Sei Premi Nobel per la letteratura del Novecento
Un importante apporto alle glorie italiane

L’istituzione del Premio letterario intitolato alla memoria di Alfred Nobel, che ebbe luogo a Stoccolma alle soglie del Novecento, ha conferito gloria imperitura a buona parte degli insigniti, stante l’alta considerazione mondiale assunta dall’iniziativa svedese, anche per l’affinità etica e politica con gli altri riconoscimenti, a cominciare dal primo: quello per la pace.

In detto ambito, il Premio Nobel per la letteratura – come si sa – ha conservato una visibilità molto importante, se non altro per la maggiore popolarità della materia rispetto a quelle scientifiche. In tale ottica, è congruo ricordare che negli oltre 120 anni di vita (con la sola eccezione della Seconda Guerra Mondiale) è stato attribuito per ben sei volte ad altrettanti Italiani: nell’ordine, Giosuè Carducci, Grazia Deledda, Luigi Pirandello, Salvatore Quasimodo, Eugenio Montale, Dario Fo.

In proposito, è utile aggiungere che l’Italia figura al sesto posto assoluto nella classifica per Paesi (dopo Francia, Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania e Svezia) che oggi sono presenti in graduatoria nel consistente numero di 43, a conferma di una progressiva diffusione della cultura e, nello stesso tempo, della sua promozione.

Non è inutile aggiungere che – nella lunga vita del Premio – il riconoscimento è stato riservato a Paesi Europei per ben 86 volte, pari al 70% del totale; e che i primi dodici, con la sola eccezione degli Stati Uniti, appartengono al Vecchio Continente. Si tratta di una constatazione statistica soltanto in apparenza, perché sottintende l’esistenza prioritaria di tradizioni letterarie, e più generalmente culturali, proprio in Europa, da inserire in quella che Benedetto Croce, con felice sintesi, avrebbe chiamato «vita morale» alimentata dal pensiero.

La storia letteraria nazionale abbonda di glorie imperiture a prescindere dal Nobel e dalle sue origini tuttora relativamente recenti, ma gli Italiani insigniti, come si chiarisce nelle rispettive motivazioni, hanno acquisito meriti specifici da tramandare a futura memoria se non altro per i valori comuni espressi nelle loro opere: in tale ambito, piace rammentare in modo particolare l’analisi del dramma esistenziale, le attenzioni sociali, e naturalmente, le originali sensibilità estetiche. Qui, è inutile aggiungere che i fasti del Nobel nulla tolgono ai grandi del passato, con riguardo prioritario ai classici, cominciando da quelli affidati alla memoria nel tempio di Santa Croce, dove Vittorio Alfieri, come da testimonianza di Ugo Foscolo, andava a trarre ispirazione.

Dal primo Premio «italiano» consegnato a Carducci ormai gravemente ammalato nella sua casa di Bologna (1907) per finire a quello destinato a Dario Fo (1997) è trascorso poco meno di un secolo. Nel frattempo, si sono susseguite ragguardevoli variazioni di rilievo, anche nei criteri di valutazione dei meriti, ma il Nobel non viene meno alla sua etica di base, quella di onorare valori umani riconosciuti e di promuovere riflessioni in grado di esercitare un’influenza positiva anche a livello politico, se non altro nello spirito dell’iniziativa certamente prioritaria: il Premio per la pace.

In questo senso, fermo restando che le glorie dei secoli passati restano inamovibili, e spesso prioritarie, il Nobel è certamente in grado di svolgere un ruolo culturalmente e moralmente importante. Indubbiamente, taluni conferimenti hanno suscitato a più riprese discussioni e dissensi: cosa comunque comprensibile, e in ultima analisi secondaria, alla luce della rilevanza mondiale assunta dal Premio, e del suo riconosciuto prestigio.


Giosuè Carducci

Quando la notizia del conferimento raggiunse ufficialmente il poeta, la sua prima reazione fu di rivolgersi alla moglie, la cugina Elvira Menicucci – sposata nel 1859 quando lui era un giovane insegnante – con una frase non priva di sarcasmo, come se il Nobel fosse giunto appena in tempo per dimostrare, anche nell’ambito familiare, che Carducci era davvero un grande.

