Le pensioni italiane agli infoibatori
Provvedimenti contro etica e diritto, in attesa di giustizia postuma

Lo scandalo di vecchia data, ma sostanzialmente ignoto a gran parte degli Italiani, delle «pensioni» concesse agli assassini del popolo giuliano e dalmata, e talvolta degli stessi oppositori slavi al regime titoista, continua a pesare come un macigno nei lunghi annali della storia, nonostante i richiami che erano stati rivolti ai Governi di ogni estrazione politica, affinché provvedessero alla revoca. Oggi, trascorsi quattro quinti di secolo dalla tragedia delle foibe e degli altri strumenti di morte fatti propri dai partigiani di Tito, la punizione dei colpevoli secondo le norme della giustizia ordinaria è diventata una semplice utopia, perché lo scorrere del tempo e il silenzio della politica hanno lasciato a quella divina l’ultimo e definitivo verdetto. Ciò non significa, peraltro, che il velo di omertà steso ad arte su quella tragedia non debba essere rimosso, se non altro per un atto di doverosa giustizia postuma nei confronti delle vittime.

Del resto, i pochi processi contro i partigiani responsabili di tanti delitti non sono mai giunti a buon fine, e la giustizia italiana è arrivata all’assurdo di dichiarare il non luogo a procedere per incompetenza territoriale, sebbene quegli atti fossero avvenuti quando in Istria, a Fiume e in Dalmazia esisteva ancora la sovranità italiana, cessata soltanto il 15 settembre 1947 con l’entrata in vigore del trattato di pace. In qualche misura, le esigenze della politica hanno preso il sopravvento su quelle della giustizia, facendo strame delle conclamate dichiarazioni di indipendenza del potere giudiziario.

Nel merito della questione, conviene ricordare che le «pensioni» elargite agli «infoibatori» hanno interessato la corresponsione di circa 30.000 assegni, concessi grazie al trattato di Osimo del 1975 e soprattutto alla circolare dell’Onorevole Tina Anselmi, ex partigiana, e prima donna ad avere assunto l’incarico di Ministro della Repubblica Italiana con la titolarità del Dicastero di Lavoro e Previdenza Sociale. Il provvedimento era iniquo, ancor prima di essere incostituzionale, da una parte perché prescindeva dalla tempistica minima di servizio richiesta per fruire della quiescenza, e dall’altra perché prevedeva la reversibilità a vantaggio del coniuge superstite nella misura del 100% anziché in quella del 60 statuita per tutti gli altri pensionamenti italiani, creando una condizione di miglior favore che non poteva avere motivazioni giuridicamente valide, ma si limitava a servire quelle di una politica lungi come non mai dall’antica definizione d’impegno di tutti e di ciascuno in favore dell’interesse generale e del bene comune.

La questione degli assegni di vecchiaia corrisposti da parte italiana in deroga alla legge si è protratta per decenni, ma le ripetute richieste di revoca sono rimaste una voce nel deserto, in attesa che si avviasse alla soluzione finale per l’implacabile legge del tempo. Eppure, a parte la prevalente natura etica che il provvedimento avrebbe rivestito, soprattutto agli inizi, e viste le ricorrenti difficoltà della congiuntura, la revoca dei benefici, o per lo meno la verifica critica delle istruttorie, sarebbero stati atti dovuti in chiave economico-finanziaria, oltre che, per l’appunto, un imperativo di ordine morale, iterando la prassi correttamente seguita per i cosiddetti falsi invalidi che si erano fatti attribuire «pensioni» di comodo, non tutelate da una condizione oggettiva.

Oggi, è amaro dover prendere atto che, mentre si continuavano a pagare «pensioni» in riconoscimento dei delitti compiuti a danno del popolo giuliano e dalmata, e nella migliore delle ipotesi quale ricompensa dei «meriti» acquisiti a fianco dei partigiani titoisti, alle forze combattenti della Repubblica Sociale Italiana che si batterono regolarmente per l’ultima difesa dell’Istria Italiana sino a perdere la vita nelle foibe, è stato negato il diritto alla pensione di guerra per superstiti, sia vedove sia orfani. Ciò, senza dire che furono revocate persino le Medaglie al Valore conferite a quanti si erano distinti con atti di particolare consistenza meritoria, anche quando avevano avuto rilevanza civile, come nel caso di talune Ausiliarie della Repubblica Sociale Italiana, quali Angelina Milazzo (caduta a Garbagnate) e Silvia Polettini Paltrinieri (caduta a Rovigo), che si erano immolate per salvare altrettante donne gestanti, facendosi scudo per la salvezza delle madri e dei nascituri.

A questo punto, non è certo casuale l’amara affermazione secondo cui gli infoibatori sono stati considerati meritevoli di «pensione» mentre gli eredi degli infoibati non hanno avuto nemmeno quella. Eppure, le vittime della barbarie erano incolpevoli, cosa che mette chiaramente in luce una tipica pagina di storia italiana: due pesi, due misure, una sola iniquità.

