Il Partito Comunista Italiano e la Questione Giuliana
Il ruolo dei comunisti italiani nella cessione alla Jugoslavia delle regioni più orientali d’Italia

Sin dal giugno 1941 il Partito Comunista Italiano aveva accettato in linea di principio che le unità partigiane di orientamento comunista, operanti nel settore giuliano, venissero poste sotto il controllo delle strutture partigiane jugoslave; nel marzo del 1943 il distaccamento Garibaldi si era pertanto unito alle formazioni slovene.

In quegli stessi giorni le organizzazioni partigiane italiane non comuniste operanti nella Venezia Giulia venivano invece sempre più evidenziando la loro diffidenza verso i partigiani jugoslavi e il loro acceso nazionalismo; del resto questi ultimi non si curavano in alcun modo di celare le loro mire annessionistiche, e anzi nel ’43 il Movimento Antifascista di Liberazione Nazionale Jugoslavo proclamava a gran voce il suo buon diritto di annettersi l’Istria, Trieste con tutto il litorale adriatico comprese le città di Fiume e Zara, avendo addirittura la pretesa di richiederne l’avallo dal Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI).

Del resto il 9 settembre del 1944 l’esponente della resistenza jugoslava Kardelj, in una lettera a Vincenzo Bianco, autorevole membro del Partito Comunista Italiano, ribadiva che il IX Corpus aveva avuto l’ordine di occupare Trieste, Istria, Gorizia e tutta quella parte del Friuli che avesse potuto raggiungere prima dell’arrivo delle forze alleate.

Come tutta risposta Bianco il 24 settembre, inviato a Trieste dalla direzione del Partito Comunista Italiano, diramava alle federazioni comuniste di Trieste e Udine la direttiva di far passare le loro unità partigiane sotto il comando del IX Corpus Sloveno.

Il 19 ottobre lo stesso Togliatti, dopo aver incontrato Kardelj, non solo confermava sostanzialmente le direttive di Bianco alle federazioni di Trieste e Udine, ma le integrava con la raccomandazione di fare in modo, per quanto possibile, che la regione venisse occupata dai partigiani di Tito, piuttosto che dalle truppe anglo-americane. In questa prospettiva il capo del Partito Comunista Italiano consigliava che le strutture locali del partito collaborassero con gli Slavi nell’organizzare un potere popolare nelle zone liberate e un contro-potere in quelle ancora sotto occupazione tedesca.

In questa azione i comunisti italiani non avrebbero dovuto avere remore nell’opporsi a quei loro connazionali che, ispirandosi a una concezione imperialistica e nazionalistica, alimentassero la discordia con i vicini Slavi.

Sulla questione di fondo, la definizione della futura frontiera italo-slava, Togliatti non indicava una soluzione, ma solamente il metodo attraverso cui ricercarla e cioè quello di un confronto fra «democratici» italiani e «democratici» jugoslavi, ovverosia fra i due Partiti Comunisti.

Di fronte alla ferma opposizione che queste proposte incontravano da parte dei rappresentanti degli altri partiti, i comunisti giuliani uscivano definitivamente dal Comitato di Liberazione Nazionale formando un comitato di coordinamento italo-jugoslavo dichiarato esteso a tutte le forze antifasciste giuliane.

Il 17 ottobre dello stesso anno, il Partito Comunista Italiano giuliano emanava un proclama in cui si annunciava che in breve tempo sarebbero incominciate le operazioni dell’esercito di liberazione jugoslavo per l’espulsione dei Tedeschi dall’Italia Nord-Orientale e s’invitava la popolazione ad accogliere i partigiani di Tito non solo come liberatori, bensì «come fratelli maggiori che ci hanno indicato la via della rivolta e della vittoria contro l’occupazione nazista e dei traditori fascisti». Sollecitava altresì tutte quelle unità che si sarebbero venute a trovare a operare all’interno del campo operativo dei partigiani jugoslavi a porsi disciplinatamente ai loro ordini e per la necessaria unità di comando e per il fatto che quelli erano meglio inquadrati, più esperti e meglio diretti. Concludeva infine impegnando tutti i comunisti e invitando tutti gli antifascisti a combattere come i peggiori nemici della liberazione dell’Italia tutti coloro che, con il pretesto del «pericolo slavo» e del «pericolo comunista», lavoravano per sabotare gli sforzi militari e politici dei seguaci di Tito, impegnati nella lotta di liberazione del loro Paese e della stessa Italia, e per opporre gli Italiani agli Slavi, i comunisti ai non comunisti.

In questo modo si creavano le condizioni affinché l’operato degli occupanti slavi diventasse totalmente insindacabile, data la facilità di far passare ogni azione difforme dalla logica annessionistica slava come imperialista e nazionalista, ponendo così gli Italiani della Venezia Giulia e della Dalmazia in completa balia degli Slavi.

Di fronte a posizioni così estreme gli esponenti democratici rimasti nel Comitato di Liberazione Nazionale di Trieste, e cioè democratici cristiani, azionisti, socialisti e liberali, stringevano un patto di unità d’azione e redigevano a loro volta un proclama emanato il 9 dicembre e prontamente diffuso dalla stampa e dalla radio italiane.

