Il Partito Comunista Italiano e la lotta armata
Il ricorso alle armi fu una scelta non esclusiva, comunque rilevante per il comunismo italiano

a cura di Luciano Atticciati

Nel corso degli anni ci sono stati da parte di politici e giornalisti numerosi scritti sulle tendenze democratiche del Partito Comunista Italiano. Alcuni le individuavano nella cosiddetta Svolta di Salerno del 1944 con la quale i vertici comunisti rompendo con gli altri partiti di sinistra (e la base comunista) accettavano la collaborazione con la Monarchia e il governo Badoglio. Altri hanno visto tale tendenza nel programma per la «democrazia progressiva» con la sua mobilitazione delle masse, infine alcuni vedevano un cambiamento nel Memoriale di Yalta del 1964 scritto da Palmiro Togliatti, anche se tale documento non parlava né di pluralismo né di disconoscimento della dittatura del proletariato e del leninismo. In anni successivi Enrico Berlinguer parlava di una «terza via» fra socialdemocrazie europee e socialismo reale, una innovazione che tuttavia non chiariva aspetti essenziali sulla rinuncia all’autoritarismo. La questione della democrazia e del significato da attribuire a questo termine nel Partito Comunista Italiano è stata decisamente controversa.

Un contributo importante alla comprensione di tale problematica ci è fornito dalla testimonianza della giornalista di sinistra ed ex dirigente del Partito Comunista Italiano Miriam Mafai che nel 1984 scrisse L’uomo che sognava la lotta armata di cui riportiamo i passi più significativi. Il personaggio in questione è il vicesegretario del Partito Comunista Italiano Pietro Secchia, ex partigiano proveniente da una famiglia operaia, organizzatore di gruppi armati. Oltre a riportare alcuni degli episodi di violenza, descrive il forte senso di gerarchia presente nel partito, del militante verso il dirigente e di quest’ultimo verso Stalin e i suoi successori. Interessante notare come dalla testimonianza emerga che la struttura armata fosse in vita anche molti anni dopo la fine della guerra.


«Un partito comunista, un partito rivoluzionario deve avere due organizzazioni, una larga articolata di massa visibile a tutti, e una ristretta segreta. Questo anche in tempi della più ampia democrazia e legalità perché non si può mai fare affidamento sui piani del nemico...»

Secchia (in A.P.S., pagina 587)

A Milano, lo abbiamo già raccontato, ancora alla fine di maggio venivano raccolti, ogni mattina all’alba, alla periferia, cadaveri di sconosciuti fucilati durante la notte. In Emilia, nelle province dove la lotta partigiana aveva avuto un forte connotato di classe, vennero eliminati nel corso dell’estate del 1945, signorotti fascisti e proprietari terrieri... Ma c’è senza dubbio anche un’altra storia del Partito Comunista Italiano, più segreta, fatta di appoggio e simpatia per questi piccoli gruppi armati. Non altrimenti si spiega l’avvio clandestino, verso i paesi dell’Est, della maggior parte degli imputati.

La vicenda della Volante Rossa è da questo punto di vista esemplare, anche per la struttura che si dà, negli anni tra il 1945 e il 1949.

Quante sono le esecuzioni da addebitare alla Volante Rossa? È impossibile darne una cifra anche approssimativa. Tollerati, se non aiutati, i «bravi ragazzi» della Volante Rossa conosceranno un momento di semiufficialità nel 1947 durante l’occupazione della Prefettura di Milano e usciranno allo scoperto il 14 luglio del 1948, durante lo sciopero e i disordini che fecero seguito all’attentato a Togliatti.

Le cose si svolsero esattamente come Togliatti aveva previsto. A Szklarska Poreba, la cittadina polacca dove dal 22 al 27 settembre [1947] ebbe luogo la riunione costitutiva del Cominform, francesi e italiani vennero messi duramente sotto accusa. È il rappresentante del partito jugoslavo, Kardelj, ad attaccare per primo: i comunisti italiani e francesi, ma i primi soprattutto, sono tacciati di opportunismo.

