Patriottismo in controluce
Storia e attualità: il caso di Confindustria

In un’epoca di sostanziale dissacrazione di tanti valori spirituali come quella odierna, e di crisi del senso patriottico inteso come fedeltà alla «madre benigna e pia che copre l’uno e l’altro mio parente» di cui alla celebre invocazione di Francesco Petrarca, è congruo chiedersi quale sia il referente prioritario di questa semantica, e la risposta è chiara: «Territorio abitato da un popolo, al quale ciascuno dei suoi componenti sente di appartenere per nascita, lingua, cultura, storia e tradizioni» con chiaro riferimento etimologico all’origine latina[1]. Ne derivano le conseguenti definizioni del patriota, ovvero di colui che «ama la patria e mostra il suo amore lottando e combattendo» per lei; e del patriottismo, inteso come «sentimento di amore, obbedienza e devozione per la patria».

Esistono Soggetti istituzionali e Organizzazioni della società civile che non hanno mai fatto una bandiera di questi valori per un malinteso distacco riveniente dalla loro funzione economica: ciò, sebbene la filosofia italiana del Novecento, a cominciare da quella di Croce e Gentile, abbia dimostrato che l’economia è un momento della vita spirituale, anche se inferiore, al pari dell’estetica, nei confronti di quello etico.

Un esempio tipico è quello di Confindustria, massima espressione del mondo produttivo, che non ha mai avuto tradizioni patriottiche – nel senso tradizionale – di particolare spessore, con una scelta tattica ben visibile sin dai primi anni di attività (era stata costituita nel 1910). Non a caso, nel maggio 1915, al momento della dichiarazione di guerra agli Imperi Centrali, la Confederazione si fece premura di pubblicare un manifesto in cui esprimeva forti preoccupazioni per i soldati chiamati alle armi e per i problemi di manodopera che si sarebbero verificati nei campi e nelle fabbriche, ma confermava che gli industriali erano pronti a sostenere lo sforzo bellico dell’Italia anche attraverso un maggiore impegno negli investimenti. A ben vedere, non poteva essere diversamente, tenuto conto di una logica del sistema indirizzata al perseguimento del profitto, e quindi a un dialogo con le forze governative, che sarebbe diventata, salvo eccezioni, una costante della sua strategia politica.

In seguito alla discesa in campo dell’Italia, la Confindustria ebbe vantaggi di notevole rilievo anche nei rapporti con il mondo del lavoro. Basti rammentare che l’accentramento delle scelte programmatiche da parte del Ministero degli Interni e di quello della Guerra avrebbe tolto ai sindacati operai ogni autonoma capacità di contrattazione, con funzioni «ridotte al semplice coordinamento e verifica delle disposizioni governative in materia salariale e di ritmi di lavoro»[2]. Tale strozzatura dovuta all’emergenza si estendeva alle opzioni tattiche del momento padronale, che peraltro poteva trarre compensi certamente superiori dal sostanziale imbavagliamento delle rappresentanze lavoratrici.

Durante il Ventennio la Confindustria divenne «fascista» per volontà legislativa al pari dei sindacati[3] con l’adesione obbligatoria delle imprese e delle controparti: anche in questo caso, con un’autonomia necessariamente ridotta, stante la priorità dell’intervento statale nell’economia, fattosi più intenso a seguito della grande crisi iniziata nel 1929 e approdato alla costituzione dell’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) avvenuta quattro anni dopo con uno specifico programma di salvataggio delle imprese strategiche. In questa ottica, quello di Confindustria sarebbe stato un patriottismo di facciata scomparso – al pari della struttura associativa – nella tragedia della Seconda Guerra Mondiale, lasciando spazio alla nuova Organizzazione tuttora in essere, basata sul principio dell’adesione libera, garantita da un relativo pluralismo.

Negli anni della ricostruzione, l’industria italiana diede un contributo fondamentale alla ripresa grazie a una collaborazione con le forze governative che ebbe qualche momento non facile nella prima fase, caratterizzata dalla presenza comunista nell’area del potere esecutivo, mentre gli anni Cinquanta furono improntati a una sintonia quasi costante la cui durata ebbe vita tranquilla fino alla cosiddetta «apertura a sinistra» a favore dei socialisti, mentre il confronto successivo sarebbe stato maggiormente problematico ma parimenti continuo. In politica estera, più che in quella interna, la sintonia trasse motivi di rinnovato consolidamento dalle costanti opzioni atlantiche del Governo di Roma, tanto più apprezzate dal momento industriale durante gli anni della «Guerra fredda» in cui giovarono al mantenimento di significative opportunità in favore dello sviluppo, anche nell’ambito del commercio estero.

