I sette peccati capitali dell’economia italiana
Un’analisi lucida e impietosa dei nostri problemi economici. Che vengono principalmente da lontano. Ma che non sono irrisolvibili

Si chiama Carlo Cottarelli. È un quasi-Presidente del Consiglio, nel senso che era il nome più papabile del recente Governo Giallo-Verde prima che la scelta cadesse sull’attuale Presidente, Conte. Cottarelli piaceva perché non era un politico, non aderiva a partiti ed era alieno dalle ideologie. In più era un economista, quindi una persona capace nella difficile congiuntura economica che dura ormai da troppi anni (e che il coronavirus ha reso ancora più grave). Infine, cosa della massima importanza, era una persona di provata e specchiata onestà, uno che non si sarebbe abbassato a compromessi.

Cottarelli ha scritto un saggio estremamente dettagliato e lucido sulla situazione attuale: I sette peccati capitali dell’economia italiana. Un testo che parla di argomenti non facili da trattare, ma che lui spiega in modo comprensibile anche per quelli le cui conoscenze in materia economica si riducono a capire che se Piazza Affari «si alza» le cose vanno in genere bene, se si alza lo SPREAD le cose vanno sicuramente male, e poco altro. Un libro che tutti dovrebbero leggere.

Un libro che descrive una situazione non rosea, un periodo in cui il livello del Prodotto Interno Lordo (PIL) è al livello di 20 anni fa: è la prima volta, nella storia d’Italia, in cui i figli hanno lo stesso reddito dei loro padri (mentre il costo della vita è aumentato, e non di poco). Questo per colpa di sette «peccati capitali», sei dei quali ce li trasciniamo dietro da molto tempo. Ma che sono tutti collegati tra loro, cosicché risolverne anche uno solo porterebbe, a ruota, a risolvere anche gli altri. Ebbi occasione di ascoltarlo quando presentò il libro a una conferenza stampa a Desio, il 2 settembre del 1918 (venni ammesso perché dovevo sostituire un mio amico giornalista che aveva un altro impegno). Vediamoli più nel dettaglio uno alla volta, integrando le considerazioni del libro con ciò che disse rispondendo a varie domande dell’uditorio e alcune considerazioni mie personali.

Il primo «peccato capitale» è l’evasione fiscale sull’IVA. Nel 2015 era intorno al 26%: peggio da noi, tra i Paesi avanzati dell’area euro, solo Malta e la Grecia; in Svezia l’evasione fiscale è assente. Si tratta di un problema morale ed economico molto grave per i conti pubblici: se riuscissimo a ridurre l’evasione fiscale anche solo di un ottavo, avremmo meno debito pubblico della Germania; ora invece paghiamo più tasse, siamo meno competitivi, le imprese «vincenti» sono quelle che evadono di più. Cottarelli non pensa che questo sia dovuto al fatto che ci sono Italiani «buoni» che pagano le tasse e Italiani «cattivi» che non le pagano; in realtà, spiega lui, c’è chi non può evadere le tasse (e non le evade) e chi può evadere le tasse (e le evade) – l’onestà non è contemplata nella sua analisi, e forse per la stragrande maggioranza della popolazione è così. Da una parte abbiamo dipendenti pubblici, impiegati, insegnanti, operai, gente i cui redditi sono fissi e documentati, che non potrebbero evadere neanche se lo volessero; dall’altra ci sono commercianti, liberi professionisti, gente che dichiara i redditi che vuole... e che spesso dichiara molto meno di ciò che in effetti guadagna. (Considerazione personale: vi è mai capitato di dover chiedere a un negoziante lo scontrino fiscale mentre quello finge, in modo sfacciato, di esserselo dimenticato? O di verificare che l’importo che vi viene fatturato è minore di quanto vi è stato fatto pagare?). La situazione è aggravata dal fatto che l’economia italiana si regge su una miriade di piccole e medie aziende, spesso a conduzione familiare, per le quali l’evasione fiscale è l’unico modo per evitare di essere sommerse dai debiti e scomparire. Le grandi multinazionali, invece, non evadono: sono troppo controllate le une dalle altre, e dallo Stato, per rischiare degli azzardi. Ma l’Italia non è un Paese da multinazionali (che pure ci sono), a motivo anche della sua storia, di quando era frammentata in una serie di piccoli Stati ognuno dei quali aveva sviluppato la propria economia, che ha sempre garantito – e garantisce tutt’ora – livelli qualitativi altissimi, ma che ha favorito il pullulare di piccole imprese gelose della propria «indipendenza» e restie a fondersi le une con le altre. Gli Italiani, lo sappiamo bene, non sono abituati a fidarsi troppo gli uni degli altri. In realtà, il grado di evasione fiscale dei lavoratori autonomi in Italia non è molto superiore a quello negli Stati Uniti, il problema è che ne abbiamo molti di più. Oltretutto, nonostante si conoscano i dati dell’evasione, non si riesce a contenerla perché si stima il totale degli evasori, ma non si conoscono le identità (i nomi e i cognomi) dei singoli evasori.

