Fede sessantennale
Ricordi e riflessioni nel LX anniversario della Comunità Esule da Pola
Onore al primo Sindaco: Bruno Artusi (1914-1985)

Sono passati 60 anni da quell’ormai lontano 1959 quando si tenne a Novara, per iniziativa di Bruno Artusi[1], il primo incontro degli Esuli da Pola che poi assunse cadenze annuali e che già nel 1967 avrebbe dato luogo alla fondazione del Libero Comune in Esilio, il cui primo Sindaco fu eletto, all’unanimità, nella persona dello stesso Artusi. Vale la pena di rammentare che il suo appello venne raccolto da altri 18 patrioti benemeriti, animati da una sola fede e da un impegno pienamente condiviso: Pompeo Bilucaglia, Andrea Brussi, Giuseppe Calligaris, Pierantonio Della Mora, Lino De Prato, Lino Drabeni, Ervinio Kukenak, Paolo Jessi, Arturo Luchi, Arturo Marini, Luciano Mozzato, Mario Mozzato, Franco Novaro, Luigi Rose, Sandro Salini, Ugo Schilke, Luigi Tassistro, Ferruccio Ughi. Erano uomini di varia estrazione: dirigenti, professionisti, militari, e via dicendo, ma accomunati da un forte desiderio di «ritrovarsi assieme ricostituendo l’unità nella diaspora»[2] e da una altrettanto viva nostalgia della terra natale: tutti buoni motivi per onorarne la memoria e per sottolineare la validità etico-politica del loro impegno.

Erano passati parecchi anni dall’Esodo, che per la cittadinanza di Pola si era concentrato nel primo trimestre del 1947, in concomitanza col «Diktat» del 10 febbraio, e i problemi con cui era stato necessario confrontarsi in tempo reale avevano avuto drammatica priorità, a cominciare dagli «sforzi per trovare lavoro e casa»[3] e per elidere le allucinanti esperienze dei campi di raccolta.

Nondimeno, non appena superato il momento dell’emergenza, la forza morale di Artusi seppe trovare risposte fortemente vincolanti, tanto che nel giro di pochi anni la partecipazione agli incontri annuali avrebbe raggiunto dimensioni di grande rilievo, nell’ordine delle centinaia di presenze, assicurate da persone unite non tanto dal desiderio di ritrovarsi e di stemperare nell’amicizia l’amarezza dell’Esilio, umanamente comprensibile, quanto dalla volontà di esprimere un progetto organizzativo, e quindi politico, come quello che si sarebbe tradotto nella costituzione del Libero Comune, nella civile protesta per le prevaricazioni subite, nel ricordo incancellabile delle Vittime, e nella fondamentale richiesta di giustizia. Un progetto come quello che, pur tra mille difficoltà, ne ha caratterizzato un lungo e complesso percorso.

Bruno Artusi, come emerge dalle cronache dell’epoca, era un personaggio straordinario che si era battuto fino all’ultimo per la difesa della propria terra rischiando ripetutamente la vita e dimostrando tante doti di grande coraggio[4], ma ciò non gli aveva impedito di assumere comportamenti di appassionata umanità e di sincera fratellanza, da cui scaturiva un carisma destinato a trascinare tanti concittadini e a promuovere un disegno unitario che oggi sarebbe riduttivo circoscrivere alla semplice milizia associativa. Artusi non voleva e non poteva darsi per vinto, perché era Uomo di fede e di speranza; non importa se gran parte dell’opinione pubblica stava dimenticando il grande dramma che si era compiuto in Istria, a Fiume e in Dalmazia, o se talvolta «persino i figli» parevano adagiarsi in un triste disinteresse[5]: bisognava continuare la lotta e rispondere alla chiamata del dovere, prescindendo dalle opportunità di successo contingente.

Oggi, quella lezione merita di essere riproposta, non solo agli Esuli della prima generazione che conobbero Artusi e i compagni di fede che furono pronti a raccogliere il suo appello[6], ma prima ancora, ai loro eredi, perché non vengano meno all’obbligazione, in primo luogo morale, di coltivare il «nobile sentire» dei padri fondatori, senza dimenticare il «forte agire» che in momenti decisivi della storia giuliana e dalmata era stato necessario onorare in concreto.

