Dalla ricostruzione al boom economico e alla crisi
Grazie agli aiuti americani, l’Italia riesce a risollevarsi dalla prostrazione causata dalla Seconda Guerra Mondiale ed a godere di alcuni anni di grande benessere: il cosiddetto «miracolo economico», di cui si parla ancor oggi, spesso con malcelata nostalgia

Finita la Seconda Guerra Mondiale, si cerca di tirare un sospiro di sollievo, ma il panorama internazionale non tarda a riabbuiarsi: Stati Uniti ed Unione Sovietica già nelle ultime fasi del conflitto hanno cominciato a guardarsi in cagnesco ed a progettare una più o meno chiara spartizione del globo in zone d’influenza (un eufemismo per mascherare un reale dominio politico ed economico, addirittura brutale per quei Paesi caduti sotto il tallone comunista); ci si rende sempre più conto che si può estendere il proprio «impero» tanto con la forza delle armi, quanto con quella del denaro.

Due organismi dell’immediato dopoguerra permettono all’Italia prima di sopravvivere, poi di avviarsi addirittura ad un notevole sviluppo. Il primo è l’UNRRA, ovvero l’Amministrazione delle Nazioni Unite per il soccorso e la ricostruzione, che dal 1943 al 1947 distribuisce in Europa ed in Estremo Oriente aiuti per due miliardi e mezzo di dollari, una somma non indifferente per i tempi. Gli succede il Programma di ricostruzione europea (ERP), più noto come Piano Marshall. Poiché esso fa capo agli Stati Uniti, i comunisti italiani e francesi diffidano, e quando anche l’Italia decide di ricorrere ai prestiti vantaggiosi (l’85% gratis e il 15% come prestito a lunga scadenza), rifiutano di avallare una tale decisione e si ritirano dal Governo.

Gli anni che corrono dal 1956 al 1960 vedono un’esplosione di benessere: viene definito il «miracolo economico», e l’Italia ne resta profondamente trasformata, terminando la ricostruzione economica del Paese – la produzione agricola supera di molto quella prebellica, le attività commerciali e la produzione industriale subiscono uno slancio notevole, vengono rinnovate le vie di comunicazione. Ma non è un successo completo né duraturo, e troppe persone lo pagano ben presto a caro prezzo.

Un’intelligente ed efficacie riforma agraria si propone fin dall’immediato dopoguerra di spezzare il latifondo, rendere fertili e produttive zone non ancora coltivate, diffondere la piccola proprietà, assicurando ai contadini il possesso della terra che lavorano e i mezzi per renderla sempre più fertile, ma i suoi effetti sono troppo limitati per arginare l’emorragia di forze, particolarmente di giovani, che dalle campagne si trasferiscono in città, nella speranza di trovare un lavoro più sicuro e redditizio nell’industria. Il rapporto tra persone occupate nell’agricoltura e nell’industria va evolvendosi in maniera costante in favore della seconda: alla fine del 1977, sono rispettivamente 7.557.000 e 2.929.000; ma questo «vertiginoso» sviluppo industriale è in realtà piuttosto ambiguo, perché finisce per concentrarsi nel cosiddetto «triangolo industriale» (la zona compresa tra Milano, Torino e Genova), escludendo quasi completamente l’Italia Meridionale e le isole. A Torino la nascita di numerosi stabilimenti industriali, tra cui la FIAT, determina una forte ondata di immigrazione, soprattutto dal Veneto e dal Mezzogiorno, che provoca anche una serie di gravi problemi organizzativi e culturali; oltretutto il passaggio della manodopera dall’agricoltura al lavoro in fabbrica è drammatico, sottopagato perché non qualificato, e dà vita a scioperi e lotte sindacali molto aspre per il miglioramento delle condizioni di lavoro e per una politica di riforme sociali. Quando il settore entra in crisi (anche per la crisi energetica mondiale), il numero dei disoccupati cresce a dismisura: quasi un milione e mezzo, di cui la metà giovani dai 19 ai 24 anni.

La rete ferroviaria e quella stradale, soprattutto autostradale, sono come le arterie che fanno circolare il sangue nel corpo umano: devono essere perciò funzionali e diffuse capillarmente; alla fine del 1977 ci sono in Italia oltre 20.000 chilometri di ferrovie e poco meno di 300.000 chilometri di strade, tra cui circa 5.500 chilometri di autostrade. Uno dei settori nei quali il capitale pubblico e privato italiano ottiene dei buoni risultati, sia quanto a redditività economica che a prestigio internazionale, è quello dei trasporti aeronavali: alcune navi-passeggeri italiane e la compagnia aerea di bandiera Alitalia sono simbolo della sicurezza e della signorilità di trattamento.

Negli anni 1961-1965 si assiste alla comparsa della «congiuntura», che provoca una forte riduzione del prodotto nazionale, un massiccio aumento dei prezzi e la stagnazione degli investimenti industriali; per risolvere la difficile situazione si giunge al punto di creare un apposito Ministero. Altri gravi periodi di crisi economica si manifestano in Italia nel 1971 e nel biennio 1975-1976, in conseguenza del cosiddetto «autunno caldo» di agitazioni sindacali (1969) e soprattutto come conseguenza immediata della «guerra del petrolio» dichiarata dagli Arabi del Medio Oriente come ritorsione anti-israeliana (gli Stati Uniti e i Paesi dell’Europa Occidentale, con l’unica esclusione della Francia, perseguono infatti una linea politica tendenzialmente favorevole allo Stato d’Israele). Diventano sempre più gravi i problemi della disoccupazione, della difesa del potere d’acquisto dei salari, del contenimento del costo del lavoro, dell’ordine pubblico, in un momento di grave inflazione che vedrà i primi timidi segnali di termine solo nel 1978. L’«austerità» ha comunque il merito di far riscoprire agli Italiani il gusto di andare in bicicletta e a piedi.

(luglio 2018)

Tag: Simone Valtorta, Italia democratica, dopoguerra, ricostruzione, boom economico, UNRRA, ERP, Piano Marshall, triangolo industriale, FIAT, miracolo economico, Alitalia, congiuntura, autunno caldo, agitazioni sindacali, crisi economica, guerra del petrolio, austerità.