La frana del Ronco
La mia prima frana: testimonianza

In un’estate dei primi anni ’60, quando ero ancora studente di Ingegneria Mineraria presso l’Università degli Studi di Bologna, il Professor Dioscoride Vitali, docente di Arte Mineraria, mi mandò, per il periodo previsto al fine di avere un approccio reale con il mondo del lavoro minerario, alla miniera di lignite a cielo aperto di Castelnuovo dei Sabbioni, località nei pressi di San Giovanni Valdarno in provincia di Arezzo.

La lignite era estratta – il passato è d’obbligo, perché già da lungo tempo il giacimento è esaurito e il territorio è stato restituito all’ambiente – al fine di alimentare la centrale ENEL costruita al margine dell’attività estrattiva, per la produzione di energia elettrica.

Lo strato utile di lignite si trovava sotto uno spessore di un’ottantina di metri di argilla, che era eliminata con l’ausilio di due enormi escavatori a catena e tazze, con braccio di 26 metri, operanti su gradoni sfalsati, in modo da eliminare l’intera stratificazione di copertura con quattro passate (due per ogni macchina, l’una verso l’alto e l’altra verso il basso). L’argilla era avviata, per mezzo di nastri trasportatori, ad altre due grosse macchine (gli spanditori), che letteralmente la «spruzzavano», con il loro nastro di «lancio», funzionante a otto metri il secondo, dove era previsto dal piano di coltivazione per il recupero del territorio ad attività estrattiva ultimata.

La lignite, una volta scoperchiata e resa disponibile, era coltivata da due grossi escavatori a ruota (del diametro di cinque metri), anche questi su gradoni sfalsati, e avviata, mediante una lunghissima teoria di nastri trasportatori, alla zona di stoccaggio della centrale termoelettrica.

Un mattino, come mia consuetudine, mi apprestavo a organizzare la giornata lavorativa, andando in giro nei vari cantieri per vedere e imparare tutte quelle cose che è impossibile rintracciare sui libri, oppure raccogliendo e ordinando i miei appunti allo scopo di preparare una relazione chiara e possibilmente esaustiva per il mio docente universitario. Da questa trassi, in seguito, tutti quegli elementi che mi consentirono di redigere la tesi di laurea, impostata sul controllo delle acque meteoriche nella miniera stessa.

Mi venne a cercare il perito Lucidi, un tecnico di grande esperienza, il quale mi comunicò che si presentava il potenziale pericolo di una grossa frana in località Ronco che, se ben ricordo, si trovava al confine sudorientale della cavità risultante dall’attività estrattiva, verso la zona del Chianti. Gli dimostrai il mio interesse e mi resi immediatamente disponibile a seguirlo, eccitato dalla possibilità di studiare una situazione nuova per me, ma sicuramente non comune nemmeno a tutti i lavoratori della miniera e preoccupante per i responsabili della sicurezza delle maestranze e della protezione di macchinari enormi, costati un pozzo di quattrini.

Salii sulla jeep di servizio e con il perito Lucidi mi avviai verso il luogo del potenziale disastro. Percorremmo la pista che collegava i vari cantieri alla massima velocità consentita più che dal mezzo dalla conformazione della stessa, sicuramente non al massimo delle comodità, bensì ricca di curve, dossi e avvallamenti, tanto da fare invidia a un «otto volante» delle fiere paesane, sollevando un’impenetrabile cortina formata dalla finissima polvere dell’argilla che, al contrario, in caso di pioggia, si trasformava in un’appiccicosa e schifosa poltiglia nera. La jeep era seguita da una coda turbinante e vorticosa di polvere, che si snodava rapidamente come un serpente adirato e che – ci si potrebbe giurare – sollevava gli anatemi – ma forse il termine non è sufficientemente azzeccato – dei minatori dispersi nei vari cantieri, intenti al loro lavoro.

Una volta giunti al Ronco, il perito frenò come se si fosse trattato di evitare un impatto contro un muro. La brusca frenata fece sì che la nuvola di polvere ci raggiungesse, ci investisse e ci avvolgesse nella sua consistenza fuligginosa, oscurando completamente lo splendore del sole. A poco a poco, però, il polverone si diradò, lasciandosi attraversare dai raggi del sole che, verso le ore 10 di quella mattina, erano veramente cocenti.