Nella motivazione del Premio si affermava, infatti, che gli era stato assegnato «non solo in riconoscimento dei suoi profondi insegnamenti e ricerche critiche, ma di tutto un tributo all’energia creativa, alla purezza dello stile e alla forza lirica che caratterizza il suo capolavoro di poetica».

Era la verità, tanto più meritoria qualora si pensi che Carducci (1835-1907), figlio di un medico condotto e appartenente a una famiglia molto legata al patriottismo risorgimentale, si avvalse di un’educazione tradizionalista con forti venature laiche, conclusa con la laurea conseguita a Pisa nel 1855 dopo aver maturato un’ottima familiarità con i classici della letteratura nazionale, ma non altrettanto con la grande filosofia mitteleuropea. Ciò contribuisce a spiegare meglio la sua personalità scabra, talvolta rude, ma nello stesso tempo il suo stile assai attento alla forma e all’eleganza espressiva.

Alle difficoltà giovanili, in specie di tipo economico, si erano uniti i dolori familiari, tra cui il suicidio del fratello Dante e la morte del padre, avvenuti a breve distanza durante la sua frequenza universitaria alla «Normale». Poi, una sorte avversa gli avrebbe sottratto anche l’unico figlioletto maschio, di cui alle vette artistiche raggiunte con Pianto antico, dove lo strazio del poeta perviene alla triste ma nello stesso tempo rassegnata accettazione di un’esistenza vissuta prioritariamente come dramma, elevandosi alla grandezza della migliore poesia. Eppure, fu straordinariamente versatile anche dal punto di vista stilistico, oltre che «rivoluzionario», come accadde col celebre Inno a Satana del 1863, quando il mondo fu sconcertato dall’erompere di tale impetuosa invettiva, sebbene sorretta da un pensiero sostanzialmente «gracile» come da oggettive valutazioni della critica anche in tempi largamente successivi.

Carducci non conosceva compromessi o mezze misure: «Tutto che questo mondo falso adora, col verso audace lo schiaffeggerò». Ecco una dichiarazione che appare perfettamente conforme alla sua scelta, o meglio alla sua vocazione di parlare con il cuore ben prima che con la mente: cosa che sia pure «in extremis» non sfuggì alla giuria del Nobel, un Premio che, d’altra parte, quando fu conferito al Carducci, era particolarmente giovane.

Nella poesia carducciana è facile cogliere la costante reminiscenza dei valori risorgimentali e patriottici ma non avulsi dalla delusione per quello che doveva sembrare un progressivo abbandono, tanto più triste per la vivace coscienza nazionale che dal punto di vista politico condusse il poeta a forti simpatie per un personaggio «sanguigno» come Francesco Crispi; e sul piano istituzionale, alla clamorosa conversione in favore della Monarchia, cui non fu estraneo il fascino della Regina Margherita e del suo «eterno femminino regale».

Carducci non fece mistero delle proprie preferenze per i valori della Patria, impersonati da quanti avevano versato il proprio sangue per la sua grandezza, e quindi per quella di Roma, condannando a naturale sconfitta le superstiti autocrazie, a cominciare dall’Impero Austro-Ungarico affossato dalla dura legge della Nemesi, come accadde al «puro, forte e bello Massimiliano» quando ebbe il coraggio di sfidarla lasciando gli ozi dorati di Miramare per affrontare la tragica avventura messicana che lo avrebbe portato alla morte, consegnando la moglie a lunga pazzia. In questa prospettiva non può sorprendere che Carducci abbia dedicato una lirica proprio alla morte, la «diva severa» che impone a chiunque l’accettazione del dolore, la sublimazione degli affanni, e infine lo spegnimento delle luci di vita nell’ombra di un meritorio riposo eterno.

Il Nobel, in buona sostanza, gli competeva, ben oltre le pur pertinenti motivazioni, e ne faceva un modello cui si sarebbero ispirate quelle dei successivi conferimenti alla letteratura italiana.


Luigi Pirandello

Uomo moderno ma nello stesso tempo universale, tanto da avere conseguito notorietà non effimera in tutto il mondo occidentale, Luigi Pirandello (1867-1936) è stato un esponente di primo piano della letteratura italiana novecentesca, tanto da essere insignito del Premio Nobel (1934) «per il suo ardito e ingegnoso rinnovamento dell’arte drammatica». Scrittore assai fecondo, appartenente al realismo ma non senza forti venature decadentiste, produsse un numero straordinario di opere, fra cui alcune raccolte di versi, sette romanzi, oltre 200 novelle, e una vasta serie di lavori teatrali.

