Mario Pannunzio
Da Longanesi al «Mondo». Ritratto di un maestro anticonformista

Il XX secolo ha conosciuto almeno tre grandi cambiamenti nel settore della comunicazione, connessi con l’invenzione della radio, con quella della televisione e con l’avvento della telematica. Ma non possiamo certo ignorare il ruolo essenziale della carta stampata e dei protagonisti dell’editoria e del giornalismo. Tra questi il Lucchese di nascita e Romano d’adozione Mario Pannunzio.

Rimane complesso esprimere in maniera concisa che cosa la sua figura abbia rappresentato per il giornalismo e la cultura politica italiana della prima metà del XX secolo.

Nato a Lucca il 5 marzo del 1910 e deceduto a Roma il 10 febbraio 1968, egli era figlio di un avvocato abruzzese e di una nobildonna lucchese. Trasferitosi a Roma, fin da ragazzo si interessò all’attività giornalistica e culturale, e fu uno dei frequentatori del caffè Aragno, un locale di via del Corso, dove si raccoglievano gli intellettuali della capitale negli anni Trenta del XX secolo.

Pannunzio fondò nel 1933 un settimanale di lettere ed arti, poi rassegna mensile, «Oggi», rivista che chiuse dopo pochi numeri per inopportunità politica. Nello stesso 1933 iniziò la sua frequentazione con Arrigo Benedetti, anche lui Lucchese di nascita, con cui instaurò una solida amicizia. Nel 1934, anno in cui conseguì la laurea in giurisprudenza, fondò con Alberto Moravia la rivista «La Corrente». Sperimentò poi, diversificando i suoi interessi, sceneggiatura cinematografica e pittura, per tornare nel 1937 al giornalismo, chiamato a Milano da Leo Longanesi.

Scrive Paolo Murialdi: «Quando nel 1939 il settimanale “Omnibus” viene soppresso, Rizzoli ottiene l’autorizzazione a pubblicare un altro rotocalco di attualità, “Oggi”, diretto da due giovani collaboratori di “Omnibus”, Arrigo Benedetti e Mario Pannunzio, ma senza Longanesi la cui lezione, però, resta e riaffiorerà nel secondo dopoguerra con “L’Europeo” e con “Il Mondo”»[1].

Anche questa testata non ebbe vita lunga e nel 1941 fu chiusa, sempre per motivi politici.

Pannunzio lo troviamo tra i fondatori, durante la Seconda Guerra Mondiale, del Partito Liberale, che vide in Benedetto Croce la figura più rappresentativa e, con Pannunzio, nomi come Leone Cattani, Franco Libonati, Nicolò Corandini e Manlio Brosio, con cui fondò «Risorgimento liberale», quotidiano politico che diresse sino al 1947. Con la testata il nostro si prefisse di non appiattire l’antifascismo, facendone piuttosto «un lievito» per una battaglia antitotalitaria;[2] il giornale vide un’interruzione di pochi mesi, perché il suo fondatore venne incarcerato alla fine del 1943.

Nel 1948 passò a «L’Europeo», diretto da Benedetti, e nel 1949 fondò «Il Mondo», settimanale che egli avrebbe diretto sino alla sua chiusura, nel 1966. Fu, di fatto, il capolavoro giornalistico e culturale di Pannunzio, anche se il suo percorso professionale contava già un lungo iter formativo.

Scrive in proposito Valerio Castronovo: «Nella storia del secondo dopoguerra, il settimanale di cui Pannunzio fu animatore per diciott’anni rappresentò, si può ben dire, un’esperienza del tutto originale e pressoché unica. Fra gli organi di critica politica e culturale non accademici, occorre risalire all’“Unità” di Salvemini o alla “Rivoluzione liberale” di Piero Gobetti per trovare qualcosa di simile»[3].

In quel periodo il nostro passò dalle fila del Partito Liberale Italiano al Partito Radicale. Ed infatti «Il Mondo» avrebbe in seguito sostenuto le prime battaglie dei radicali, ad esempio quella contro «i palazzinari», la speculazione edilizia e gli intrecci fra imprenditorialità e politica, in particolare tra il mondo democristiano e la Federconsorzi, corroborato dall’analogo supporto che Benedetti assicurava con il neonato settimanale «L’Espresso».

In molti hanno omaggiato la figura di Aldo Pannunzio. Tra questi certamente merita una menzione particolare Indro Montanelli, Toscano come il nostro, ma con personalità e formazione completamente diversa. Egli, graffiante come sempre nelle sue esternazioni, ammirò incondizionatamente il direttore de «Il Mondo», facendo un ritratto di se stesso e dell’amico giornalista che non lascia spazio ad ulteriori osservazioni.

Così scrisse, dopo la prematura scomparsa del giornalista: «Pannunzio era mio coetaneo, anzi, era nato qualche mese dopo di me. Eppure nella mia amicizia per lui c’era una sfumatura di reverenza: un sentimento al quale sono piuttosto allergico. Lo provai subito, fin dal primo incontro, che pure risale a tanti anni fa, quando entrambi ne avevamo poco più di venti e facevamo il nostro apprendistato nel giornalismo. Io ero fascista allora: mi trovavo bene nell’aria sagraiola che il Regime aveva istaurato, mi piacevano le uniformi e le tendopoli, mi eccitava l’atmosfera in cui ci avevano immerso di perpetua mobilitazione e di “vigilia” non si sa bene di che.