A valutare la situazione era giunto, a piedi, anche l’ingegner Di Stefano – se ben ricordo Romano verace – che aveva percorso, tra varie difficoltà e superando diversi ostacoli, l’accidentato tragitto che separava gli uffici della miniera dal luogo della potenziale frana. Era stanco, impolverato, trafelato e tutto sudato, sotto la patetica difesa della testa realizzata con un fazzoletto da naso annodato ai quattro vertici, che serviva da copricapo contro i fiammeggianti raggi del sole.

Il perito Lucidi mi presentò come «ingegnere» – è l’abitudine dei minatori di attribuire oggi il titolo che, se tutto andrà per il giusto verso, si potrà porre davanti al proprio nome domani –.

Insieme presero a esaminare la situazione del fronte ritenuto staticamente insicuro. Mentre essi discutevano animatamente, dando forza alle parole con espressivi e agitati movimenti delle braccia, anch’io guardavo il costone sovrastante la pista, ma sicuramente con occhi diversi dai loro, pensando che, da un momento all’altro, sarebbe potuto crollare rovinosamente addosso a noi, e, devo confessarlo, un brivido di paura mi fece rizzare i capelli e accapponare la pelle, e spiego il perché.

La parete, che si ergeva di fronte a noi, ritengo formasse un angolo di 80° sull’orizzontale; era quasi verticale, il che non è poco. Il materiale che la costituiva era argilla rossa, argilla, cioè, che aveva subito una cottura da parte di lignite incendiata in tempi geologici per autocombustione.

Del resto, anche qui, come in tantissimi giacimenti di carbone di vario tipo, era normale che esistessero focolai di origine naturale impossibili da spegnersi; non a caso, l’aria sopra la miniera, oltre che a portare sempre in sospensione polvere finissima di argilla, impregnando i prodotti della terra (frutta, verdura, cereali), era satura dell’odore caratteristico della lignite bruciata.

L’argilla rossa, a guardarla, aveva l’aspetto di un materiale dotato di una certa resistenza, ma, in verità, era abbastanza friabile, tanto che colpi ben assestati con un oggetto contundente erano sufficienti per sbriciolarla. Ma, a parte questa considerazione di carattere statico, c’era qualcosa di più, che dava l’impressione che si fosse in attesa del verificarsi di un evento straordinario, al di fuori di ogni ragionevole norma: e, infatti, mentre il rumore dell’attività estrattiva perveniva ovattato, smorzato dalla distanza, sopra, in alto, oltre il ciglio del fronte di argilla rossa, non visibile dalla nostra posizione, perché la sua pendenza da una certa quota in su diminuiva, si udiva il latrato di un cane che, a tratti, si trasformava in un lugubre e modulato ululato che, per tonalità e melodia, avrebbe potuto accendere l’invidia di un lupo siberiano capo-clan. Sembra accertato che ci siano animali che sentono in anticipo ciò che di grave e catastrofico sta per accadere e sembrava proprio che quel cane fosse conscio di quella sua prerogativa e ci dava dentro con il suo abbaiare e il suo ululare, fra di loro alternati in una sequenza che sembrava non dovesse più finire.

Intanto, i due tecnici, ignari del mio stato di agitazione, si erano seduti sul ciglio della pista, dalla parte opposta al fronte, con i piedi appoggiati sul fondo del fosso di guardia che la fiancheggiava, scavato per convogliare in bacini di raccolta le acque dilavanti di origine meteorica, e m’invitarono a sedere con loro. Guardandomi attorno, senza nascondere la mia preoccupazione, accettai l’invito, e mi sedetti di fianco al perito Lucidi, forse perché con lui avevo maggiore confidenza.

Essi continuarono nella loro accesa discussione e l’ingegnere disse, con convinzione: «Certo, il pericolo di franamento è reale, senz’ombra di dubbio; però non è così imminente: ritengo, infatti, che se il tempo terrà e non ci saranno piogge di una certa intensità, avremo il tempo necessario per formare un contrafforte di contenimento del fronte del Ronco, utilizzando l’argilla della copertura della lignite, per cui il rischio che avvenga la frana sarà scongiurato».

A tale affermazione, il perito rispose: «No, ingegnere, mi consenta di contraddirla, perché, secondo me, la situazione è tutta sotto controllo, tanto che, pioggia o non pioggia, non sarà necessario ricorrere alla realizzazione di un contrafforte per sostenere questo declivio, perché non verrà giù; il contrafforte lo faremo, ma con comodo, come progettato: non ora!».

