Fascismo del Terzo Millennio
Esegesi e definizione del fascista contemporaneo

Le ultime vicissitudini politiche hanno portato alla ribalta la questione di un possibile ritorno del fascismo, sia pure sotto mutate spoglie, o per lo meno, quella di una sua rinnovata attualità, alla luce delle suggestioni populiste che si sono andate diffondendo nello scorcio iniziale del nuovo millennio. Ciò ha dato luogo alla ricerca, non soltanto accademica, di chi possa veramente definirsi fascista, a tre quarti di secolo dalla fine del ventennio mussoliniano. Nel dibattito che si è aperto sull’argomento una voce oggettivamente significativa è stata quella di Emilio Gentile, con un saggio in forma di dialogo, dotato di sicura esperienza metodologica e di accurato corredo storiografico (Chi è fascista, Edizioni Giuseppe Laterza, Bari 2019, 136 pagine).

In effetti, si tratta di una questione non marginale, oltre che suggestiva, cui è possibile dare risposta con effettiva cognizione di causa a patto di analizzare la genesi e lo sviluppo del fascismo nella sua realtà degli inizi, e nelle matrici di fondo che ne suffragarono un successo impensabile: in una parola, nella prospettiva storica.

Al riguardo, il Gentile, in dissenso da altre diffuse interpretazioni, non ritiene che il fascismo «storico» sia sorto il 23 marzo 1919 con l’adunata di Piazza San Sepolcro, ma con la trasformazione dei Fasci di Combattimento nella struttura organizzativa del Partito Nazionale Fascista, avvenuta oltre due anni e mezzo più tardi (11 novembre 1921) in concomitanza con la proliferazione dello squadrismo, quale premessa alla conquista del potere sopraggiunta con la Marcia su Roma del 28 ottobre 1922. Ne emerge una netta distinzione tra il fascismo «diciannovista» come erede dell’interventismo, e quello successivo alla sua costituzione in forza politica, destinato a diventare «totalitario» col discorso del 3 gennaio 1925, quando il Duce, parlando alla Camera dei Deputati, avrebbe compiuto la definitiva «svolta dittatoriale».

In proposito, giova aggiungere che, secondo questa tesi, Benito Mussolini avrebbe ceduto alle pressioni del fascismo «integralista» sia per superare la crisi aperta in seguito all’assassinio di Giacomo Matteotti, sia per «gettare le fondamenta del nuovo regime a partito unico». Del resto, anche alla vigilia della Marcia il Duce avrebbe rotto gli indugi grazie all’opera dei collaboratori più stretti, e in primo luogo a quella del quadrumviro Michele Bianchi, segretario generale del Partito Nazionale Fascista, la cui risolutezza decisionista, secondo Gentile, fu determinante per far ottenere a Mussolini l’incarico di Capo del Governo, anche alla luce di altre volontà intransigenti, come quelle di Italo Balbo, Dino Grandi e Roberto Farinacci, che spingevano per la «conquista totale del potere» sopravvenuta formalmente col 1926 quando, «soppressi tutti gli altri partiti, Mussolini riuscì a imporsi definitivamente come duce supremo».

Sulla questione del «totalitarismo» fascista si potrebbe aprire un’ampia discussione, visto che altre fonti storiografiche lo hanno declassato ad «autoritarismo» se non altro per la coesistenza con la Monarchia Sabauda: non a caso, dopo il voto di sfiducia in Gran Consiglio (25 luglio 1943) fu proprio Vittorio Emanuele III a revocare a Mussolini l’incarico di Capo del Governo che gli aveva conferito vent’anni prima, recuperando – almeno in tale occasione – un potere effettivamente sovrano. Ecco un discorso che porterebbe lontano, rinnovando qualche perplessità sull’assunto di Gentile.