Longo per gli italiani e Duclos per i francesi, devono fare ammenda. E lo fanno: Duclos «in tono miserevole e lacrimoso», Longo «con dignità ed una certa qual fierezza». «Vi assicuro» dice tra l’altro «che il nostro partito dispone di un apparato clandestino di speciali squadre che sono dotate, per il momento in cui sarà necessario, di ottimi comandanti e di adeguato armamento».

L’episodio forse più alto di questa tendenza è l’occupazione della Prefettura di Milano, del 28 novembre del 1947. Il giorno prima era stata annunciata ufficialmente da Scelba la destituzione, e la destinazione ad altro incarico di Troilo, prefetto di Milano. Ultimo prefetto ancora in carica tra quanti erano stati nominati dai Comitati di Liberazione Nazionale in tutte le città del Nord dopo la liberazione, Troilo aveva un passato di glorioso partigiano ed era estremamente popolare a Milano. Da mesi ormai la sua presenza in Prefettura è considerata un’anomalia da De Gasperi e Scelba che tentano ripetutamente di fargli dare spontaneamente le dimissioni. Ma Troilo non è disponibile ed anzi, di fronte a una lettera di deplorazione che gli giunge da Scelba, allora Ministro degli Interni, reagisce con una protesta sdegnata al Presidente del Consiglio. Ormai la testa di Troilo è diventata, per Scelba, una questione di principio, ma la sua permanenza a Milano è diventata, dall’altra parte, una questione di principio per tutte le forze democratiche della città che promuovono a suo favore manifestazioni, cortei, ordini del giorno. Il sindaco Greppi, socialista, manda il 26 novembre a De Gasperi un appello drammatico: «Troilo resti a Milano; le parlo in nome della città, voglio sperare che la città verrà ascoltata». Ma De Gasperi e Scelba sono decisi a non accettare pressioni e vanno allo scontro: il giorno dopo in Consiglio dei Ministri si decide la sostituzione del prefetto partigiano. La città si ribella. Nella notte tra il 27 e il 28 si mobilitano per prime le fabbriche; fin dall’alba migliaia di operai affluiscono verso Corso Monforte dove, nel settecentesco Palazzo Diotti, ha sede la Prefettura. Contemporaneamente nelle prime ore del mattino si riunisce il Consiglio Comunale che decide di dimettersi in segno di protesta. Si dimettono, per solidarietà con Troilo, anche 170 sindaci della provincia, molti dei quali democristiani. Mentre giunge, da Genova e Torino, la notizia che molte fabbriche si sono già fermate e gli operai partono per Milano, la Prefettura viene occupata da centinaia di ex partigiani. Li guida un gruppo di dirigenti politici della città, tra cui Giancarlo Pajetta, segretario regionale del Partito Comunista Italiano.

Folti gruppi di operai e di ex partigiani si sono installati nei cortili e nei corridoi. Sbarramenti sono stati formati attorno a Corso Monforte con autocarri disposti attraverso le strade. Tutta la zona circostante è pattugliata e chi vuole penetrare oltre la zona sorvegliata, deve ottenere un permesso. Venanzi, già membro del Comitato di Liberazione lombardo, assume il comando delle forze partigiane in Prefettura e organizza i vari servizi d’ordine allo scopo di evitare violenze. I comandanti partigiani portano un bracciale tricolore come segno di riconoscimento.

Ma il punto più alto di questa mobilitazione, di questa prova di forza viene raggiunto a Roma il 6 dicembre. La città è praticamente invasa da quasi 100.000 partigiani, bandiere e fazzoletti rossi, uomini e donne che sfilano ricostituendo, nella marcia serrata, le loro antiche formazioni.