Forse, lo scambio di idee non fu esattamente questo – è passato tanto tempo –, però la sostanza sì.

Nel frattempo, intanto che con un orecchio ascoltavo attentamente questi scambi di pareri, con l’altro cercavo di seguire ciò che stava succedendo intorno a noi. Infatti, oltre a sentire le manifestazioni sonore del cane, che continuavano ormai senza tregua, il mio udito, in spasmodica tensione, aveva captato un altro rumore, che aveva acuito la mia ansietà e il mio disappunto per trovarmi, forse, «nel luogo sbagliato al tempo sbagliato», proprio al di sotto di quel costone che, da un momento all’altro, poteva venir giù: era il rumore ormai quasi continuo di brecciolino, che dall’alto precipitava lungo le scanalature sagomate dallo scorrimento delle acque meteoriche superficiali e si accumulava alla base della parete in piccoli cumuli, come quelli che formano le formiche quando, a primavera, si aprono la via verso il piano di campagna, dopo il lungo riposo invernale. Non vedendomi tranquillo, bensì piuttosto agitato, i tecnici si scambiarono uno sguardo d’intesa e l’ingegner Di Stefano, rivolgendosi verso di me con un sorriso, mi chiese: «E lei, ingegnere, come la pensa in proposito?».

Devo confessare che la domanda fu, in un certo senso, liberatoria per me, giacché mi consentiva di esprimere, quasi ufficialmente, il mio parere, per cui la mia risposta fu all’incirca la seguente: «Confesso la mia ignoranza in materia, perché non ho mai avuto l’occasione di vedere frane potenziali e tanto meno in atto. Dove abito io, a Ferrara, la vetta più elevata è costituita dal Montagnone che, se non vado errato, si eleva sulla pianura attorno a una decina di metri o poco più. Però, detto “inter nos”, prima ci togliamo di qui, e alla svelta anche, e più contento sarò».

Loro si guardarono e scoppiarono in una fragorosa risata, alla quale mi associai pure io; ma la mia risata non aveva proprio per niente quell’allegria che voleva dimostrare. Commentarono che il mio parere non poteva essere che così, proprio perché le frane erano una novità per me. Però si trovarono d’accordo che era già giunto il momento per sloggiare, non per dar corpo alla paura da me mostrata, bensì perché, del resto, si era ormai alla fine della mattinata ed era ora di rientrare negli uffici.

Il rientro avvenne con maggiore tranquillità, avendo l’ingegner Di Stefano imposto al perito Lucidi una velocità più consona al mezzo e allo stato viario.

La «passeggiata» finì lì e nessuno pensò più, per il momento – o almeno pareva –, alla potenziale frana del Ronco.

Il pomeriggio dello stesso giorno, verso la fine della giornata lavorativa, dopo essermi ripulito e aver indossato abiti più civili, stavo per uscire dall’area della miniera, per fare una passeggiata in paese per conoscerlo e, soprattutto, per scambiare quattro chiacchiere con i minatori che avevano finito il loro turno di lavoro e si riunivano davanti al bar centrale per godere del fresco serotino, disputando una partita a carte e gustando insieme una fresca «ombretta» di quello «buono» (del resto la zona del Chianti è appena al di là delle cime dei rilievi che si elevano verso Sud). Lo scambio di idee con i lavoratori mette a disposizione un’enorme quantità di notizie tecniche, di esempi, di risoluzione pratica di problemi, che è un’assurdità cercare sulla carta stampata, perché mai e poi mai qualcuno si è preso la briga di scrivere qualcosa in merito.

Nel momento in cui passavo di fianco agli uffici della direzione, una figura si sporse dalla finestra, chiamandomi con l’inconfondibile accento del Tedesco che si esprime in italiano: era il direttore della miniera che si chiamava – spero di ricordare giusto – Otto Zimmermann. «Inceniere, mai vista grosse frana? Al Ronco, heute, centocinquantamila cubic meter di argilla kaputt! Molto interessante, andare a federe!». La mia risposta, probabilmente insolente, ma sicuramente sfrontata (forse dettata dalla mia giovane età, ma non per questo giustificabile sino in fondo) esplose pronta: «Signor Direttore, ma la portano via questa sera?». Mi guardò perplesso ed esalò un lieve «nein». «Allora la vado a vedere domani mattina, lo prometto!». Mi guardò come per dire: «Be’, in fin dei conti non c’è tutta questa fretta», e, salutandomi con un cenno della mano e abbozzando un sorriso, con uno «ja, gut» si ritirò nell’ombra del suo ufficio.