Il sessantennio trascorso da quel primo incontro, contestuale alla scopertura del coinvolgente monumento di Basovizza, eretto sulla Foiba a simboleggiare la memoria di una tragedia incancellabile nel cuore degli Esuli e di tutti gli Italiani di buona volontà, ha visto mutazioni assolutamente imprevedibili nella congiuntura politica, a cominciare dal crollo del comunismo e dalla dissoluzione della Jugoslavia, cosa che conferma – anche a posteriori – la validità e l’attualità delle speranze di Artusi. La storia non si fa con le ipotesi, ma almeno per un istante è lecito supporre quanto diversamente si sarebbe potuta evolvere se analoga fede e analoga speranza non fossero state patrimonio di pochi.

Si è detto che bisogna adeguarsi perché in caso contrario si finisce per scomparire. Nel mondo globale, caratterizzato da accelerazioni altrettanto impensabili, il ragionamento assume evidenze lapalissiane, ma ciò non vuol dire che si debba andare ad appiattirsi sulle suggestioni del consumismo, o peggio, del relativismo etico, col trionfo conseguente delle apparenze e delle attenzioni per la forza corruttrice del denaro. Al contrario, l’adeguamento in termini di progettazione e di ragionevole realismo politico non deve prescindere dalle «alte non scritte e inconcusse leggi» di antica memoria che governano da qualche millennio il cuore degli uomini veri, e per le quali molti di costoro hanno sacrificato la propria vita, come la storia giuliana, istriana e dalmata ha manifestamente dimostrato.

L’esempio di Bruno Artusi resta emblematico, anche in tal senso, come quello di un uomo di cultura che sapeva essere pragmatico e gioviale, realista e schietto, ma che non si sarebbe mai piegato alla logica del compromesso e all’accantonamento se non anche al ripudio dei grandi principi per cui si era sempre battuto. Quella che ci ha lasciato è una lezione permanente perché esprime un valore insostituibile, a cui si debbono uniformare, pur nell’opportuna duttilità indotta dalle circostanze, tutti i comportamenti e tutte le opzioni. Una lezione su cui riflettere, che merita un ossequio non soltanto alla persona, ma nello stesso tempo alla fede che seppe interpretare per tutta la vita senza resipiscenze e senza l’ombra di alcun dubbio.

È cosa buona e giusta che il Libero Comune di Pola in Esilio abbia avuto, quale primo Sindaco, un Uomo come Artusi, che nel ventennio del suo lungo mandato fu capace, senza soluzioni di continuità, di porsi – per dirla con Dante – quale «torre ferma che non crolla giammai pel soffiar de’ venti», costituendo un modello imprescindibile per chi è venuto dopo e per chi verrà in avvenire.


Note

1 Bruno Artusi (Pola, 18 agosto 1914-Novara, 15 settembre 1985) è stato un patriota «senza macchia e senza sconfitta» come attestano, fra l’altro, le onorificenze di Cavaliere e di Commendatore al merito della Repubblica che gli vennero conferite. Arruolato nei Bersaglieri all’inizio della guerra e pervenuto al grado di Capitano, dopo il disastro dell’armistizio (1943) non ebbe alcun dubbio circa la scelta patriottica da effettuare, e fu Comandante di una formazione volontaria del Reggimento «Istria» appartenente alla Milizia per la Difesa Territoriale, battendosi fino all’ultimo per la salvaguardia della sovranità italiana sulla Venezia Giulia e sulla sua città: condannato in contumacia alla pena di morte dalla cosiddetta «giustizia popolare» slava, fu sempre orgoglioso di essere stato fedele al proprio dovere di Italiano. Esule assieme a una larghissima maggioranza di concittadini, decise di stabilirsi a Novara proseguendo nell’insegnamento di Educazione Fisica già iniziato nel 1936 dopo gli studi presso il Liceo Ginnasio «Giosuè Carducci» di Pola, e dedicando il tempo libero al mondo dell’Esilio, dapprima in campo assistenziale e cooperativo, concretizzando la realizzazione del «Villaggio Dalmazia» con 302 alloggi destinati ai profughi; e poi nel contesto organizzativo, dove ebbe incarichi di rilievo come quelli di Presidente dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (Comitato di Novara), di Vice Presidente dell’Unione degli Istriani e di Consigliere dell’Associazione Nazionale Italia Irredenta. Soprattutto, ebbe un ruolo decisivo nella fondazione del Libero Comune di Pola in Esilio (1967) di cui fu Sindaco per 18 anni fino alla dolorosa scomparsa avvenuta nel generale cordoglio poco prima dell’udienza che il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga avrebbe concesso a una delegazione Esule, e di quella con cui il Sommo Pontefice Giovanni Paolo I accolse in sala Nervi circa 10.000 Giuliani, Istriani e Dalmati (26 ottobre 1985) alla presenza spirituale di quanti, come Bruno Artusi, erano «andati avanti».

