulle caratteristiche della guerra recente: lo sterminio per mezzo del campo di concentramento, la tortura nelle prigioni, il massacro dall’aria».

Nella parte conclusiva della recensione, Cajumi raccomandava la lettura, accanto al libro di Primo Levi, de Il sentiero dei nidi di ragno[42] di Italo Calvino, «tanto il primo è misurato e austero, quanto l’altro giovanilmente sboccato ed estroso».

Cajumi scriveva nella conclusione che alla fine del libro di Calvino si profilava «il tenue chiarore dell’alba: tutto nero e desolato, quello del Levi. Non dimenticheremo tanto presto le loro immagini».

Come accennato in precedenza, il libro di Levi non fu un successo editoriale, venne riscoperto soltanto nel 1958 con la ristampa da parte della stessa Einaudi che lo aveva in precedenza rifiutato, destino che lo accomunò agli altri libri sulla memoria della deportazione, infatti, ancora oggi è difficile reperire quei testi pubblicati tra il 1945 e il 1947, prova della loro limitata diffusione.

La mancata ricezione editoriale e di pubblico dei libri sulla deportazione, che coincideva con l’insufficiente interesse del giornalismo italiano di cui «La Nuova Stampa» è un esempio importante, rifletteva il contesto culturale e politico dell’Italia dell’immediato dopoguerra: un Paese ridotto in macerie, con un passato difficile e ingombrante, voleva dimenticare le pagine più buie della sua storia nazionale, soprattutto quelle relative al ruolo avuto nella persecuzione e nello sterminio degli Ebrei.


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Note

1 L. Picciotto Fargion, La liberazione dai campi di concentramento e il rintraccio degli Ebrei Italiani dispersi, in Il ritorno alla vita: vicende e diritti degli Ebrei in Italia dopo la Seconda Guerra Mondiale, a cura di M. Sarfatti, Giuntina, Firenze 1998; B. Mayda, Storia della deportazione dall’Italia, 1943-1945. Militari, Ebrei e politici nei lager del Terzo Reich, Bollati Boringhieri, Torino 2002.

2 La citazione è tratta dalla relazione del 29 agosto 1943 di Padre Tacchi Venturi al Cardinale Maglione, Segretario di Stato Vaticano, in Actes et documents du Saint Siège relatifs à la Seconde Guerre Mondiale, volume IX, Le Saint Siège et le victimes de la guerre, Città del Vaticano 1975, pagina 459.

3 G. Schwarz, Ritrovare se stessi. Gli Ebrei nell’Italia post fascista, Laterza, Roma-Bari 2004, pagina 8.

4 Confronta P. G. Zunino, La Repubblica e il suo passato. Il fascismo dopo il fascismo, il comunismo, la democrazia: le origini dell’Italia contemporanea, Il Mulino, Bologna 2003, pagina 215 e pagina 283 e seguenti.

5 Confronta G. Oliva, L’alibi della resistenza, Mondadori, Milano 2003, pagine 67-81.

6 Confronta F. Focardi, La guerra della memoria. La resistenza nel dibattito pubblico italiano dal 1945 ad oggi, Laterza, Roma-Bari 2005, pagina 4 e seguenti.

7 Confronta G. Schwarz, Identità ebraica e identità italiana nel ricordo dell’antisemitismo fascista, in La memoria della Legislazione e della persecuzione antiebraica nella storia dell’Italia Repubblicana, Franco Angeli, Milano 1999, pagine 29-43; Idem, Gli Ebrei Italiani e la memoria della persecuzione fascista, 1945-1955, «Passato e Presente», numero 47, 1999, pagine 109-130; E. Traverso, Auschwitz e gli intellettuali. La Shoah nella cultura del dopoguerra, Il Mulino, Bologna 2004, pagine 28-31; E. Guida, La strada di casa. Il ritorno in Italia dei sopravvissuti alla Shoah, Viella, Roma 2017.