Uno di coloro che c’erano racconta: «Partimmo da Genova dove alla stazione funzionava perfettamente la sussistenza. A tutti fu distribuita per la notte una razione K, razioni d’emergenza delle truppe americane. A Spezia la tradotta si completava con partigiani del luogo... Nel mezzo della Maremma ci fu una sosta obbligata, penso sia stata dovuta al confluire di diversi convogli che si mettevano al passo sullo stesso binario. Dopo pochi minuti corse la voce “sabotaggio”. Esasperazione. Inutilmente nel buio staffette passavano di carro in carro spiegando la ragione della sosta. Dal carro degli spezzini partì un colpo di bazooka. Per pochi secondi, ma intensissima, seguì una sparatoria infernale».

L’apparato repressivo dello Stato italiano – polizia e carabinieri – è ancora debole, in via di ricostituzione. E nella polizia ci sono ancora ex partigiani; meno di un anno fa, certamente, ma non tutti sono stati allontanati. Quale sarebbe l’esito di uno scontro tra una mobilitazione popolare armata e l’apparato dello Stato? Riflettendo tra sé e sé, sull’aereo che lo sta portando a Mosca, Secchia scuote la testa incerto: non sa darsi una risposta precisa... Dopo l’esclusione dal governo dei comunisti e dei socialisti i fascisti hanno rialzato la testa e si sono dati ad assalire le sedi comuniste senza che De Gasperi e Scelba applicassero l’articolo 17 del trattato di pace che interdice ogni attività fascista, i lavoratori hanno assunto direttamente la difesa delle loro sedi e a Torino, Milano, Varese, Venezia, nelle Puglie, in Sardegna e in Sicilia vi sono state grandiose manifestazioni di protesta. Non solo, ma i lavoratori hanno risposto assaltando i covi delle organizzazioni fasciste e monarchiche... Dunque Stalin non offre a Secchia la copertura totale che egli forse si aspettava e dimostra di condividere, nonostante le critiche espresse dal Cominform, la linea adottata da Togliatti... Zio Giuseppe ha parlato. Adesso sta ai nipotini tradurre in pratica i suoi orientamenti: niente rivoluzione, oggi non si può, ma lotte più avanzate sì e, soprattutto, «prepararsi bene» senza tuttavia passare il segno oltre il quale non sia possibile che lo sbocco insurrezionale. Il messaggio di Mosca viene tradotto in italiano da Togliatti al VI Congresso del partito che si apre il 4 gennaio 1948 a Milano.

I fatti di Praga, dove nel febbraio [1948] il partito comunista ha risolto una crisi di governo facendo scendere gli operai in piazza e assumendo il potere, tolgono credibilità alle affermazioni legalitarie di Togliatti. A Togliatti risponde immediatamente un dirigente socialdemocratico, Carlo Andreoni, invocando una sorta di «guerra preventiva» contro il Partito Comunista Italiano.

Alle ore 18 [dopo l’attentato a Togliatti] il prefetto di Livorno telegrafa al Ministro degli Interni: «Primi automezzi usciti per pattugliamento fatti segno reiterati colpi di arma da fuoco, cui agenti hanno risposto. Due negozi di armi svaligiati...». Da Genova telegrafa il prefetto Antonucci: «Alla massa operaia propriamente detta si sono aggiunti numerosi ex partigiani garibaldini e folti gruppi teppisti armati che si sono dati ad atti di violenza in punti diversi della città immobilizzando vetture tranviarie e macchine, stabilendo posti blocco, aggredendo e disarmando tutti militari arma et guardie di sicurezza, incontrati isolati... Colonna di cinque autoblinde della polizia assalita da forze soverchianti et catturata Piazza De Ferrari. Sono altresì piazzate armi automatiche sul ponte monumentale et su diversi tetti caseggiati Via XX Settembre, in Piazza De Ferrari e mercato del pesce per dominare da qui la caserma guardia finanza rimasta così assediata». A Torino scatta subito l’occupazione delle fabbriche; a Varese un «gruppo facinorosi tumultuanti circa 2.000 persone, recavansi locale carcere giudiziario assaltandolo scopo liberare detenuti Colombo Arcisifredo e Galli Carlo, ambedue comunisti precedentemente condannati per detenzione armi. Tagliati i fili telefonici esterni, sfondate porte carceri e travolti reparti di polizia riuscivano a liberare i due detenuti». In quasi tutte le città si hanno scontri pesanti con la polizia, invasioni e distruzioni di sedi della Democrazia Cristiana e del PSDI. A Genova, nel giro di poche ore, il tono della protesta assume connotati pre-insurrezionali. «Nel corso della nottata» telegrafa il prefetto all’alba del 15 luglio «casermetta guardie Ps di Bolzaneto è stata ripetutamente attaccata da facinorosi armati». A Torino, mentre Valletta è praticamente sequestrato alla Fiat occupata «una cinquantina di persone armate di pistole et moschetti circondavano batteria artiglieria sita in località San Francesco et obbligavano armata manu maresciallo at consegnare armi dotazione...». A Venezia i manifestanti occupavano l’arsenale.

