L’incontro tripartito italo-croato-sloveno di Trieste (luglio 2010)
Un concerto stonato

L’estetica è un momento dello Spirito che non appartiene alla politica né tanto meno alle alchimie della demagogia; caso mai, è un fatto di cultura e di sensibilità personali. A più forte ragione, l’assunto è valido per la grande musica, che diversamente da altre arti si esprime con un linguaggio universale comprensibile dovunque, al di là delle latitudini e delle longitudini. In questa ottica, otto anni orsono si era confidato di poter leggere la decisione di un grande Direttore come il Maestro Riccardo Muti di dedicare una serata speciale alla città di Trieste nella suggestiva cornice di Piazza dell’Unità e di portare un contributo all’amicizia ed alla cooperazione internazionale, chiamando al proscenio alcune centinaia di orchestrali italiani, croati e sloveni.

Accadde tutto il contrario, a causa della strumentalizzazione politica che volle cogliere nel concerto del luglio 2010 il momento culminante di un processo di «riconciliazione» suggellato dall’abbraccio simbolico del Presidente Giorgio Napolitano con i suoi omologhi di Lubiana e Zagabria, Danilo Turk e Ivo Josipovic: processo sostanzialmente già compiuto, visti i rapporti di buon vicinato e di collaborazione economica in essere da gran tempo.

L’Italia, in effetti, aveva già dato parecchie prove storiche di buona volontà «incondizionata» accettando l’iniquo «diktat» del 1947 e l’infausto trattato di Osimo del 1975, o riconoscendo in tempo reale, e senza alcuna contropartita, le nuove Repubbliche indipendenti sorte sulle ceneri della Jugoslavia all’inizio degli anni Novanta; ciò senza dire del disco verde offerto regolarmente e «gratuitamente» dal Governo di Roma al percorso europeo, prima della Slovenia e poi della Croazia.

Una celebrazione di «entente cordiale» avrebbe avuto senso qualora fosse stata inquadrata nella legittima attesa italiana di cancellare, se non altro, le offese agli Esuli giuliani e dalmati ed ai Martiri delle foibe, già formulate a più riprese non soltanto da Tito, ma anche dall’ex Presidente Croato Stipe Mesic, o quelle di cui furono oggetto in Slovenia i cittadini italiani che avevano espresso il desiderio di portare un fiore all’abisso di Globovnica e di recitare una preghiera in memoria delle Vittime.

Il concerto del Maestro Muti avrebbe potuto diventare davvero un «evento storico», secondo l’immaginifica definizione della stampa di allora, se Josipovic e Turk avessero colto l’occasione per inginocchiarsi a Basovizza, la «grande tomba» del Carso, e Monumento nazionale italiano, seguendo il non dimenticato esempio del Cancelliere Willy Brandt quando aveva chiesto perdono ai Martiri dell’Olocausto, a nome della Germania.

Invece, il Presidente Turk volle subordinare la sua presenza a Trieste all’omaggio di Napolitano all’Hotel Balkan, sede della ex Casa nazionale slovena incendiata nel luglio 1920 durante la dimostrazione in risposta ai fatti di Spalato in cui avevano perso la vita gli Italiani Tommaso Gulli e Aldo Rossi; per non dire che nell’occasione caddero anche il tenente Luigi Casciana, in attività di servizio d’ordine, e poco prima – in Piazza dell’Unità – il giovane Giovanni Nini, mentre i danni materiali subiti dal «Narodni Dom» furono accresciuti dal solo fatto che i nazionalisti sloveni lo avevano dotato di un importante magazzino di esplosivi, per quali fini è facile immaginare.

Eppure, l’evento continua ad essere considerato quale inizio della «persecuzione» fascista ai danni della minoranza, anche se Benito Mussolini sarebbe diventato Capo del Governo oltre due anni dopo; ed un’emittente televisiva d’interesse nazionale, sulle ali dell’entusiasmo per l’iniziativa di Muti, volle parlare addirittura di «strage del Balkan». Ciò, con un esempio di disinformazione storica davvero macroscopico: infatti, da parte slovena si ebbe un solo morto (contro i quattro Italiani) a seguito delle ferite riportate per essersi gettato da un balcone a causa dello spavento provocato dalle esplosioni della santabarbara interna.

Nel luglio 2010, il Sottosegretario all’Ambiente Roberto Menia, quale deputato giuliano ed espressione del Governo, il Presidente Onorario della «Lista per Trieste» Gianfranco Gambassini, quello del Gruppo «Memorandum 88» Italo Gabrielli ed altri patrioti, non lasciarono alcunché d’intentato per evitare che il Presidente Napolitano si piegasse alla richiesta slovena e per fare in modo che, se non altro in ossequio alla «par condicio», i tre Presidenti si recassero anche a Basovizza.