8 FP. Corner, L’opinione popolare nell’Italia fascista degli anni Trenta, in Il consenso totalitario. Opinione pubblica e opinione popolare sotto fascismo, nazismo e comunismo, a cura di P. Corner, Laterza, Roma-Bari 2012, pagine 127-154. Dello stesso autore si veda anche Fascismo e controllo sociale, in «Italia contemporanea», numero 228, 2002, pagine 381-405. Sul tema, confronta E. Gentile, La via italiana al totalitarismo: il partito e lo Stato nel regime fascista, Carocci, Roma 2008; F. Cordova, Il «consenso» imperfetto. Quattro capitoli sul fascismo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010.

9 F. Focardi, Alle origini di una grande rimozione. La questione dell’antisemitismo fascista nell’Italia dell’immediato dopoguerra, in «Horizonte», IV, 1999; La percezione della Shoah in Italia nell’immediato dopoguerra: 1945-1947, in Storia della Shoah in Italia. Vicende, memorie, rappresentazioni, a cura di M. Flores, S. Levis Sullam, M.-A. Matard-Bonucci, UTET, Torino 2010, volume II.

10 F. Focardi, Il cattivo Tedesco e il bravo Italiano. La rimozione delle colpe della Seconda Guerra Mondiale, Laterza, Roma-Bari 2013, pagina 53. Il tema della distinzione tra popolazione italiana e regime fascista era già stato utilizzato dagli Alleati per dividere il fronte interno prima della firma dell’armistizio nel 1943, acquisito in seguito dalle forze antifasciste per migliorare lo status dell’Italia nell’arena politica internazionale e, contemporaneamente, per ottenere da parte delle stesse forze antifasciste al Governo una importante legittimazione. Sulla propaganda Alleata in Italia, confronta M. Piccialuti Caprioli, Radio Londra 1939-1945, Laterza, Roma-Bari 1979 e Radio Londra (1940-1945). Inventario delle trasmissioni per l’Italia, a cura di M. Piccialuti Caprioli, 2 volumi, Ministero per i beni culturali e ambientali, Roma 1980; L. Mercuri, Guerra psicologica. La propaganda anglo-americana in Italia 1942-1946, Archivio Trimestrale, Roma 1983; A. Pizzaroso Quintero, Stampa, radio e propaganda. Gli Alleati in Italia 1943-1946, Franco Angeli, Milano 1989; G. Gabrielli, La propaganda anglo-americana alla radio in Italia (1943-1945) in La Seconda Guerra Mondiale e la sua memoria, a cura di P. Craveri, G. Quagliariello, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006, pagine 9-60; M. Affinito, La propaganda dell’Office of War Information e gli esuli antifascisti negli Stati Uniti: l’«Hymn of the Nations», pagine 81-101. Sulla legittimazione ottenuta dalle forze al Governo attraverso il paradigma antifascista, confronta B. Cialdea, L’Italia e il trattato di pace, in La politica estera della Repubblica Italiana, a cura di M. Bonanni, volume II, Edizioni di Comunità, Milano 1967; F. Focardi, L. Klinkhammer, La difficile transizione: l’Italia e il peso del passato, in Nazione, interdipendenza, integrazione. Le relazioni internazionali dell’Italia (1917-1989), a cura di F. Romero, A. Varsori, volume 1, Carocci, Roma 2006.

11 Sul ruolo della Repubblica Sociale di Salò nella persecuzione degli Ebrei, confronta A. Osti, Caino a Roma. I complici romani della Shoah, Cooper, Roma 2005; E. Collotti (a cura di), Ebrei in Toscana tra occupazione tedesca e RSI, Carocci, Roma 2007; L. Ganapini, I persecutori italiani, in Storia della Shoah in Italia, pagine 454-476; S. Berger (a cura di), I signori del terrore. Polizia nazista e persecuzione antiebraica in Italia (1943-1945), Cierre, Verona 2016; M. Stefanori, Ordinaria amministrazione. Gli Ebrei e la Repubblica Sociale Italiana, Laterza, Roma-Bari 2017.

12 Per l’atteggiamento del giornale durante le trattative, confronta D. Franceschi, L’Italia e il Trattato di pace di Parigi del 10 febbraio 1947, http://www.storico.org/italia_boom_economico/trattato_pace.html, marzo 2012.