La sua vita fu complessa e non sempre facile. Di ricca famiglia siciliana, ebbe modo di studiare ai massimi livelli universitari, prima a Roma e poi a Bonn, ma fu travolto dal fallimento dell’azienda mineraria paterna indotto dalla crisi dello zolfo, cui sopravvisse dignitosamente negli anni antecedenti il successo, grazie all’insegnamento e alle collaborazioni giornalistiche. Il matrimonio con Maria Antonietta Portulano, sua cugina di secondo grado, fu inizialmente felice; nondimeno, in tempi successivi la moglie, malata di mente ma vissuta sino a tarda età, fu ricoverata in una casa di cura (dove sarebbe mancata nel 1959) perché afflitta da una forma di gelosia morbosa, e poi paranoica. Naturalmente, queste tristi vicende avrebbero avuto effetti importanti anche sulla produzione letteraria dello scrittore.

Nel 1924, a breve distanza dal delitto Matteotti, Pirandello aderì al fascismo da poco salito al potere, inviando a Mussolini un telegramma per chiedere l’iscrizione quale «umile gregario». Nel nuovo Governo, infatti, vedeva la tutela dei valori patriottici di stampo risorgimentale, ereditati dalla famiglia e dagli ambienti culturali dell’epoca, ma il suo rapporto col nuovo regime, e particolarmente con alcuni gerarchi, non fu sempre facile. Eppure ne ottenne onori importanti, fra cui la nomina ad Accademico d’Italia, che fu compresa fra le prime trenta. Scomparve alla vigilia dei settant’anni, al massimo di una fama che perdura nel tempo.

Pirandello fu certamente un «uomo di multiforme ingegno» capace di trasferire nella letteratura parecchi spunti innovativi della cultura novecentesca, fra cui la propensione a spostarsi dalla sfera dell’arte a quella di una «filosofia» personale non priva di tormenti: nella sua opera è possibile cogliere spunti di decadentismo e futurismo, e nello stesso tempo, di un impegno attivista e di nuove suggestioni psicanalitiche. Anche per questo, ha finito per diventare, non soltanto nella critica letteraria, un campione del paradosso e del relativismo.

Fra le opere più rappresentative del mondo pirandelliano può essere ricordata, a titolo simbolicamente esemplificativo, la commedia Così è se vi pare come storia «piccolo-borghese» di una famiglia meridionale emigrata in una pettegola cittadina del Nord, e fatta oggetto di morbose curiosità se non anche di lazzi da parte di benpensanti incapaci di comprendere il rapporto, per l’appunto «relativo», fra i vari protagonisti della nota vicenda teatrale.

In effetti, quando il maggiore personaggio femminile della commedia in questione afferma, con una frase passata alla storia del teatro, di essere «colei che mi si crede», intende esprimere l’impossibilità di pervenire al Vero assoluto, tipica della concezione di Pirandello, e ben confermata, contro le chiacchiere bassamente provinciali della cittadinanza, dall’unico esponente «illuminato» della borghesia locale.

Alla fine, i dubbi non saranno sciolti, proprio perché tutto è «relativo» e le cose possono cambiare in maniera totale secondo i punti di vista, necessariamente individuali: una realtà oggettiva e immutabile, alla resa dei conti, non esiste, come si conferma in Uno nessuno e centomila che assieme a Il fu Mattia Pascal resta fra i più celebri romanzi pirandelliani.

La «commedia umana» di Pirandello si caratterizza per una visione della vita che nella migliore delle ipotesi può essere definita amara, ma nello stesso tempo non è priva di connotazioni surreali e, anche per questo, umoristiche; quasi a eluderne il profondo fondamento tragico. Ecco: proprio l’umorismo fu una costante del suo carattere sempre pronto a mutuarne valutazioni realistiche della natura umana, e proprio per questo, distanti dall’idealismo assoluto di Giovanni Gentile o dal «superomismo» di Gabriele d’Annunzio, che come tali fruirono di un trattamento più favorevole nelle valutazioni politiche dell’epoca fascista, tramite riconoscimenti oggettivamente maggiori, a prescindere dalle ricorrenti dissonanze che si manifestarono in entrambi i casi citati, più di quanto accadesse per lo stesso Pirandello.