Mentre Togliatti, pochi minuti dopo l’attentato viene portato al Policlinico e affidato alle cure di Valdoni per un intervento operatorio che avrà esito felice il Partito Comunista Italiano resta affidato nelle mani di Longo e Secchia che ne sono i vicesegretari.

La prova è drammatica: il moto di protesta sta assumendo spontaneamente carattere insurrezionale. Come guidarlo? Fin dove spingerlo? La prima riunione della Direzione del partito si svolge al secondo piano delle Botteghe Oscure un’ora dopo la fine dell’intervento cui Togliatti è stato sottoposto e mentre già in tutta Italia le piazze si riempiono di operai in sciopero, di gruppi armati, di bandiere rosse.

Celeste Negarville, arrivato da Torino «sostiene la necessità di un chiaro atteggiamento che sanzioni ed esalti il carattere legittimo, umanamente spontaneo della protesta, ma ne smorzi o almeno non incentivi le intemperanze ingovernabili». Longo, Sereni e Terracini oppongono a questa linea non un’alternativa, ma un dubbio, un’incognita: «Come si comporterà il governo oppure il suo ministro di polizia, oppure i prefetti, già fascisti e ora repubblicani, i questori reintegrati nelle funzioni dopo gli scandali ai processi tolleranti del loro passato collaborazionista?». Mentre il governo, riunito a Montecitorio, manda a Botteghe Oscure un messaggio per metà rassicurante e per metà minaccioso (si escludono le dimissioni di Scelba, ma si escludono anche misure eccezionali, a nessuno conviene cavalcare la tigre del disordine), Secchia manda il fratello Matteo a consultare qualcuno all’ambasciata sovietica, a porre la stessa domanda che è già stata proposta nel dicembre scorso a Stalin. Si può, ora? La risposta è la stessa che venne data allora: «Oggi non si può». Così, quando l’«Unità» chiede le «dimissioni del governo della discordia e della fame, del governo della guerra civile», Secchia, Longo e gli altri dirigenti del Partito Comunista Italiano sanno già bene che questo è l’obiettivo massimo che si può proporre la protesta popolare. Nulla di più. Ma la base del Partito Comunista Italiano, i partigiani che tirano fuori le armi, gli operai che se le conquistano, a Genova a Livorno a La Spezia a Venezia negli scontri con la polizia e negli assalti alle caserme, non lo sanno ancora. Pensano, sperano che questa sia finalmente la volta buona, che il 14 luglio possa essere concretamente la rivincita sul 18 aprile. «Il 18 aprile ci siamo contati, oggi ci pesiamo».