13 Per l’importanza della Somalia nella politica estera italiana, confronta E. Sensi, La Somalia nella politica estera italiana dal dopoguerra al 1960, Tesi di laurea, relatore Professor Federico Niglia, LUISS Libera Università Internazionale degli Studi – Carlo Guidi, anno accademico 2008-2009, pagine 42-43. Per la politica estera italiana durante il secondo dopoguerra, confronta A. Sterpellone, Vent’anni di politica estera, in La politica estera della Repubblica Italiana, volume II, Edizioni di Comunità, Milano 1967; M. N. Ferrara, La politica estera dell’Italia libera (1945-1971), Pan, Milano 1971; R. Salvadori-P. G. Magri, Il trattato di pace con l’Italia e la questione delle ex colonie italiane (1947-1960), Studium parmense, Parma 1972; W. R. Louis, Imperialism at bay: the Unites States and the Decolonization of the British Empire, 1941-1945, Oxford University Press, New York 1978; G. Rossi, L’Africa italiana verso l’indipendenza (1941-1949), Giuffrè, Milano 1980; B. Vigezzi, L’Italia unita e le sfide della politica estera. Dal Risorgimento alla Repubblica, Unicopli, Milano 1997; S. Lorenzini, L’Italia e il trattato di pace del 1947, Il Mulino, Bologna 2007; S. Beretta-M. Mugnaini (a cura di), Politica estera dell’Italia e dimensione mediterranea: storia, diplomazia, diritti, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009, pagina 51; G. P. Calchi Novati, L’Africa d’Italia. Una storia coloniale e postcoloniale, Carocci, Roma 2011, pagine 351-376.

14 Vittorio Cerruti, Mussolini e gli Ebrei, «La Nuova Stampa», 12 settembre 1945.

15 Per la figura di Cerruti, confronta J. Petersen, Hitler e Mussolini, la difficile alleanza, Laterza, Roma-Bari 1975, pagine 108, 323, 149-152, 368-369.

16 Su questa prima fase della persecuzione antiebraica in Germania, confronta U. Adam, Judenpolitik im Dritten Reich, Droste, Düsseldorf 1972; A. Barkai, From Boycott to Annihilation: The Economic Struggle of German Jews 1933-1943, University Press of New England, Hanover NH 1989; S. Friedländer, La Germania nazista e gli Ebrei, volume 1: Gli anni della persecuzione, Garzanti, Milano 1998; W. L. Shirer, Qui Berlino. 1938-1940. Radiocronache dalla Germania nazista, Il Saggiatore, Milano 2012; Idem, Storia del Terzo Reich, Einaudi, Torino 2014. Per un confronto tra la Legislazione antiebraica italiana e quella tedesca, confronta V. Di Porto, Le leggi della vergogna. Norme contro gli Ebrei in Italia e in Germania, prefazione di Francesco Margiotta Broglio e Ugo Caffaz, Le Monnier, Firenze 1999.

17 Su Mussolini, il fascismo e la politica antiebraica tra gli anni Venti e i primi anni Trenta, confronta G. Fabre, Mussolini e gli Ebrei alla salita al potere di Hitler, in «La rassegna mensile di Israel», LXIX, 1 (gennaio-aprile 2003), pagine 187-222; Idem, Il contratto. Mussolini editore di Hitler, Dedalo, Milano 2005; Idem, Mussolini razzista. Dal socialismo al fascismo: la formazione di un antisemita, Garzanti, Milano 2005; Idem, I volenterosi collaboratori di Mussolini. Un caso di antisemitismo del 1931, in «Quaderni di storia», 68 (luglio-dicembre 2008), pagine 88-122.

18 Confronta D. Franceschi, La politica della razza nelle colonie italiane negli anni del fascismo, http://www.storico.org/italia_fascista/politica_razzacolonie.html, gennaio 2012.

19 Confronta Benito Mussolini, Teutonica, «Il popolo d’Italia», 26 maggio 1934.

20 Confronta M. Sarfatti, Gli Ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Einaudi, Torino 2000.

21 Confronta G. Rigano, Storia, memoria e bibliografia delle leggi razziste in Italia, in Leggi del 1938 e cultura del razzismo. Storia, memoria, rimozione, a cura di M. Beer, A. Foa, I. Iannuzzi, Viella, Roma 2010, pagine 205-208.