Essendo scomparso in età non avanzata, e nel periodo di maggior consenso popolare, per Pirandello manca la prova di quanto sarebbe potuto accadere qualora avesse vissuto l’esperienza traumatica della guerra, cosa che nel caso di Gentile si tradusse in un atteggiamento non ancora critico ma di possibili aperture a nuove ipotesi di confronto, bruscamente troncato dal brutale assassinio gappista nello scorcio conclusivo del 1944. Dal canto suo, il Vate del Vittoriale, nell’ultimo incontro col Duce avvenuto a Verona nel 1937, lo avrebbe esortato a guardarsi bene da «Attila imbianchino», ormai padrone della Germania. In ogni caso, stante il relativismo pirandelliano, tutto sarebbe stato possibile.


Grazia Deledda

Un altro Premio Nobel che fu conferito a maggior gloria della letteratura italiana è quello riconosciuto nel 1926 a Grazia Deledda (1871-1936). La motivazione si richiamava esplicitamente alla «potenza di scrittrice sostenuta da un alto ideale che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e che con profondità e calore tratta problemi di generale interesse umano».

Unica donna italiana a essere stata insignita dell’alto riconoscimento, la Deledda aveva interpretato magistralmente l’anima sarda, proponendosi all’attenzione della critica, non soltanto italiana, come espressione di uno stile asciutto ma coinvolgente, e prima ancora, di un’anima complessa, capace di sublimare nell’arte la tristezza esistenziale per condizioni umane non certo ideali. In effetti, fra i suoi meriti si deve includere anche quello di avere proposto all’attenzione comune una realtà culturale complessa ma tendenzialmente riservata, come quella del mondo isolano.

Nei confronti di Grazia, sempre incline al verismo nonostante frequenti concessioni mistiche, simboliste e idealiste, le simpatie del momento furono assai diffuse, in specie a livello popolare (ma non solo) dove la sensibilità prevalente non poteva che apprezzare la coinvolgente rappresentazione della vita nell’Isola, a cominciare da quella dei pastori e delle donne (si pensi a Marianna Sirca oppure a Elias Portolu, per non dire del suo capolavoro: Canne al vento) ma non senza sollevarsi verso valori universali, nell’ambito di una visione più profonda del destino terrestre.

Era la rappresentazione di un’Italia diversa, anche se – per taluni aspetti – assimilabile a quella pirandelliana, distante soltanto in apparenza. Umorismo e relativismo dello scrittore siciliano, in realtà, trovano un minimo comune denominatore con la fervida illustrazione di un mondo come quello della Deledda, non privo di un alone quasi romantico, oltre che rustico e talvolta quasi primitivo.

Da un lato, come in Pirandello si osserva il superamento di ogni delusione nel distacco umoristico sin quasi al ridimensionamento dei valori tradizionali, e dall’altro, come nella Deledda, prevale il rispetto atavico per una società arcaica, impossibilitata ad accettare impostazioni amaramente relativiste, pur nella malinconica consapevolezza di «magnifiche sorti e progressive» non certo conformi alle liete speranze giovanili: due diversi modi di confrontarsi con la realtà, e se si vuole, di maturazione psicologica delle coscienze.

Detto questo, sembra logico convenire sul fatto che Pirandello abbia interpretato la condizione umana del suo tempo con una consapevolezza critica dei suoi limiti senza dubbio matura, ma nello stesso tempo di sostanziale rassegnazione, al pari della Deledda, circa la fatale impossibilità di mutare il corso delle cose. In entrambi i casi, l’opposto del fascismo e del suo slancio futurista verso la costruzione di un’Italia diversa, e per quanto possibile, più avanzata anche socialmente, ma condannata alla folle catarsi della guerra perduta.

In ultima analisi, sono tre aspetti di uno stesso dramma: anzitutto quello di un Paese in preda alla rassegnazione, peraltro non sempre motivata, come in Pirandello, oppure all’immobilismo, come nella Deledda, e infine alle velleità del sistema politico, destinate a diventare tragiche, come accadde al fascismo. Un dramma che non sembra capace di trovare qualsiasi sintesi accettabile, idonea a salvaguardare almeno i «valori non negoziabili» capaci di suscitare potenziali riflessioni non effimere, e quindi auspici per il terzo millennio: se non altro, quale riconoscimento dei valori maieutici che sono propri della grande letteratura.