Pannunzio non partecipava a nessuno di quegli entusiasmi; della nostra generazione era dei pochissimi che fossero riusciti a sottrarsi persino all’obbligo dell’iscrizione al Partito. E anche chi non condivideva questo atteggiamento di rifiuto sentiva che esso era il frutto di un carattere e di un’indipendenza superiori. Non assumeva, intendiamoci, pose censorie. Mario non è stato mai più vecchio della sua età, come capita ai Catoni. A vent’anni aveva vent’anni anche lui, come noi e più di noi: sia al tavolo di lavoro che all’osteria, al caffè e con le ragazze, beveva, peccava gagliardamente. Ma era proprio questo che ci disarmava. La sua lezione di libertà e d’intransigenza morale non veniva da un bacchettone in polemica con le manifestazioni gladiatorie e le liturgie guerriere del fascismo perché scartato alla leva. Veniva da un giovanottone sano e allegro che avrebbe potuto comodamente vincere anche i littorali dello sport. Se si rifiutava di parteciparvi, non era per paura di essere bocciato. Quanto l’esempio di Pannunzio abbia contato per tutti noi, è difficile da dire. Credo che a buttare alle ortiche quella camicia nera che ci eravamo trovati cucita addosso all’età di dieci, dodici anni, ci saremmo arrivati in ogni caso, prima ancora che la catastrofe si profilasse. Ma non c’è dubbio che Pannunzio ci abbreviò e ci facilitò l’operazione, grazie all’ascendente che esercitava su di noi e che gli conferiva quell’indefinibile dono che si chiama “autorità” […]. Mi ricordo quando, di ritorno dall’Abissinia, andai a trovarlo nella mia divisa di bande indigene. Mi squadrò, mi batté una mano sulla spalla, mi disse: “Ti ci sei divertito?”. E di colpo mi accorsi che tutto il succo di quell’avventura non era stato altro, davvero, che un gran divertimento”»[4].

Alla metà degli anni Cinquanta del XX secolo, «in un clima politico incandescente, la Magistratura fece emergere una volontà repressiva nei confronti della stampa. Nelle polemiche giornalistiche, che sovente arrivarono a toni parossistici, spuntarono anche falsi documenti. Il caso più sconcertante ebbe come protagonista Giovanni Guareschi, il popolare direttore del settimanale umoristico “Candido”, che apparteneva a Rizzoli ed era schierato su posizioni di Destra. Guareschi accusò De Gasperi di aver chiesto agli Angloamericani di bombardare Roma. La lettera su cui si basò l’accusa era un falso. Risultò anche falsificato un memoriale di Mussolini pubblicato da “Oggi”.

Una sintesi dei deteriori aspetti del giornalismo la fece “Il Mondo” in una nota intitolata L’Italia infetta, pubblicata il 18 maggio 1954. Il settimanale di Pannunzio parlò di “un clima di faciloneria e di malafede, di accuse gratuite e di insulti volgari, di piccoli mercati e di grosse mistificazioni” e “di una stampa che offriva a queste manovre i più duttili ed efficaci strumenti”»[5].

Negli anni del Centrosinistra «Il Mondo» condusse una feconda critica all’interno della formula e cercò di supplire alla carenza «di una cultura politica e storica che sapesse indirizzare, dare un senso ed un fine alla pratica di governo – osservò Nicola Matteucci nel «Mulino»; – era il limite più evidente al di là della sua carriera programmatica o della sua energia politica, del Centrosinistra»[6].

«Il Mondo», in una parola, esercitò uno stimolo critico, essenziale per successive aperture pluralistiche di matrice laica.

Nel 1968 è stata fondata in onore dell’editore e giornalista, a Torino, l’Associazione Culturale «Centro Pannunzio». Egli contribuì a rendere ragione della grandezza del giornalismo nostrano, che non ebbe in taluni casi nulla da invidiare ad altri Paesi e/o esperienze europee.


Note

1 Paolo Murialdi, Storia del giornalismo italiano, Bologna, Il Mulino, 1996, pagina 164.

2 Da Longanesi al «Mondo», a cura di Pier Franco Quaglieni, Rubettino editore, 2010, pagina 83.

3 «Centro Pannunzio» di Torino, Pannunzio e «Il Mondo», Torino, edizioni Albert Meynier, 1988, pagina 11.

4 «Centro Pannunzio» di Torino, Pannunzio e «Il Mondo», Torino, edizioni Albert Meynier, 1988, pagine 29-30.

5 Paolo Murialdi, Storia del giornalismo italiano, Bologna, Il Mulino, 1996, pagina 219.

6 Necrologio de «Il Mondo», in «Il Mulino», aprile 1966, senza firma ma attribuibile a Nicola Matteucci come dimostra la lettera di Mario Pannunzio a Matteucci riportata in Pier Franco Quaglieni, Pannunzio e «Il Mondo», pagina 85.

(gennaio 2012)

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