22 Confronta G. Israel, P. Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, Il Mulino, Bologna 1998; R. Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, La Nuova Italia, Firenze 1999; F. Cassata, Molti, sani e forti: l’eugenetica in Italia, Bollati Boringhieri, Torino 2006. G. Israel, Il fascismo e la razza. La scienza italiana e le politiche razziali del regime, Il Mulino, Bologna 2010.

23 Confronta M.-A. Matard-Bonucci, L’Italia fascista e la persecuzione degli Ebrei, Il Mulino, Bologna 2007.

24 Giornalista, scrittore, inviato speciale per molte testate giornalistiche. Tra i suoi lavori si segnalano: La guerra sul mare 1940-1943; Il mito della Mary Celeste. Confronta E. Sterpa, Il mio giornalismo, Greco editori, Milano 2001, pagina 25; P. L. Vercesi, L’Italia in prima pagina: i giornalisti che hanno fatto la storia, Brioschi editore, Milano 2008, pagina 227.

25 Vero Roberti, Ritornano…, «La Nuova Stampa», 23 agosto 1945.

26 Ercole Moggi, Tra prigionieri e deportati che tornano dalla Germania, «La Nuova Stampa», 26 settembre 1945.

27 Giornalista e inviato, nacque nel 1878. Prima di lavorare per la «La Stampa», era stato redattore del periodico cattolico «Il Momento». Morì nel 1952. Confronta L. Frassati, Un uomo, un giornale. Alfredo Frassati, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1978, pagine 160-161.

28 A. Rossi-Doria, Memoria e storia: il caso della deportazione, Rubbettino, Catanzaro 1998, pagina 38.

29 Confronta E. Collotti, Il razzismo negato, in Idem (a cura di), Fascismo e antifascismo. Rimozioni, negazioni, revisioni, Laterza, Roma-Bari 2000, pagine 355-375; F. Levi, Italian Society and Jews after the Second World War: Between Silence and Reparation, in J. Dunnage (a cura di), After the War. Violence, Justice, Continuity and Renewal in Italian Society, Troubador, Market Harbour 1999, pagine 21-33; F. Focardi, Alle origini di una grande rimozione. La questione dell’antisemitismo fascista nell’Italia dell’immediato dopoguerra, in «Horizonte», IV, 1999, pagine 135-170.

30 Confronta I capi nazisti alla sbarra, «La Nuova Stampa», 19 ottobre 1945. Goering, Hess e 18 soci dinanzi ai giudici alleati, «La Nuova Stampa», 21 novembre 1945. Implacabile requisitoria contro i delitti del nazismo, «La Nuova Stampa», 22 novembre 1945. Sensazionali documenti sui sanguinari progetti di Hitler, «La Nuova Stampa», 24 novembre 1945. Tragiche visioni dei campi di sterminio, «La Nuova Stampa», 30 novembre 1945. Keitel e Ribentropp responsabili dei massacri compiuti in Polonia, «La Nuova Stampa», 2 dicembre 1945. Il bestiale trattamento verso i lavoratori deportati, «La Nuova Stampa», 13 dicembre 1945. Il ghetto di Varsavia, «La Nuova Stampa», 14 dicembre 1945. Himmler assetato di sangue, «La Nuova Stampa», 15 dicembre 1945. Rapaci piani di annessione, «La Nuova Stampa», 18 dicembre 1945. I predatori nazisti, «La Nuova Stampa», 19 dicembre 1945. Il complotto nazista per la conquista della Cecoslovacchia, «La Nuova Stampa», 4 dicembre 1945. Uno specialista per gli Ebrei, «La Nuova Stampa», 4 gennaio 1946. La sadica ferocia di Franck, «La Nuova Stampa», 11 gennaio 1946. Dachau, «La Nuova Stampa», 12 gennaio 1946. L’incendio del Reichstag, «La Nuova Stampa», 17 gennaio 1946. Ventotto aguzzini di Dachau impiccati, «La Nuova Stampa», 30 maggio 1946. Il tranello di Klesheim. L’Ungheria sotto il tallone nazista, «La Nuova Stampa», 26 maggio 1946. Un milione di Ebrei. L’Ungheria sotto il tallone nazista, «La Nuova Stampa», 9 giugno 1946. La pena di morte chiesta per Goering e soci, «La Nuova Stampa», 27 luglio 1946. Ultime ore a Norimberga, «La Nuova Stampa», 29 settembre 1946. Il supplizio del silenzio, «La Nuova Stampa», 10 ottobre 1946. Streicher impazzisce, «La Nuova Stampa», 13 ottobre 1946. Muoiono a poco a poco nel silenzio che li circonda, «La Nuova Stampa», 12 ottobre 1946. Il campo degli orrori, «La Nuova Stampa», 23 marzo 1947. Ventidue impiccati, «La Nuova Stampa», 28 maggio 1947.