Più tardi, il «compromesso storico» impose a Confindustria un adeguato aggiornamento delle proprie strategie, i cui effetti avrebbero avuto qualche aspetto – a prescindere dall’irrilevanza patriottica – non certo conforme agli interessi nazionali. In proposito, è congruo ricordare un esempio quasi icastico: quello di Gianni Agnelli, all’epoca massimo esponente degli imprenditori italiani[4], che spese la propria autorità allo scopo di promuovere la firma del trattato di Osimo (10 novembre 1975) con cui la cosiddetta Zona «B» del Territorio Libero di Trieste venne consegnata definitivamente alla Jugoslavia: del resto, gli interessi in gioco erano importanti, in primo luogo per la FIAT e per i suoi programmi di ragguardevoli investimenti nella Repubblica Federativa. Tra l’altro, in quell’occasione il Presidente Agnelli andò personalmente a Trieste allo scopo di convincere qualche recalcitrante[5].

Nel nuovo millennio, Emma Marcegaglia, prima donna a essere assurta ai vertici confederali, si sarebbe collocata nella medesima tradizione pragmatica. Più specificamente, nel 2011 la signora di Viale dell’Astronomia si schierò contro la decisione governativa di rendere festiva, sia pure per quel solo anno, la data del 17 marzo in cui ricorreva il 150° anniversario dell’Unità Nazionale: si perde produzione, e in tempi di bassa congiuntura, obiettava la Presidentessa, il mondo economico avrebbe bisogno di incentivi e non già di misure a carattere estemporaneo tanto più penalizzanti in quanto, sempre a giudizio della Marcegaglia, il giovedì festivo avrebbe finito per indurre non pochi lavoratori a «disertare» fino alla settimana successiva. Meglio sarebbe stato, sottolineava il vertice confindustriale, optare per una sobria e rapida celebrazione nelle aziende.

Siffatti argomenti sarebbero stati meglio comprensibili qualora si fosse premesso che il 17 marzo non era congruo inneggiare all’Unità della Patria visto che quella realmente completa era stata raggiunta a diversi decenni dal 1861: come tutti sanno, in tale anno mancavano il Veneto e il Lazio, per non dire di Trento e Trieste, e a più forte ragione, di Fiume, Pola e Zara. In realtà, gli Atti parlamentari dell’epoca attestano che Vittorio Emanuele[6] venne acclamato Re d’Italia: punto e basta.

Nel 2011, affievolire l’importanza delle celebrazioni per i 150 anni dell’Italia Unita sarebbe stato impopolare ma accettabile in chiave storica, tanto più che l’esegesi prevalente considera raggiunta l’unità statuale non prima del 20 settembre 1870, quando i Bersaglieri entrarono a Roma dalla breccia di Porta Pia. Al contrario, discutere sulla base degli euro che gli industriali avrebbero probabilmente perduto a causa della «sopravvenienza» legislativa, quantificandoli in parecchi milioni e trovando qualche sponda non del tutto prevedibile anche a livello sindacale, apparve opinabile.

Nondimeno, l’occasione venne colta per affermare l’impegno «patriottico» del sistema industriale onde assicurare uno sviluppo più ampio e organico, capace di eliminare tanti ostacoli a una crescita che per essere veramente sicura avrebbe dovuto fondarsi sulla collaborazione del momento politico, e in primo luogo sulla cooperazione internazionale in quanto idonea a promuovere investimenti ed export. Era l’anticipazione, per taluni aspetti, di quel «patriottismo economico» che sarebbe stato proposto dal Presidente Confederale Vincenzo Boccia nella nota intervista del 31 luglio 2017 in occasione della vertenza italo-francese per la cantieristica, quando il massimo esponente dell’industria italiana (29° della serie) pose in evidenza che la vera competizione non è più tra singoli Stati Europei, ma fra l’Europa intera e il resto del mondo, aggiungendo che la competizione a livello di aziende appartenenti a diversi Paesi è fisiologica, ma che a quello strategico l’Italia, la Francia e la Germania «stanno provando a imbastire una linea comune».