Quest’ultimo, prima di stabilire a ragion veduta chi sia veramente fascista, ha proposto diverse considerazioni sui rapporti del fascismo con le altre forze politiche, mettendo in luce gli errori macroscopici degli «aventiniani» e dello stesso Antonio Gramsci, quando avevano ritenuto che il fascismo fosse un fenomeno transeunte (ma si potrebbe dire lo stesso per statisti del calibro di Giovanni Giolitti): ovvero, sottolineando il realismo mussoliniano con cui un interprete dell’italianità a tutto campo come Gabriele d’Annunzio venne posto in lista d’attesa vitalizia.

Ancora più significativi sono taluni accenni alle conseguenze che il consenso al regime, diventato «esaltante» verso la metà degli anni Trenta, indusse nella sola opposizione rimasta ancora attiva, sia pure clandestinamente, e cioè in quella comunista, visto che nel 1936 uno dei fondatori del Partito Comunista Italiano, Mario Montagnana, disse in comitato centrale che sarebbe stato necessario prendere atto della situazione e che, lungi dall’abbattere il fascismo, il programma comunista avrebbe dovuto limitarsi a quello di «migliorare il fascismo» stesso, infiltrandosi nelle strutture del regime per ottenere più libertà, e soprattutto «un salario migliore». Non era un’ammissione plateale della sconfitta, ma costituiva il rinvio a tempi indefiniti di ogni residua velleità rivoluzionaria, accontentandosi di un programma sostanzialmente minimo.

Secondo Gentile, le attuali suggestioni circa un possibile ritorno del fascismo «storico» (non soltanto in Italia) sono del tutto infondate; e che nella congiuntura politica del «cambiamento» nessuno dei protagonisti sulla cresta dell’onda può definirsi minimamente fascista. In effetti, il populismo che sembra trionfare non ha nulla a che vedere con l’impostazione dottrinaria e programmatica del fascismo, che diversamente dai populisti si era posto il problema di ottimizzare gli Italiani e di farli diventare maturi nella piena consapevolezza dei diritti, ma prima ancora dei doveri nei confronti prioritari dello Stato e in quelli della Nazione.

C’è di più: sintetizzando i caratteri essenziali del fascismo nelle varie dimensioni organizzativa, culturale e istituzionale, Gentile pone in evidenza come il fascista suscettibile di essere definito come tale, altro non possa essere se non quello che si identifica nella somma di tali referenti storici, su alcuni dei quali sarebbe d’uopo un approfondimento esaustivo: ad esempio, è vero che il fascismo tutelava la proprietà, ma nel subordine all’interesse pubblico prevalente, già teorizzato – del resto – da Alceste De Ambris e dallo stesso d’Annunzio nella Carta del Carnaro sin dal 1920.

Il giudizio politico e storico dato da Gentile sui democratici di facciata che hanno finito per dare vita a un sistema meramente «recitativo» appare inoppugnabile nel senso di avere salvaguardato il metodo, o meglio lo schema operativo di riferimento, abbandonando i valori, in primo luogo etici, che avevano caratterizzato, se non altro, il tempo della ricostruzione dopo i disastri della Seconda Guerra Mondiale: non a caso, come si afferma in una conclusione che somiglia a un epitaffio, «il pericolo reale non sono i fascisti veri o presunti, ma i democratici senza ideale». È facile immaginare il dissenso che queste parole andranno a suscitare nelle attuali stanze dei bottoni, non solo governative, ma non si può negare che nella ricerca e nell’esegesi storica «non vale la regola che sia la maggioranza a stabilire la verità» mentre «vale soltanto ciò che dalla ricerca e dalla conoscenza dei fatti corrisponde alla realtà».

(luglio 2019)

Tag: Carlo Cesare Montani, fascismo del Terzo Millennio, Emilio Gentile, Marcia su Roma, Benito Mussolini, Giacomo Matteotti, Michele Bianchi, Italo Balbo, Dino Grandi, Roberto Farinacci, Gran Consiglio del fascismo, Vittorio Emanuele III di Savoia, Antonio Gramsci, Giovanni Giolitti, Gabriele d’Annunzio, Alceste De Ambris, Carta del Carnaro.