Ricordo di Sergio Ramelli
Una storia di ordinaria empietà criminale (1975)

Le vicende italiane degli anni di piombo, e del sangue innocente che venne versato nel corso di una lunga ed ignobile mattanza, voluta con lucida e tragica consapevolezza dalle forze della Sinistra extra-parlamentare, costarono la vita a tante vittime, ma la storia di Sergio Ramelli è diventata emblematica. Nel caso di specie, si tratta del martirio di un giovane studente del Fronte della Gioventù, aggredito a Milano nei pressi della sua abitazione il 13 marzo 1975 ad opera di un «commando» partigiano, ridotto in fin di vita, e scomparso alla fine di aprile, dopo 47 giorni di un’agghiacciante agonia e di sofferenze atroci.

Tra gli aspetti salienti di quella stagione allucinante, è necessario muovere dalle matrici ideologiche compendiate nello slogan secondo cui «uccidere un fascista non è reato». Nello stesso tempo, è utile fare riferimento alle connivenze che il terrorismo si era guadagnato nella cosiddetta società civile, dai salotti «radical-chic» a certi ambienti giudiziari: cosa che spiega, tra l’altro, il tardivo arresto degli assassini di Ramelli (tutti appartenenti ad Avanguardia Operaia) e le loro condanne sostanzialmente miti. In effetti, se giustizia venne fatta, ciò accadde soltanto moralmente, perché gran parte dei responsabili non conobbe una pur minima carcerazione.

Sergio Ramelli, al pari di Norma Cossetto tra i martiri delle foibe istriane, è assurto, come si diceva, a simbolo di quella vasta persecuzione protrattasi per tutti gli anni Settanta ed oltre, nel corso della quale persero la vita tanti ragazzi, assieme a persone più mature (l’età media è nell’ordine dei 26 anni: dal più giovane, il sedicenne Mario Zicchieri di Roma, al più anziano, il sessantenne Giuseppe Mazzola di Padova). Questi caduti erano colpevoli del «delitto» di essersi dissociati dal cosiddetto «antifascismo militante» nel rispetto della libertà di pensiero garantita dalla Costituzione: ormai, sono stati elencati con tanto di nomi e cognomi, ivi compresi quelli degli assassini di Ramelli e dei loro fiancheggiatori (una ventina di giovani studenti in Medicina dell’Ateneo milanese, con l’aggiunta di una ragazza, alcuni dei quali hanno fatto carriera tanto da conseguire l’incarico di primario ospedaliero per non meglio specificati meriti politici al servizio dell’estrema Sinistra).

Ramelli, anche a distanza di oltre un quarantennio dai fatti, è la vittima più nota, non tanto per la giovane età quanto per le vessazioni che aveva dovuto virilmente sopportare già prima del tragico agguato da cui sarebbe scaturito il suo triste destino; per il suo senso dello Stato e di una vera giustizia; per la nobile ed austera figura della madre; per le angosciose vicende che la famiglia avrebbe dovuto subire anche dopo la morte di Sergio; ma prima ancora, per la crudeltà ferina dell’aggressione, compiuta a mezzo di chiavi inglesi e delle «celebri» spranghe di ferro utilizzate dall’ultrasinistra, col risultato di fracassare il cranio del ferito fino a causare la fuoriuscita della materia cerebrale, e da rendere vana la solerte opera dei medici e la disperata volontà di vita della vittima. Al processo sarebbe stato detto che l’input non era quello di uccidere, ma le condizioni di Sergio all’atto del ricovero in ospedale costituiscono la migliore smentita di questo penoso paralogismo.

All’epoca, nella migliore delle ipotesi l’essere di Destra, sia pure moderata e civile, voleva dire essere condannati all’ostracismo, tanto è vero che Ramelli era stato paradossalmente «espulso» dalla sua scuola, l’Istituto Tecnico Molinari di Milano, per decisione unilaterale del collettivo tollerata dalla struttura burocratica e da quella docente, e si era dovuto trasferire in una scuola privata! Del pari, il fratello Luigi, dopo la scomparsa di Sergio, fu costretto ad emigrare altrove, visti i messaggi minacciosi che continuavano a pervenire alla famiglia, e che avrebbero contribuito, assieme al crepacuore per la tragica perdita del figlio, alla prematura scomparsa del padre Mario.

L’arresto degli assassini, come si è detto, fu assai tardivo, dando luogo ad un processo clamoroso, ma per alcuni aspetti, non tanto a carico degli imputati, quanto della loro ideologia (o presunta tale). Il fatto che ebbe luogo ad oltre un decennio dal delitto la dice lunga sulla reale volontà di stringere i tempi e di avviare le procedure di legge, tanto più che i nomi di costoro erano simili al segreto di Pulcinella. L’ultima parola dell’iter giudiziario sarebbe spettata alla Corte di Cassazione, che il 22 gennaio 1990 produsse una sentenza non difforme dalle precedenti, a seguito della quale le porte del carcere si aprirono soltanto per i due esecutori materiali, «prima di passare l’uno all’affidamento sociale, e l’altro alla semilibertà». Non si può certo dire che gli assassini abbiano pagato il debito con la giustizia in modo conforme alla gravità del reato commesso (omicidio volontario), ma resta il fatto indiscutibile di un «verdetto inappellabile di condanna» sul piano etico, ormai definitiva almeno per la «dottrina» perversa che aveva armato le loro mani.

Oggi è difficile comprendere, da parte dell’uomo della strada, e soprattutto da parte dei giovani, l’abisso di deviazione da cui avevano preso le mosse quegli anni davvero plumbei, ma proprio per questo, è importante testimoniare che la stagione del terrorismo politico è stata un’infausta esperienza, nell’ambito di una vera e propria «notte della Repubblica» in cui l’odio cieco e gratuito, in assenza della stessa contrapposizione di classe, era sufficiente a motivare i delitti più efferati.

È stato detto più volte che un popolo senza memoria storica è un popolo senza futuro. In questa ottica, onorare il sacrificio di Sergio Ramelli, che aveva consapevolmente e responsabilmente sfidato i suoi avversari, e più generalmente, ricordare i tempi del piombo e della morte di ogni forma di pietà, costituiscono un’opera doverosa, ma nello stesso tempo, utilmente maieutica.

(aprile 2018)

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