Salvatore Quasimodo

Dopo il Premio Nobel conferito a Pirandello, si rese necessaria un’attesa di 25 anni prima di quello riconosciuto al poeta italiano Salvatore Quasimodo (1901-1968) con una motivazione riferita alla «poetica lirica che con ardente classicità esprime le tragiche esperienze della vita nei nostri tempi». In effetti, era cambiato tutto, a cominciare dalla rivoluzione umana e civile indotta dal Secondo Conflitto Mondiale, e dalla necessità di battersi contro le difficoltà quotidiane, vissuta lungamente dallo stesso Quasimodo, il secondo figlio della terra sicula ad avere vinto il Nobel. Non a caso, per il bisogno di vivere fu dapprima disegnatore in un’impresa edile, poi geometra del Genio Civile, e dal 1941 insegnante di letteratura al Conservatorio di Milano, con un incarico che avrebbe mantenuto fino alla prematura scomparsa.

I tempi erano davvero cambiati. Nonostante il raggiungimento di una fama che si sarebbe rivelata non effimera, confermata dalle vittorie in altri Premi letterari come il San Babila, il Taormina e il Viareggio, Quasimodo avrebbe lavorato proprio per vivere, ma nello stesso tempo riuscì a collezionare una dozzina di raccolte poetiche, senza dire di un numero largamente maggiore di traduzioni, in specie poetiche (dopo l’interruzione degli studi era diventato perfetto conoscitore di latino e greco, nonché attento interprete dei classici).

Durante il fascismo avrebbe collaborato al «Primato» di Giuseppe Bottai mentre il suo volume Ed è subito sera trovò spazio nella collana «Lo Specchio» di Mondadori, ma le sue condizioni non furono mai ottimali, tanto che si risolse a presentare una supplica al Duce per ottenerne qualche contributo a favore della propria attività letteraria. Essendo stato massone sin dalla giovinezza, l’adesione di Quasimodo al fascismo, peraltro, fu meramente formale, tanto che sin dall’immediato dopoguerra volle iscriversi al Partito Comunista Italiano, pur non avendo partecipato attivamente alla Resistenza.

Ebbe vita complessa anche sul piano sentimentale: dopo il primo matrimonio del 1926 con Bice Donetti e la successiva scomparsa della consorte, convisse lungamente con Amelia Spezialetti da cui ebbe la figlia Ornella, mentre nel 1948 contrasse nuovo matrimonio con Maria Cumani, conosciuta sin dagli anni Trenta, che gli diede il figlio Alessandro. Tali esperienze lasciarono una traccia profonda anche nelle sue produzioni letterarie, cui negli ultimi anni, oltre a quella del Nobel, si aggiunsero le glorie della laurea «honoris causa» a Roma (1960) e poi di quella a Oxford (1967). Non ebbe molti amici veri, ma alcuni furono veramente tali: primo fra tutti, Giorgio La Pira, il futuro «Sindaco santo» di Firenze, nonostante la profonda differenza di pensiero e di fede.

Quasimodo appartiene a tradizioni già consolidate dei Nobel italiani che erano stati accomunati da problemi esistenziali importanti, tanto da non indurli certamente all’ottimismo, ma nel suo caso c’è di più. La sua vita fu vissuta in quella che – con bella sintesi – egli stesso avrebbe definito «civiltà dell’atomo» dove la solitudine spirituale incarnava nelle singole realtà umane le «monadi» di antica memoria, e dove il senso della morte comunque scontata finiva per diventare ricorrente, e quindi insopprimibile, con l’aggiunta di un fatalismo che ne accentuava la triste ineluttabilità, e che costituisce momento essenziale della poetica di Quasimodo, anche nel primo periodo ermetico.

Piace ricordare, infine, che fu sempre legatissimo alla famiglia d’origine, e massimamente al padre Gaetano, vecchio ferroviere, con cui ebbe un rapporto affettivo consolidato, ben oltre i frequenti trasferimenti e la dura esperienza messinese dopo il disastroso terremoto del 1908, quando lo stesso Gaetano fu destinato al complesso impegno della ricostruzione. Non è stato certamente un caso se, dopo il conferimento del Nobel, il primo atto di Salvatore Quasimodo fu di andare a Roccalumera per portarne le insegne al padre novantenne, in commosso e devoto omaggio filiale.