Niente da fare: anzi, quasi all’ultimo momento proprio un’Organizzazione degli Esuli, d’intesa con autorevoli esponenti della minoranza, avrebbe ipotizzato una soluzione di compromesso, poi adottata all’unanimità, che prevedeva dopo la deposizione della corona al «Balkan» quella al cosiddetto «monumentino» dell’Esodo (una semplice targa installata sulla vecchia centralina dell’Enel davanti alla stazione centrale, senza alcun riferimento alle cause per cui i 350.000 profughi furono costretti ad abbandonare tutto, e tanto meno alle Vittime delle foibe).

Intendiamoci. Nella storia giuliana e dalmata erano già accaduti fatti di gran lunga peggiori, a cominciare dall’alto tradimento (reato imprescrittibile che all’epoca prevedeva la pena dell’ergastolo) perpetrato con il trattato di Osimo del 1975: tuttavia, la gratuità e l’insipienza di quanto occorse a Trieste nel luglio 2010 costituiscono un «vulnus» tuttora aperto.

Ben lungi dal compiere un atto commendevole di cooperazione, l’Italia diede l’ennesima conferma, se per caso ve ne fosse stato bisogno, del suo «status» di Paese a sovranità limitata, tanto più amaro perché non fu manifestato al cospetto di grandi Potenze, ma delle giovani Repubbliche ex Jugoslave (la Slovenia era entrata da poco nella Casa Comune Europea e la Croazia avrebbe fatto altrettanto solo più tardi).

Per il concerto di Muti si versarono i classici fiumi d’inchiostro parlando di svolta epocale e di evento fondamentale nella storia di Trieste: purtroppo non fu così, perché coincise con l’ulteriore dimostrazione di quella «cupidigia di servilismo» che Benedetto Croce e Vittorio Emanuele Orlando avevano già bollato con nobili parole nella discussione per la ratifica del trattato di pace davanti all’Assemblea Costituente (31 luglio 1947). Il tutto, in un contesto oggettivamente più grave, perché l’Italia non era più quella del dopoguerra, reduce dal disastro ed alle prese coi problemi della ricostruzione, e prima ancora, perché la Jugoslavia, travolta da una crisi istituzionale, etnica ed economica senza pari, aveva già cessato di esistere.

Durante il concerto del luglio 2010, le bandiere di Lubiana e Zagabria sventolarono in Piazza dell’Unità al suono dei rispettivi inni nazionali, davanti alle targhe che ricordano il sacrificio dei «Ragazzi del 1953» uccisi dalla polizia inglese del cosiddetto Territorio Libero di Trieste, tra cui i giovanissimi Piero Addobbati e Leonardo Manzi di famiglia esule (gli «ultimi Martiri del Risorgimento» – come da pertinente definizione del Presidente della Federazione Grigioverde Generale Riccardo Basile).

Ciò avrebbe voluto essere un contributo a chissà quale «pacificazione» già statuita da lunghi rapporti bilaterali e dalla cosiddetta caduta dei confini, o meglio delle rispettive garitte, perché le frontiere sono sempre in essere anche in ambito comunitario. Ma allora, com’è possibile che la città di San Giusto fosse stata blindata a cura delle forze dell’ordine «tripartite» fino al punto da schierare sui tetti, lungo il percorso dei Presidenti per accedere ai luoghi di un frettoloso pellegrinaggio, fior di tiratori scelti? E per dirne un’altra, come mai furono esclusi dall’abbraccio «storico» i Presidenti degli altri Paesi d’area, ed in primo luogo di Albania, Austria, Bosnia-Erzegovina, Montenegro e Serbia?

Le voci più importanti del «negazionismo» quali quelle di Alessandra Kersevan, Claudia Cernigoj e Sandi Volk (secondo cui le foibe sarebbero state un fenomeno marginale e motivato dalle presunte «colpe» italiane del Ventennio), sempre pronte ad intervenire per contestare la realtà storica delle persecuzioni partigiane nei confronti degli Istriani, Fiumani e Dalmati, non si fecero sentire. Sembra un particolare da poco, ma è molto significativo perché dimostra, quanto meno, che nell’ambiente dell’oltranzismo slavo le iniziative collegate al concerto furono verosimilmente gradite.