31 Confronta G. Schwarz, Ritrovare se stessi, pagina 127.

32 Giornalista e inviato speciale, nacque nel 1895. Prima di lavorare alla «Stampa», aveva fatto parte del «Popolo» di Trieste. Fervente fascista, aveva salutato con entusiasmo le Leggi razziali del 1938. Nel 1948, vinse la prima edizione del premio Saint-Vincent per il giornalismo. Morì a Milano nel 1975. Confronta S. Luzzatto, «Partigia». Una storia della resistenza, Mondadori, Milano 2013, pagine 176-177; A. Signoretti, La stampa in camicia nera, G. Volpe, Roma 1968, pagina 206; F. Contorbia, Giornalismo italiano, volume 3, Mondadori, Milano 2007, pagina 1.797.

33 Antonio Antonucci, Il campo della morte. Un redivivo racconta, «La Nuova Stampa», 14 ottobre 1945. Idem, Sala d’aspetto per forno crematorio, «La Nuova Stampa», 18 ottobre 1945.

34 Antonio Antonucci, Come morirono 5.000 italiani, «La Nuova Stampa», 16 dicembre 1945.

35 Gino Valenzano, L’inferno di Mauthausen (come morirono 5.000 deportati italiani), S.A.N., Torino 1945.

36 Su Primo Levi, confronta C. Angier, The Double Bond: Primo Levi, a Biography, Farrar, Strass and Giroux, New York 2002; I. Thompson, Primo Levi, Hutchinson, London 2002.

37 Giornalista e critico letterario, nacque nel 1899. Entrato nella redazione de «La Stampa» nel 1921, la lasciò nel 1928 per l’opposizione al fascismo. Cajumi si distinse per la varietà dei suoi interessi. Esordì a «La Stampa» in qualità di critico letterario, ottenendo immediatamente un grande successo di pubblico. Subì l’ostracismo del regime, dovendo allontanarsi dal giornalismo, per poi tornarvi dopo la fine del Secondo Conflitto, collaborando di nuovo con «La Stampa», «La Nuova Europa», «Lo Stato moderno» da lui stesso fondato, e «Il Mondo» di Pannunzio. Divenne anche critico teatrale per «L’Illustrazione italiana». Morì nel 1955. Confronta la voce, curata da Felice Del Beccaro, in Dizionario Biografico degli Italiani, volume XXVI, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1973.

38 Arrigo Cajumi, Immagini indimenticabili, «La Nuova Stampa», 26 novembre 1947.

39 Italo Calvino, Un libro sui campi della morte: «Se questo è un uomo», «L’Unità», 6 maggio 1948; Cesare Cases, Levi racconta l’assurdo, «Bollettino della Comunità Israelitica di Milano», maggio-giugno 1948; Umberto Olobardi, «Il Ponte», 3, 1948, pagine 281-282.

40 Sulla ricezione delle opere di Primo Levi in Italia e all’estero, confronta E. Ferrero, Primo Levi in Italia, in La manutenzione della memoria. Diffusione e conoscenza di Primo Levi nei Paesi Europei, a cura di G. Tesio, Centro Studi Piemontesi, Torino 2005, pagine 23-31.

41 D. Rousset, L’Univers Concentrationnaire, Éditions de Minuit, Paris 1945.

42 Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Einaudi, Torino 1947.

(maggio 2019)

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