Il resto è vicenda strettamente attuale. Con l’avvitamento della congiuntura in uno scenario caratterizzato da fattori critici in ascesa, come il regresso occupazionale, l’esplosione del debito pubblico e la presenza di fatti esogeni condizionanti, i parametri economici sono diventati a più forte ragione prioritari, con ulteriori perdite d’importanza per la politica estera, quanto meno rispetto all’epoca postunitaria e alla prima metà del «secolo breve». In tale ottica, quello di Confindustria è diventato un potere necessariamente «forte» e in grado di essere ascoltato con maggiori attenzioni nelle stanze del potere, con un occhio di massimo riguardo per le questioni socio-economiche e finanziarie. Ne consegue che i valori nazionali e patriottici hanno perduto importanza politica nel comune sentire, limitandosi a conservare quella etica, seppure condizionata dalle urgenze più stringenti.

Allo stato delle cose, il patriottismo di chi vorrebbe onorare questi valori, a cominciare dall’Unità, con le consuete iniziative rituali, non necessariamente attorno alla bandiera, risulta d’occasione. In poche parole: non se ne può fare a meno, ma facciamolo in fretta, e voltiamo pagina, perché bisogna pensare ai bilanci, ai profitti, e giustamente, ai livelli occupativi.

Nel 1921, in concomitanza col terzo anniversario della Vittoria, quando tutta l’Italia accorse al passaggio del treno speciale che portava da Aquileia a Roma le spoglie del Milite Ignoto, coprendolo di fiori e inginocchiandosi senza distinzione di età o di classi, esistevano valori etici condivisi da una larga maggioranza del popolo, che aveva trovato la vera unità nel fango della trincea e nella solidarietà delle coscienze. Oggi, invece, si assiste a uno spettacolo paradossale in cui tutti combattono contro tutti all’insegna di un individualismo, e nella migliore delle ipotesi, di un municipalismo non certo conformi ai suddetti valori fondamentali, ivi compreso quello patrio.

Ogni Paese ha il governo che merita e l’Italia non fa eccezione, in specie da quando un’ampia maggioranza trasversale, nel clima confuso e farraginoso di una legislatura in scadenza (2005) provvide a depenalizzare l’oltraggio alla bandiera e persino l’alto tradimento. Oggi, chi volesse fare del tricolore l’uso vergognoso già suggerito da taluni «patrioti» di un malinteso federalismo, se non anche di opinabili secessioni, rischierebbe una sanzione pecuniaria di pochi euro, e chi svendesse una fetta del territorio nazionale, come accadde a Osimo – quando per tale reato vigeva la pena dell’ergastolo – se la caverebbe con pochi anni di reclusione, ulteriormente abbattuti dal rito abbreviato, dalla buona condotta, e magari dall’attenuante di avere agito alla stregua di «nobili» scopi, riconosciuti come tali da qualche giudice d’assalto.

Il principio primo che governa le cose umane, come è stato riconosciuto in chiave storica e sociologica, è quello di «impermanenza»: a ben vedere, la traduzione in pratica dell’antico assunto di Eraclito, secondo cui tutto scorre e nulla permane, tanto che non è possibile bagnarsi due volte nella stessa acqua di un fiume, in una perenne dialettica senza il cui apporto si giungerebbe alla soppressione della vita[7]. Proprio per questo, è sempre tempo di operare attivamente sul fronte dei valori non negoziabili, tenendo conto che le vie dell’iniquità non possono essere eterne e che l’imperativo categorico resta quello di onorare la legge morale.


Note

1 Per le definizioni in questione, si veda: Vocabolario Treccani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2003, pagina 1214.

2 Giorgio Fiocca, Storia della Confederazione Italiana dell’Industria, Edizioni Marsilio, Venezia 1994, pagina 208.

3 Legge 3 aprile 1926 numero 563. Già dall’anno precedente, con il patto di Palazzo Vidoni, la Confederazione e i sindacati si erano riconosciuti quali interlocutori unici, nel vincolo alle rispettive adesioni e qualificazioni fasciste.

4 L’Avvocato Agnelli, 18° Presidente nella storia di Confindustria, rimase in carica nel triennio 1974-1976 ed ebbe un ruolo di ovvia importanza nelle scelte politiche del mondo produttivo.

5 L’opposizione a Osimo non si era limitata a quella locale: tra gli altri, entrarono nel Consiglio Comunale di Trieste anche alcuni parlamentari come Giorgio Almirante e Marco Pannella, a testimonianza di un forte impegno politico dei rispettivi partiti.

6 Non fu privo di significato, nell’occasione, che il «Re galantuomo» avesse optato per chiamarsi Vittorio Emanuele II, rispettando la linea cronologica della Monarchia Sabauda e rinunciando ad aprire una nuova serie dei Sovrani d’Italia.

7 E. Paolo Lamanna, Sommario di filosofia, volume I, Edizioni Le Monnier, Firenze 1955, pagina 24.

(febbraio 2019)

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