Il mattino successivo ero seduto alla scrivania che mi era stata prestata per fare le relazioni che ritenevo opportuno e per tenere le mie «preziose» carte, quando, a un tratto, un’ombra mi tolse la luce del sole. Mi accusava, dicendo: «Lei lo sapeva!». Alzai gli occhi, per capire che cosa si fosse intromessa fra me e la finestra, e nello stesso tempo una voce potente e cupa mi accusava, dicendo: «Lei lo sapeva!», e tale affermazione fu ripetuta più volte. Si trattava del perito Benei, uomo alto, robusto, dall’aspetto burbero, ma con un cuore d’oro, che mi biasimava, perché non avevo comunicato pure a lui, responsabile dei macchinari di miniera, ciò che io temevo sarebbe potuto accadere al Ronco.

Solo allora mi resi conto che il mio parere non era passato sotto silenzio e che l’ingegnere e il perito, con i quali avevo fatto il sopralluogo al Ronco, lo avevano reso pubblico negli uffici. E immaginai le matte risate che si erano fatte tutti insieme. Non solo, ma ormai ero sicuro che tutti i lavoratori della miniera erano venuti a conoscenza del fatto e anche loro si erano lasciati andare a ridere a crepapelle, sino all’indolenzimento delle mandibole.

Ma altrettanto sicuramente le risate si erano smorzate in gola e i risolini si erano gelati sulle labbra, quando, come una bomba a orologeria, era esplosa la notizia che la catastrofe da me paventata, si era trasformata in dura realtà.

Non so con esattezza l’ora alla quale si sia verificato il franamento dell’argilla rossa del Ronco, ma sicuramente è stato nel primo pomeriggio: se si vuole, uno spazio di tempo infinitamente ridotto per fenomeni che si possono riscontrare in tempi geologici.

«Nessuno ha creduto alla sua profezia, naturalmente» ha rincarato il perito Benei «ma, nel dubbio, ho pensato alle maestranze e alle macchine: così, ho fatto spostare gli escavatori a ruota dall’area di influenza della potenziale frana in zona di sicurezza e ho adibito i cavatori a lavori diversi da quanto programmato; disgraziatamente, proprio per non cadere più di tanto nel ridicolo, non ho fatto allontanare una ruspa e un escavatore a braccio Fiorentini, che sono rimasti sepolti là sotto».

Così, ai risolini di tecnici e cavatori si sostituirono occhiate, non so se di rispetto o di timore reverenziale per chi aveva temuto l’avvenimento immediato di un fenomeno tanto raro quanto vistoso e che, come la Cassandra omerica, non era stato creduto.

Ma, torno a ripeterlo, ciò che mi aveva indotto a formulare quella – chiamiamola – profezia, non fu certo una premonizione, bensì semplicemente la paura di quanto sarebbe potuto accadere, se la nostra sosta là sotto si fosse prolungata maggiormente.

La ruspa fu esumata qualche giorno dopo e, data la sua conformazione massiccia e la sua compattezza, non aveva subito danni irreparabili, tanto che fu facilmente recuperata e rimessa in moto; il Fiorentini, invece, fu accantonato da una parte, in attesa di tempi migliori...

Qualche tempo più tardi tornai alla miniera per raccogliere i dati che mi avrebbero consentito di preparare la tesi di laurea, e tra i rottami di ferro, di macchinari fuori uso e di attrezzature abbandonate, scorsi un braccio a traliccio di un Fiorentini, tutto contorto e arrugginito: che fosse lo stesso che era stato travolto dalla frana e dalla stessa inglobato?

Non volli «mettere il dito nella piaga», avanzando domande di chiarimento, alle quali, forse, sarebbero state date risposte imprecise ed elusive. Ma, detto «inter nos», per me quel braccio era proprio quello incidentato, che portava su di sé i segni di quella terribile avventura vissuta al Ronco...

(febbraio 2020)

Tag: Mario Zaniboni, frana del Ronco, miniera di lignite, Castelnuovo dei Sabbioni, San Giovanni Valdarno, Arezzo.