Quando, il 12 dicembre 1969, scoppiano a Milano le bombe nella Banca dell’Agricoltura, a Piazza Fontana, Feltrinelli è a Vienna. Non ha un attimo di dubbio: questo è il segnale, la vigilia immediata del colpo di Stato. Prende una macchina e, senza fermarsi un attimo, guida fino a Borgosesia, dove vive Cino Moscatelli [ex capo partigiano e deputato del Partito Comunista Italiano]. Gli entra in casa stravolto, gli spiega che è il momento di muoversi, che ci sono masse di giovani disposte a rispondere a una sua parola d’ordine, all’invito alla battaglia. Le armi? Si strapperanno al nemico, come durante la guerra partigiana... Se Berlinguer e il Partito Comunista Italiano sono prudenti, dall’altra parte – dopo la morte di Feltrinelli – si accelerano i tentativi di dar vita ad una struttura clandestina, o semiclandestina, armata. Questa struttura ha bisogno di una qualche sponda legale e la cerca insistentemente in vecchi personaggi ormai mitici della Resistenza e nell’Anpi.

Nulla è lasciato al caso. La vita del partito si articola secondo un calendario fisso: il lunedì si farà in federazione la riunione dei segretari di sezione, il martedì la riunione del direttivo di sezione, il mercoledì la riunione dei segretari di cellula, il giovedì le assemblee di sezione, il venerdì tutte le riunioni di cellula e la domenica la diffusione dell’«Unità». Restava libero solo il sabato che però, secondo il Quaderno dell’Attivista, era opportuno dedicare allo svolgimento di un corso ideologico in sezione. Nulla è lasciato al caso. Settimana per settimana viene proposto il tema dell’assemblea che si svolgerà in tutte le sezioni in tutta Italia; lo schema della conversazione appare già sviluppato punto per punto sul Quaderno così che al «compagno oratore» sarà sufficiente studiarlo con attenzione per essere in grado di ripeterlo alla assemblea. E se qualcuno dei presenti volesse fare delle domande? Niente paura: il Quaderno dell’Attivista prevede anche le domande e fornisce, naturalmente, le adeguate risposte. Nulla è lasciato al caso. C’è l’elenco dei libri da leggere... L’incitamento a raggiungere gli obiettivi (nel tesseramento, nella diffusione dell’«Unità», nell’organizzazione delle feste o delle riunioni) è sostenuto dall’uso dei premi e dei biasimi: i meritevoli, coloro che hanno raggiunto gli obiettivi, vengono iscritti in una lista «rossa», i negligenti in una lista «nera».

Si perfeziona uno stile di lavoro di tipo bolscevico severo e dogmatico che prevede l’attivazione esasperata di tutti gli iscritti, il controllo delle loro opinioni, del loro orientamento, della loro fedeltà in tutti i momenti della vita quotidiana. Ma questo irrigidimento burocratico, vissuto da decine di migliaia di attivisti, con una sorta di religioso trasporto, non impedirà affatto (al contrario!) una coraggiosa apertura verso l’esterno. La regola durissima secondo cui il partito aveva diritto e dovere di conoscenza e decisione anche sulla vita privata dei dirigenti era uguale per tutti.

Il «tradimento» di Magnani e Cucchi [partigiani decorati e parlamentari PCI, allontanati nel 1951] che avevano sostenuto che se l’Armata Rossa avesse invaso l’Italia, i comunisti avrebbero dovuto battersi per l’indipendenza del paese... Il ritorno di Secchia da Mosca serve a imprimere un nuovo slancio al movimento dei Partigiani della pace, che si mobilitano in una campagna a tappeto contro l’intervento americano in Corea, una campagna che, sull’esempio di quella precedente contro la bomba atomica, raggiungerà milioni e milioni di persone.

Il segretario e il vice segretario. A queste due cariche vengono confermati Togliatti e Longo. Ma la decisione provoca proteste di Secchia e un tale disappunto a Mosca che Togliatti viene obbligato a correre subito ai ripari. Senza nemmeno attendere, come sarebbe stato logico e opportuno, una nuova riunione del Comitato Centrale, Togliatti scrive una lettera a tutti i membri del Comitato Centrale perché acconsentano, per iscritto, alla immediata elezione di Secchia alla carica di vicesegretario, a fianco di Longo.

(dicembre 2019)

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