In tale comunicato veniva riaffermato l’impegno delle forze politiche aderenti al Comitato di difendere le frontiere ottenute dall’Italia dopo la Prima Guerra Mondiale, combattuta contro i tradizionali nemici austriaci e tedeschi a fianco di Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti. Si garantiva tra l’altro il rispetto dell’autonomia culturale delle minoranze croate e slovene che sarebbero rimaste incluse in quei confini, si ipotizzava inoltre la creazione a Trieste di un porto franco, alla cui amministrazione avrebbero partecipato tutti i Paesi interessati.

Sul finire del ’44, nella loro polemica col Comitato di Liberazione Nazionale e in coerenza con il loro allineamento alla linea di Tito, i comunisti italiani di Trieste partecipavano al costituito comitato civico congiunto sotto la guida di Rudi Ursich, accettando in pratica tutte le rivendicazioni territoriali slave. Vista la non disponibilità degli altri componenti del Comitato di Liberazione Nazionale triestino di seguirli su questa strada di completa resa alle pretese slave, i comunisti italiani formavano insieme con i titini, il 13 aprile del ’45, il Comitato Esecutivo Antifascista Italo-Sloveno (CEIAS).

Il 30 aprile a seguito dell’insurrezione italiana contro le truppe degli occupanti tedeschi, comandata dal Comitato di Liberazione Nazionale di Trieste, dopo aspri combattimenti venne liberata quasi tutta la città salvo alcuni capisaldi in cui questi ultimi, trincerati, ancora resistevano.

A questi combattimenti i comunisti, sia italiani che slavi, si guardarono bene di intervenire, salvo espropriare della paternità dell’azione il Comitato di Liberazione Nazionale, quando a tappe forzate giunsero il IX Corpus partigiano e la IV Armata Regolare Jugoslava, che nella loro azione precipitosa avevano lasciato in mani tedesche ampie e importanti zone del loro territorio nazionale come Zagabria e Lubiana, rispettivamente capitali della Croazia e della Slovenia, pur di evitare che a liberare il capoluogo giuliano fosse il Comitato di Liberazione Nazionale o eventualmente le truppe degli Alleati Anglo-Americani.

Ambedue le cose non riuscirono agli Slavi perché il pomeriggio successivo, quando le truppe alleate stavano sul punto d’entrare in Trieste, il controllo della prefettura e del municipio erano ancora saldamente in mano del Comitato di Liberazione Nazionale; purtuttavia la consegna simbolica del passaggio dei poteri, dal Comitato di Liberazione Nazionale alle truppe neozelandesi, non riuscì perché, per evitare un aperto conflitto armato con i comunisti italo-slavi, i rappresentanti del Comitato di Liberazione Nazionale furono costretti a ritirarsi. Comunque la resa delle residue truppe tedesche ancora asserragliate nella città avvenne nelle mani delle forze alleate e non in quelle slave come volevano i titini.

Incominciava così il periodo di martirio per la città giuliana sottoposta alla feroce repressione degli occupanti slavo-comunisti a cui i Neozelandesi assistettero senza intervenire.

La prima azione dei «liberatori» fu di disarmare i partigiani italiani del Comitato di Liberazione Nazionale, la Guardia Civica, il Corpo dei Volontari della Libertà, qualunque forza armata cioè che potesse intralciare in qualche modo la loro volontà annessionistica. L’unica formazione politica italiana che fu lasciata libera di agire fu il Partito Comunista Italiano giuliano; tutte le bandiere italiane furono fatte ammainare, quelle che la gente esponeva sui balconi furono fatte ritirare a colpi di mitra; la stampa libera fu soppressa, le uniche pubblicazioni furono «Il Lavoratore» e «Primorski Dnevnik», rispettivamente espressione del Partito Comunista Italiano giuliano e degli occupanti slavi.

Nel frattempo l’OZNA, la famigerata polizia politica slava, agiva silenziosamente facendo sparire i maggiori esponenti del Comitato di Liberazione Nazionale e degli Autonomisti, mentre il Comitato Esecutivo Antifascista Italo-Sloveno a cui aderiva il Partito Comunista giuliano dava vita a un Consiglio di Liberazione di Trieste, al quale il Generale Kveder consegnava l’amministrazione della città pronunciando un discorso in cui si diceva che ben presto Trieste sarebbe entrata a far parte della Repubblica Federale Jugoslava con uno statuto autonomo.

Il 5 maggio una manifestazione spontanea di migliaia di Triestini che si erano radunati in corteo dietro una bandiera italiana fu sciolta a raffiche di mitra sparate ad altezza d’uomo con la conseguente uccisione di cinque persone tra cui un’anziana donna di 69 anni e un giovane ragazzo, che nel corso della sua breve vita aveva già avuto modo di sperimentare la «liberazione» titina, essendo un esule di Fiume.