L’evasione fiscale è correlata in modo diretto al secondo «peccato capitale» della nostra economia, che è la corruzione, spalmata in tutti gli ambiti e a tutti i livelli. Nel 2017, la percezione della corruzione ci poneva vicini alla media europea, ma non è che questo ci possa consolare troppo. Sappiamo bene quali sono i risultati di un’alta percentuale di corruzione: costo maggiore delle opere pubbliche, costruzione di opere pubbliche completamente inutili (gli esempi sarebbero numerosissimi, per esempio tutti quegli ospedali fatti e finiti, con persino gli arredi, mai aperti al pubblico e finiti per diventare alloggi abusivi per i senza fissa dimora); anche in questo caso, a «vincere» sono le imprese che corrompono di più.

Il terzo «peccato capitale» è la burocrazia, che in Italia è a livelli assurdi. Non bisogna essere un economista per capire che la burocrazia, in sé, non produce ricchezza; non che sia un organismo del tutto parassitario, ci vuole comunque una regolamentazione, ma da noi si è all’eccesso. Non esiste alcun Paese al mondo che abbia così tante regole, regolette, comma e cavilli come il nostro. Abbiamo un numero di avvocati elevatissimo, ne ha di più la sola Milano rispetto alla Francia nel suo complesso: l’aumento del loro numero avviene quasi in parallelo all’aumento delle cause pendenti. Molti burocrati, poi, hanno manie di grandezza: possiedono appartamenti con stanze di 100 o 200 metri quadrati, quattro segretarie con due auto a testa, e questo grava in maniera non troppo lieve sul bilancio dello Stato, dato che è a carico dei contribuenti. Nel 2018 si è dato avvio a timidi cambiamenti metodologici, ma la strada da percorrere per avere risultati significativi è ancora lunga. Solo i costi delle imprese per i vari moduli da compilare sono alti, e per avere i permessi per aprire delle attività occorrono anni. (Ancora un esempio: un mio amico desiderava trasferire la sua attività dalla Germania all’Italia; gli fu detto che per avere i permessi necessari avrebbe dovuto attendere almeno un anno, probabilmente di più, ma non si sapeva quanto di più. In Svizzera, la trasferì senza problemi nel giro di due mesi). La presenza eccessiva della burocrazia è uno dei tre principali problemi per i quali le imprese estere non vengono a investire in Italia.

Non a caso, più sopra, abbiamo parlato di avvocati: il quarto «peccato capitale» è infatti la giustizia, e in particolare la durata dei processi. Nel 2014, la durata media di un processo che arrivava al terzo grado di giudizio era di sette anni e otto mesi, maggiore rispetto alla Francia, alla Germania, alla Polonia e alla Spagna. Ma si può arrivare anche a 35 anni. Le conseguenze sono comprensibili a tutti: processi che si accavallano trascinandosi sempre più a lungo. (Altro esempio: pochi anni fa, una maestra è stata riconosciuta innocente di un incidente accaduto a un suo alunno mentre scendeva le scale; la maestra aveva ormai 80 anni e l’alunno ne aveva 42... il processo era durato 29 anni!).

Passiamo al quinto «peccato capitale», il crollo demografico: prosegue ormai da decenni, legato negli anni Sessanta a motivi sociali, ora alla crisi economica; la ripresa è legata principalmente all’immigrazione. Con una popolazione più vecchia e quindi meno persone occupate nel lavoro non è solo a rischio il sistema pensionistico, ma sono più basse la crescita potenziale e anche la produttività, sia per la diminuzione della creatività, sia perché diminuisce l’impegno che si metterebbe se si dovesse lavorare per mantenere numerosi figli. Cottarelli, in una precedente conferenza, aveva proposto una sua soluzione: far andare in pensione prima chi ha messo al mondo un maggior numero di figli, perché ha «creato» i giovani che in futuro, col loro lavoro, gli pagheranno la pensione. La frase era stata detta in modo «leggero», ma a un’analisi più approfondita si è rivelata di una logica impeccabile.