Le sentenze della storia, diversamente da quelle dei tribunali, non passano in giudicato. Al contrario, spenti i riflettori della polemica politica e degli interessi di parte, il dibattito circa ragioni e torti può riprendere in maniera più oggettiva e suscitare riflessioni mature su uomini e cose del tempo che fu. La vicenda delle 30.000 pensioni concesse dall’Italia a chi si era macchiato di un delitto contro l’umanità non fa eccezione: al contrario, è un’occasione importante per fare ammenda di un errore che è rimasto quale macchia indelebile in una pagina di storia per molti aspetti «rivoluzionaria» come quella del confine orientale italiano, le cui interpretazioni prevalenti sono state oggetto, troppo a lungo, di giudizi aprioristici, dalla validità scientifica per lo meno dubbia.

Oggi, qualunque sia la posizione degli storici cui è toccato di affrontare l’argomento, non sembra che sussistano dubbi proprio sul carattere rivoluzionario della storia in questione, che nel breve volgere degli anni Quaranta del Novecento, in concomitanza col Secondo Conflitto Mondiale, vide il rovesciamento di equilibri capaci di fronteggiare l’evolversi del pensiero e degli eventi per oltre un millennio. Ciò, con riferimento precipuo alle invasioni avaro-slave a carattere stanziale che nell’Alto Medio Evo, diversamente dalle precedenti, avevano sovvertito gli equilibri mutuati dall’esperienza di Roma e dal messaggio cristiano, in una straordinaria manifestazione di fede non disgiunta dalla ragione. Nondimeno, le interpretazioni di questa «rivoluzione» sono state parecchio difformi, se non addirittura antitetiche, con particolare riguardo a quelle di chi ha voluto vedere nel successo del comunismo di Tito, filiazione non sempre ortodossa di quello marxista e della sua derivazione sovietica, un momento fondamentale del processo libertario che avrebbe condotto all’avvento delle «democrazie popolari» a costo di milioni di nuovi caduti, per non dire degli esuli trascinati sulle impervie vie della diaspora, come attestano le vicende giuliane, istriane e dalmate, ma prima ancora, quelle della Germania, della Finlandia, dei Paesi Baltici, e via dicendo.

Con tutta evidenza, il sogno marxista non si è avverato: anzi, ha lasciato sul terreno un numero incalcolabile di nuove vittime, e non poche perplessità persino in talune espressioni storiografiche appartenenti al suo vecchio mondo, per non dire di quelle politiche. Certamente, il revisionismo è il sale della storia, come Benedetto Croce aveva perfettamente intuito, ma in taluni casi, il suo sviluppo è stato di tale impatto da riportare in auge le cosiddette «fedi opposte», come quelle fondate sui valori della nazionalità: per restare nel tema del confine orientale, basti pensare al percorso effettuato da Croazia e Slovenia, e dal loro approdo a forme di gestione del potere che ormai hanno definitivamente archiviato ogni reminiscenza del vecchio verbo marxista e comunista.

Ciò significa, per tornare alla questione da cui hanno tratto spunto queste riflessioni, che anche in Italia è finalmente giunto il tempo di rivedere in senso critico le decisioni a suo tempo assunte in ossequio alla politica di buon vicinato con la Jugoslavia, e poi con i nuovi Stati sorti a seguito della sua dissoluzione. Certo, a fronte di svolte negative di particolare impatto nella realtà politica presente e futura, come il trattato di Osimo del 1975 con cui l’Italia riconobbe la sovranità jugoslava sulla Zona «B» del mai costituito Territorio Libero di Trieste, e nei cui disposti qualcuno tra i maggiori «osimanti» ha finalmente riconosciuto gli estremi dell’alto tradimento, la questione delle pensioni agli «infoibatori» diventa secondaria, anche se rimane un capitolo significativo del lungo «cahier» di doglianze rimaste negli annali della storia come esempio dell’autentico «cupio dissolvi» che avrebbe caratterizzato la lunga stagione di subordine a volontà e interessi di Belgrado, da un lato quale residuo complesso riveniente dalla sconfitta bellica, e dall’altro, perché tale era la volontà di Washington, cui bisognava ottemperare volenti o nolenti, nella triste consapevolezza della realtà italiana di Paese a sovranità limitata (al pari di tanti altri: ma in questo caso, non risponde al vero che mal comune sia mezzo gaudio).

In buona sostanza, gli anni passano, ma proprio per questo il giudizio della storia acquista oggettività sempre maggiori e finisce per diventare impietoso, come accade nel caso in parola. Se non altro, ciò consente di dirlo chiaro e forte: quelle pensioni furono una distrazione di risorse finanziarie pubbliche per motivi di bassa politica, che nulla avevano a che fare con l’interesse generale, e che avrebbero potuto avallare la loro cancellazione, almeno fino a quando non fossero intervenuti i termini di prescrizione. Nello stesso tempo, sono un’offesa permanente alle vittime, cui sarebbe il caso, se non altro, di chiedere scusa.


Bibliografia essenziale

AA.VV., Foibe: la storia in cammino verso la Verità, in Atti del Convegno ISSES di Studi Storici (Napoli, 28 gennaio 2001). Confronta, in particolare, gli interventi di Angela Verdi, Le scandalose pensioni di Osimo, pagine 65-66; e di Benedetta de Falco, Gli infoibatori premiati dall’INPS, pagine 121-127.

(febbraio 2023)

Tag: Carlo Cesare Montani, le pensioni italiane agli infoibatori, foibe, partigiani di Tito, 15 settembre 1947, trattato di Osimo, Tina Anselmi, Repubblica Sociale Italiana, Angelina Milazzo, Silvia Polettini Paltrinieri, infoibatori, confine orientale italiano, Territorio Libero di Trieste.