Eugenio Montale

«Per la poetica distinta che con grande sensibilità artistica ha interpretato i valori umani sotto il simbolo di una visione della vita priva d’illusioni». Questa motivazione del Nobel conferito nel 1975 al poeta italiano Eugenio Montale (1896-1981) coglie l’essenziale del suo messaggio estetico, ma prima ancora, del suo profondo senso della vita intesa come problema, nel momento in cui mette in luce la capacità, oggettivamente non comune, di preferire il triste realismo della ragione ai sogni di stagioni impossibili.

All’epoca, era già colmo di onori, avendo ricevuto tre volte una laurea «honoris causa», a Milano, Cambridge e Roma, e soprattutto, essendo stato nominato Senatore a vita dal Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat (1967). In effetti, aveva ben meritato della Patria nella Prima Guerra Mondiale, combattuta in Vallarsa nelle file dei «Leoni di Liguria», e non aveva mai aderito al fascismo, firmando il Manifesto degli intellettuali di Benedetto Croce e conservando, peraltro, un’opposizione di semplice valenza culturale, sostanzialmente aristocratica e avversa a ogni forma di modernità. Caso mai, le sue simpatie dell’epoca si erano indirizzate verso il Partito d’Azione, salvo abbandonarle quando fu chiaro che le preferenze popolari andavano in tutt’altra direzione. Del resto, il suo naturale pessimismo circa le sorti del mondo avrebbe continuato a manifestarsi anche dopo la restaurazione della democrazia, con forti venature di negazione del consumismo dilagante, e delle pregiudiziali di estrema sinistra. Non a caso, dopo l’ingresso a Palazzo Madama avrebbe aderito prima al gruppo del Partito Liberale Italiano e poi a quello del Partito Repubblicano Italiano.

Dal 1927 al dopoguerra si era stabilito a Firenze, dove ebbe l’incarico di dirigere il Gabinetto Vieusseux e dove avrebbe lungamente frequentato il Circolo delle «Giubbe Rosse» stringendo durature amicizie con Carlo Emilio Gadda, Tommaso Landolfi ed Elio Vittorini, collaborando a «Solaria» e cimentandosi anche nella pittura. A questo periodo appartengono alcune raccolte poetiche fondamentali come Ossi di seppia (1925) in cui il male di vivere si traduce, fra l’altro, nella «corrosione» della personalità, e per alcuni aspetti, dello stesso linguaggio; e come Occasioni (1939), all’insegna di ricordi che sbiadiscono e svaniscono, in cui si colgono le avvisaglie della prossima crisi bellica, particolarmente evidenti in Bufera. Di qui deriva il ricorrente desiderio di evadere da un’esistenza tristemente ripetitiva, nella nostalgia di più felici tempi giovanili.

Montale, chiusa l’esperienza fiorentina, si sarebbe trasferito definitivamente a Milano (1948) dove si dedicò prevalentemente al giornalismo collaborando al «Corriere della Sera» e poi al «Giornale» di Indro Montanelli, e dove nel 1962 avrebbe sposato Drusilla Tanzi con cui conviveva dal 1939, e che, maggiore di oltre un decennio rispetto a lui, scomparve per malattia dopo breve tempo.

In questo periodo, nonostante l’impegno nelle forze di democrazia laica non fu alieno da un’importante esperienza di Vice Presidente nell’ambito di «Una Voce Italia» per la difesa della Santa Messa di rito tridentino, le cui sorti stavano per essere subordinate a quelle della nuova celebrazione aperta al popolo, promossa dal Concilio. Ecco un altro momento in cui è facile cogliere la tendenza conservatrice di Montale, alla luce dei valori di un tradizionalismo non formale, all’epoca molto sentito.

Il suo rango fu certamente superiore a quello di altri insigniti del Nobel, tanto che, dopo i funerali di Stato celebrati nel Duomo di Milano dal Cardinale Carlo Maria Martini, si tenne una grande commemorazione anche in Senato, con il duplice intervento di Amintore Fanfani e di Giovanni Spadolini. L’inumazione, invece, ebbe luogo nel piccolo camposanto di San Felice a Ema, presso Firenze, vicino alla consorte Drusilla.