Come già il crollo demografico, anche il sesto «peccato capitale» ha radici lontane, riconducibili addirittura all’Unità d’Italia, ed è il divario tra Nord e Sud della Penisola. Al momento dell’Unità il reddito del Mezzogiorno era uguale a quello del resto del Paese; crebbe negli anni Sessanta del secolo scorso a causa del boom economico, ma ora è sceso a circa il 60%. Meno persone che lavorano al Sud, dove c’è meno occupazione, significa produrre di meno e produrre meno ricchezza. Se il reddito delle regioni del Sud fosse pari alle medie del reddito delle regioni del Nord, saremmo alla pari con la Francia e poco al di sotto della Germania. Come si vede, si tratta di problemi gravi, ma che se risolti rivelerebbero una situazione economica tutt’altro che precaria e decisamente florida.

Il settimo «peccato capitale» è invece nuovo, ed è legato all’entrata dell’Italia nell’euro, la moneta unica dell’Unione Europea: il problema è che non abbiamo voluto aggiustare i nostri comportamenti quanto sarebbe stato necessario per convivere con una moneta europea. Abbiamo cominciato a crescere meno degli altri a causa di un brutto rapporto salario/produttività: il costo del lavoro per ogni singolo prodotto era più alto che nel passato, comunque più alto rispetto all’innalzamento dei salari. Negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, si rimaneva competitivi svalutando la lira rispetto alle altre valute; con l’euro, questo sistema non è più attuabile. Uscire dall’euro, come vorrebbe qualcuno, non può però essere la soluzione, perché avrebbe costi altissimi: la nuova lira, infatti, si svaluterebbe rispetto all’euro, ma mantenendo fermi i salari rispetto al prezzo più alto dei prodotti importati; l’aggiustamento verrebbe fatto, di necessità, riducendo i salari; il debito in euro diventerebbe più pesante, gravando su chi ha fatto prestiti all’Italia, e inoltre ci vorrebbe parecchio tempo per apprestare un sistema di pagamento basato sulle nuove lire. Non è facile dare stabilità a una nuova moneta: se molti si recassero in banca a cambiare le loro monete in euro perché questa non si svaluta, la nuova lira continuerebbe a svalutarsi. Detto questo, ci sono vie alternative per ridar fiato alla nostra economia, senza pensare a uscire dall’euro: dato che i costi di produzione in Germania stanno crescendo più che in Italia, diminuendo così il divario di competitività, si potrebbero da noi o tagliare i salari, o aumentare la produttività, o diminuire i costi per le imprese (riducendo la burocrazia coi suoi moduli inutili e il suo parassitismo, così da aumentare la volontà degli imprenditori di investire in Italia; riducendo l’evasione fiscale, così da poter tagliare il livello della tassazione e rendere le imprese italiane più competitive; riducendo la spesa pubblica e la corruzione; rendendo più veloce il corso della giustizia).

Non è facile fare tutto quanto si è detto. Bisogna cambiare certi comportamenti e certe tendenze, per esempio far crescere gli stipendi in linea con la crescita della produttività. Il Governo Giallo-Verde aveva un programma in linea con quanto proposto, ma non riuscì ad attuarlo soprattutto per l’ostruzionismo del Movimento Cinque Stelle su punti fondamentali del programma (soprattutto quelli che sarebbero serviti per rilanciare l’economia). Abbiamo comunque la capacità di confrontarci in modo diverso rispetto al passato e di curare questi «peccati capitali»: l’Italia non manca né di imprenditori molto bravi, né di una grande capacità di produttività. Ha detto Piero Gobetti nel 1918: «Come non bastano le antiche glorie a darci la grandezza presente, così non bastano i presenti difetti a toglierci la grandezza futura, se sappiamo volere, se vogliamo sinceramente rinnovarci».

(maggio 2020)

Tag: Simone Valtorta, Carlo Cottarelli, peccati capitali dell’economia italiana, Governo Giallo-Verde, evasione fiscale, corruzione, burocrazia, giustizia, crollo demografico, divario Nord/Sud, entrata nell’euro, Piero Gobetti, economia italiana.