2 Lino Vivoda, L’Associazione «Libero Comune di Pola in Esilio»: sessant’anni di cronache della diaspora polesana, Edizioni de «L’Arena di Pola», Trieste 2005, pagina 18. Si deve aggiungere che al primo incontro dei 19 patrioti parteciparono anche alcune signore, e che i «padri fondatori» non mancarono di partecipare a tutti quelli successivi fino al «forzato abbandono del campo» confermando con tale continuità esemplare il proprio convincimento, e nello stesso tempo, la propria identificazione nel messaggio e nell’impegno di Artusi.

3 Ibidem, pagina 18. Il problema del lavoro e della casa fu quello per cui molti profughi avvertirono in misura più straziante lo «sradicamento» descritto con accenti commossi, fra i tanti, da un grande patriota e operatore di volontariato benefico come Don Luigi Stefani, Cappellano militare della Divisione «Tridentina» ed Esule da Zara. Giova aggiungere che, nonostante le prevedibili difficoltà logistiche e le accoglienze non sempre ottimali ricevute in Patria, alla fine dell’Esodo plebiscitario i cittadini di Pola che scelsero l’impervia via della diaspora pur di non accettare l’ateismo di Stato, la collettivizzazione forzosa e il tragico rischio della morte in foiba o in una strage proditoria come quella delle 110 Vittime di Vergarolla (18 agosto 1946), avrebbero raggiunto il 92%: quelle che rimasero in una città diventata spettrale furono circa 3.000 persone, costituite da anziani malati e impossibilitati a partire, e da una quota sostanzialmente marginale di comunisti dichiarati (per maggiori dettagli circa le partenze da Pola nel primo trimestre del 1947, che ne vide la massima concentrazione, confronta Raoul Pupo, Il lungo Esodo – Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio, Rizzoli Storica, terza edizione, Milano 2005, pagine 135-141).

4 Tra le varie fonti storiografiche in cui si è testimoniato l’impegno di Bruno Artusi nell’ultima difesa della sua terra, confronta Gaetano La Perna, Pola Istria Fiume (1943-1945): l’agonia di un lembo d’Italia e la tragedia delle foibe, Edizioni Mursia, Milano 1993, pagine 218-222. L’azione di Artusi e dei suoi commilitoni si tradusse in «missioni diverse e talvolta anche delicate come quando si trattò di fornire protezione ai Vigili del Fuoco impegnati in Istria nel recupero delle salme di coloro che erano stati gettati nelle foibe» dopo la prima ondata del 1943 (Ibidem, pagina 222).

5 Lino Vivoda, Bruno Artusi e gli Esuli da Pola, Edizioni PACE, Cremona 1986, pagina 34 (dall’intervista rilasciata all’Onorevole Nino de Totto per «Il Secolo d’Italia» del 7 febbraio 1981). «L’unica nostra grave colpa – proseguiva Artusi – è stata quella di amare disperatamente la Patria anche di fronte allo spettacolo indegno dei troppi che la rinnegano». Conclusione tanto più condivisibile anche oggi, perché tristemente attuale.

6 Gli Esuli da Pola manifestarono costante adesione agli indirizzi di Bruno Artusi per tutta la durata del suo mandato, e non solo. Non a caso, all’incontro annuale del 1976, ventesimo della serie, che si tenne a Padova, furono quasi 500 coloro che intervennero per salutare il Sindaco, rivolgergli un caldo ringraziamento per la costante attività rivolta «a riunire i fratelli sparsi dalla diaspora» e dargli ulteriore testimonianza del loro affetto (confronta Lino Vivoda, Bruno Artusi e gli Esuli da Pola, Edizioni PACE, Cremona 1986, pagina 106).

(agosto 2019)

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