Lo stesso può dirsi per le contestazioni che vennero riservate in Croazia al Presidente Josipovic «colpevole» di avere reso omaggio alla targa che ricorda l’Esodo: un fenomeno che secondo gli «ultras» di Zagabria dovrebbe essere largamente ridimensionato per avere coinvolto non oltre 200.000 persone (in realtà furono circa 350.000), a prescindere dai «pochi» infoibati, quasi tutti «fascisti della peggiore specie» (in effetti furono almeno 20.000, secondo la pertinente e sinora insuperata ricerca di Luigi Papo); ecco un altro concerto suonato più volte ed ormai logoro, ma pervicacemente riproposto da negazionisti e giustificazionisti, i cui argomenti sono stati azzerati da quello che, secondo la lucida diagnosi di Italo Gabrielli, mutuata dal pensiero giuridico di Raphael Lemkin, fu un vero e proprio genocidio.

Oggi si può affermare a ragion veduta, in una corretta prospettiva storica, che l’evento di otto anni orsono sfuggì di mano a chi avrebbe avuto il dovere di governarlo con la normale diligenza del buon padre di famiglia; e che il concerto del Maestro Muti, sul piano politico, abbia «steccato» prima di cominciare costituendo, nella migliore delle ipotesi, l’ennesima offa per un popolo destinato ad essere, secondo un’inveterata tradizione, oggetto di storia. Del resto, in piazza si raccolsero, secondo le stime più larghe, non più di 6.000 persone, tutte con ingresso rigorosamente gratuito: nella più ottimistica delle ipotesi, il 3% della popolazione triestina (ma con massiccio intervento sloveno).

A posteriori, è troppo facile dire che sarebbe stato meglio accantonare polemiche pretestuose ed agire per opportune vie diplomatiche in modo da «governare» attese di parte altrui che strada facendo sono diventate vere e proprie «pretese», ma l’Italia è questa: alla fine, raccoglie quello che merita, a costo di svilire la grande cultura nella bassa politica.

Meno che mai, serve invocare la ragione di Stato, che nel significato originario esprime una deroga a principi giuridici essenziali, e talvolta alle stesse consuetudini politico-diplomatiche, «per ragioni di pubblica utilità». Infatti, per quanti sforzi si facciano, non è dato comprendere quali possano essere stati siffatti motivi, non essendo certamente d’interesse generale la fruizione della grande musica di Muti da parte di poche migliaia di persone, molte delle quali preoccupate solo di apparire, né tanto meno i buoni affari che qualcuno, soprattutto nella grande industria e nelle attività commerciali, abbia potuto lucrare in Slovenia od in Croazia.

Infine, vale la pena di evidenziare che a Trieste accadde ancora di peggio. La vicenda, infatti, mise ulteriormente in chiaro che il mondo degli Esuli giuliani e dalmati, pur avendo grandi istanze ideali da promuovere ed importanti interessi legittimi da tutelare, è sempre più diviso, iterando la triste immagine dei capponi di Renzo. Come si diceva, la proposta compromissoria di omaggiare il Balkan ed il «monumentino» innanzi la stazione venne formulata proprio da quel mondo: quindi, i tre Presidenti ed i loro popoli seppero ufficialmente che gli Esuli sono capaci soltanto di dividersi e che le loro richieste, sebbene siano sempre fortemente motivate, in primo luogo sul piano morale, possono essere disattese senza alcun problema.

Con la Legge 30 marzo 2004 numero 92, il 10 febbraio era stato proclamato «Giorno del Ricordo» di Esodo e Foibe. Alla luce di queste vicissitudini sarebbe il caso di modificarne la denominazione, peraltro riduttiva, e di sublimarlo in un triste «de profundis». Purtroppo non esiste la capacità di promuovere e realizzare una grande e vera «riconciliazione», in primo luogo fra Italiani, come quella che chiuse il Natale di Sangue fiumano del 1920 nella celebre orazione funebre di Cosala. Ed i capponi di Renzo, non dissimili da quelli di manzoniana memoria, continueranno a beccarsi nell’attesa di un triste e scontato destino.

(febbraio 2018)

Tag: Laura Brussi, Riccardo Muti, Giorgio Napolitano, Danilo Turk, Ivo Josipovic, Maresciallo Tito, Stipe Mesic, Willy Brandt, Tommaso Gulli, Aldo Rossi, Luigi Casciana, Giovanni Nini, Narodni Dom, Benito Mussolini, Roberto Menia, Lista per Trieste, Gianfranco Gambassini, Memorandum 88, Italo Gabrielli, Trattato di Osimo, Benedetto Croce, Vittorio Emanuele Orlando, Ragazzi del 1953, Piero Addobbati, Leonardo Manzi, Territorio Libero di Trieste, Federazione Grigioverde, Riccardo Basile, Alessandra Kersevan, Claudia Cernigoi, Sandi Volk, Luigi Papo, Raphael Lemkin, Legge 30 marzo 2004 numero 92, Natale di Sangue, Orazione di Cosala.