Tornando al Nobel, non si può dire che il conferimento abbia costituito un momento di particolare visibilità per la sua figura poliedrica e per il suo ruolo civile. In effetti, Montale, tra gli Italiani gratificati dal celebre riconoscimento fu il più anziano, ma prima ancora fu quello che aveva già conseguito un ruolo particolarmente elevato di onori pubblici, sebbene edulcorati da una forma di sommesso solipsismo in cui non era difficile cogliere «l’immagine ben determinata della propria disperazione» di cui al forte giudizio della critica letteraria contemporanea.

Nondimeno, è verosimile che senza la sofferta consapevolezza della tragedia umana, il supporto fondamentale della motivazione non avrebbe trovato adesioni sufficienti: in fondo, anche il Nobel di Montale, al pari di quello dei predecessori, si fonda in misura non certo marginale sull’eterna dialettica fra teoria e prassi, o meglio, fra speranze deluse e tristi certezze.

Oggi resta soprattutto la sua poesia, con riguardo prioritario a quella dei momenti in cui Montale riesce a risolvere il proprio ragionato pessimismo in una contemplazione quasi elegiaca, come quella dei Tempi di Bellosguardo, sublimando il dolore nella nostalgia e proponendo un linguaggio semplice ma preciso, in grado di farsi comprendere da chiunque e di ubbidire a un principio fondamentale dell’estetica letteraria. Ecco un buon motivo in più per ritenere che, nella fattispecie, il Nobel sia stato un riconoscimento veramente congruo.


Dario Fo

Con l’ultimo conferimento «italiano» del Nobel per la letteratura, che ormai è storia recente (1997), la lunga vicenda del Premio ha compiuto un’escursione di qualità che, nel bene e nel male, è stata motivo di molte dispute, ma che anche per questo ha confermato la sua validità. La «vittoria» di Dario Fo (1926-2016) è stata salutata con favore da uomini come Giorgio Albertazzi, Umberto Eco, Vittorio Gassman e Vittorio Sgarbi, ma non ha ottenuto l’approvazione, fra gli altri, di Carlo Bo, Geno Pampaloni e Mario Luzi, che la definì «un’intenzione anti-letteraria».

La motivazione, per parte sua, era stata piuttosto innovativa, riconoscendo che Dario Fo, «seguendo la tradizione dei giullari medioevali dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi», e quindi con un giudizio di valore non tanto estetico, quanto dichiaratamente sociale. Per alcuni aspetti era un segno dei tempi, e in ultima analisi, di maturazione delle coscienze.

L’insignito non era soltanto scrittore, ma contemporaneamente drammaturgo, attore, regista, pittore, scenografo, comico: una sorta di «homo novus» senza dubbio eclettico che mutuava dalla sua straordinaria versatilità una sorta di nobilitazione in salsa popolare, fonte di grandi successi e di una produzione quasi smisurata di lavori teatrali, con preferenza per quelli ispirati alla «commedia dell’arte». Basti qui ricordare: Mistero Buffo, che vedeva lo stesso Fo nella parte di attore unico; Morte accidentale di un anarchico, che traeva ispirazione dalla vicenda del Commissario Luigi Calabresi e del ferroviere Giuseppe Pinelli precipitato in circostanze non chiare da una finestra della Questura; La figlia del Papa, mutuata dalla storia di Lucrezia Borgia; Un uomo bruciato vivo, tratto da quanto era accaduto a un immigrato rumeno ucciso dal suo datore di lavoro; Marino Libero! Marino è innocente!, circa il delitto di cui era stato vittima nel 1972 lo stesso Calabresi, e il processo che ne ebbe origine.

Fo aveva iniziato in una compagnia amatoriale, ma prima ancora era stato volontario nelle file della Repubblica Sociale Italiana, anche nel rastrellamento di partigiani, cosa che in tempi largamente successivi avrebbe cercato di «spiegare» dicendo che si era arruolato come Italiano, e non come fascista, prima nella contraerea e poi nell’Arma paracadutista: quanto bastava per una serie di querele e di processi che si sarebbero protratti a lungo, anche alla luce di una valenza esclusivamente politica. L’effetto promozionale di queste vicende fu ragguardevole, perché Dario Fo percorse una carriera di forti successi, dapprima in RAI e poi in TV, rafforzandola dopo il matrimonio con Franca Rame (1954) con cui avrebbe creato un sodalizio civile, artistico e politico di lunga durata.