Il 6 giugno tutti i Triestini ricevettero l’ordine di presentare le loro carte di identità per farvi imprimere il simbolo della loro nuova «libertà», la stella rossa. Contemporaneamente l’ufficio competente provvedeva a ritirare i documenti agli elementi da loro ritenuti sospetti e a rilasciare alle torme di Slavi, recentemente calati in città, documenti attestanti il fatto che vi risiedevano da sempre.

Dalla foiba di Basovizza si andavano intanto recuperando, tra il raccapriccio generale, le povere salme degli «epurati», piccolo segno della normalizzazione slava, e veniva acquistando triste fama la Villa Segrè Sartori, in cui una famigerata squadra volante della «Guardia del Popolo» andava perpetrando ogni sorta di torture sugli sventurati che tentavano loro di opporsi (tra cui non mancarono comunisti italiani dissidenti).

Del resto il XIII Corpo Alleato aveva informato il Comando Supremo del Mediterraneo che in base all’indagine effettuata almeno 1.480 persone erano state deportate dalla Zona A e di altre 1.500 mancava ogni notizia, il rapporto continuava affermando che tra il 1° maggio e il 12 giugno nella sola provincia di Trieste erano state uccise 3.000 persone. L’esponente americano Grew, in una sua relazione a Truman, paragonava l’occupazione slava della Venezia Giulia a quella praticata dai Giapponesi in Manciuria o da Hitler negli anni 1938-1839.

Per chiarire ulteriormente la posizione e le responsabilità politiche avute dal Partito Comunista Italiano nell’evolversi della situazione dei Giuliano-Dalmati basta rifarsi alla lettera che Togliatti inviò nel ’45 all’allora Presidente del Consiglio, Ivanoe Bonomi.

In questa missiva, consultabile nell’Archivio Centrale dello Stato a Roma, Togliatti arrivò a minacciare una guerra civile se il Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia avesse ordinato ai partigiani italiani di prendere sotto il proprio controllo la Venezia Giulia, evitando in tal modo l’occupazione e l’annessione «de facto» alla Jugoslavia.

A patire le conseguenze di questa presa di posizione furono le popolazioni dell’Istria e della Dalmazia, che in balia dei titini subirono una metodica opera di terrorismo, che indusse la maggioranza della popolazione ad abbandonare compatta le proprie case per cercare un rifugio nella disastrata Italia post-bellica, cosa che non era avvenuta nei precedenti rivolgimenti politici subiti dalla nostra regione di frontiera né con i Francesi di Napoleone e neppure sotto il dominio austriaco quando, seppure governati da un regime reazionario, gli Istriano-Dalmati erano stati comunque lasciati liberi di rimanere se stessi, cioè Italiani.

Il comportamento operato nella Venezia Giulia dai titini, a cui il Partito Comunista Italiano si prestò passivamente e non, fu una vera e propria «pulizia etnica» tipo quella praticata dalle varie fazioni ferocemente in lotta tra loro in quella che fu la Federazione Jugoslava.

Per inquadrare l’entità del genocidio e del conseguente esodo basti dire che i morti giuliano-dalmati durante la guerra, furono nettamente superiori alla media nazionale, a cui bisogna però aggiungere le uccisioni e gli infoibamenti che sono continuati ben oltre il termine della guerra, e che portarono le foibe a riempirsi di 12.000 persone, dati ufficiali I.R.O. (International Refugèe Organisation), e la regione a svuotarsi di circa 350.000 dei suoi originari abitanti, a testimonianza di un referendum popolare patito sulla propria carne in mancanza di quello che civilmente si reclamava per stabilire il destino della regione e dei suoi abitanti.

A completare il quadro non può essere taciuto il comitato di accoglienza che queste popolazioni così ampiamente tribolate hanno ricevuto dai comunisti italiani al loro arrivo nella loro madrepatria: insulti, fischi e sputi a Venezia e Bari quando le navi cariche di profughi attraccarono al porto; minacce di sciopero a Bologna per evitare che un treno di profughi avesse modo di rifocillarsi al posto di ristoro organizzato dalla Pontificia Opera di Assistenza; la costante azione di diffamazione operata nell’indicare al pubblico ludibrio i profughi come ricchi borghesi «fascisti» che fuggivano dalle «magnifiche sorti e progressive» del comunismo di Tito.

Occorre inoltre dire della costante azione di travisamento dei fatti, di misconoscimento dell’immane tragedia operata da parte di una intellighenzia di sinistra, lungamente predominante nella scena politico-culturale italiana, che bovinamente ha voluto interpretare l’esodo soltanto con gli occhi dell’ideologia e non con quelli di un popolo travagliato, con la conseguente liquidazione degli eventi giuliano-dalmati nei libri di storia con un semplice trafiletto limitato al solo «problema di Trieste», come se noi Istriano-Dalmati fossimo dei marziani.

Il misconoscimento e l’oblio storico è riuscito così bene che la stragrande maggioranza dei giovani italiani mentre sa quasi tutto sui «desaparecidos» argentini e cileni, non sa quasi nulla dei fatti istriani e dalmati, e quando dico di essere nato in Istria mi sento rispondere: «Ah, allora sei Slavo!»

Vedi anche: http://digilander.libero.it/arupinum/

(agosto 2021)

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