Tra l’altro, avrebbe trovato nella moglie una collaborazione importante per il lancio di «Soccorso Rosso Militante», rivolto all’assistenza dei compagni impegnati con la giustizia, senza trascurare l’immagine anche sul piano della cultura, come quando ricevette la laurea «honoris causa» dall’Università Britannica di Wolwerhampton, di poco successiva al Premio Nobel che gli aveva dato ampia notorietà ben oltre i confini nazionali.

Diversamente dagli altri insigniti italiani, mantenne fino all’ultimo un impegno artistico conforme alla sua vocazione populista, nel senso di conformità alle preferenze di un pubblico indotto a preferire prioritariamente la satira, con riguardo maggioritario a quella nei confronti di un potere che per parte sua non mancava di esporsi al «dileggio» di cui alle motivazioni di Stoccolma, come accadde in maniera travolgente durante l’esperienza di «Mani pulite» (ma non solo). Da questo punto di vista, l’impegno di Fo e della sua famiglia ebbe carattere maieutico, anche se rimase vincolato sino alla fine a criteri di un massimalismo ormai stereotipo, ma di permanente seguito nello «zoccolo duro» della sinistra italiana.

L’affermazione può sembrare paradossale ma alla resa dei conti, nella ristretta schiera dei Nobel conferiti a esponenti della letteratura e della cultura italiane, quello del nuovo «giullare» Dario Fo e del suo «relativismo assoluto», perché privo di apprezzabili riferimenti alla trascendenza, appare l’unico davvero controcorrente, anche alla luce di un atteggiamento difforme dal pessimismo più o meno accentuato e pur diversamente motivato, appartenente agli altri. La sua satira è spesso amara, generalmente disincantata, spesso grottesca e tagliente, ma profondamente laica, e proprio per questo, avulsa da suggestioni oggettivamente spirituali.


Postilla

Nella sua celebre definizione della bellezza, Kant introdusse il principio secondo cui è bello ciò che «piace universalmente». Si tratta di un canone categorico, e nello stesso tempo comprensibile da chiunque, ma posto in discussione dalle ipotesi relativiste, sia pure in un quadro di dubbi e di sofferenze, come quelli cui si è fatto cenno trattando dei Premi Nobel «italiani». A proposito di relativismo, giova ricordare la crisi dei valori «non negoziabili» cari al Santo Padre Benedetto XVI, e l’avvento di una tendenza all’individualismo, se non anche al nichilismo, progressivamente emersa nella cultura contemporanea, e suffragata dal fatto che non sono certo «universali» le idee, i pensieri e le realtà in grado di piacere a tutti.

In questa situazione, il ruolo del Nobel è diventato più importante rispetto all’epoca stessa della sua istituzione, finalizzata a premiare coloro che si fossero particolarmente distinti nell’ambito della medicina, della fisica, della chimica, e per l’appunto, della letteratura, oltre che nella difficile arte di promuovere la pace e la concordia fra i popoli. Si tratta di valori oltremodo attuali, ma non certo «promossi» dalle crescenti tentazioni individualiste, ora accennate.

Sta di fatto che le mutazioni, sia naturali sia strategiche, sono sempre all’ordine del giorno, come potrebbe attestare lo stesso Kant, al cospetto della sua città natale, la baltica Koenigsberg diventata «ex abrupto» Kaliningrad, con un cambiamento oggi irreversibile. In questo senso, è ragionevole che anche la sua idea di bellezza possa essere riveduta, o meglio attualizzata, perché appartiene all’estetica, anziché all’etica eterna del «cielo stellato che è sopra di noi, mentre la legge morale è dentro di noi». In altri termini, un «fumus boni juris» può essere riconosciuto alle decisioni, peraltro prioritariamente politiche, di attribuire il Nobel letterario a uomini di cultura, non soltanto italiani, inclini a riconoscersi in un relativismo sostanzialmente avulso da ogni «principio primo», sebbene compatibile con i principi della cosiddetta morale laica. Mai come oggi si avverte un fatto difficilmente contestabile: dal tempo di Dante e delle sue certezze assolute ci separano sette secoli che hanno cambiato il mondo.

(febbraio 2022)

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