Considerazioni sul trasformismo italiano
Vocazione camaleontica: le tradizioni storiche di pressappochismo nella gestione della cosa pubblica continuano con disinvolta pervicacia in tutte le stagioni politiche

Le celebrazioni dei 160 anni dalla proclamazione dello Stato Italiano (1861), ridotte al minimo a causa della pandemia, hanno coinciso con una nuova stagione politica che non è difficile definire camaleontica, grazie alla sostituzione del Governo Giallorosso con quello della cosiddetta solidarietà nazionale: tutti dentro, con la sola eccezione di Fratelli d’Italia, che ha «salvato» l’idea stessa di democrazia scegliendo di non aderire all’ammucchiata globale, altrimenti totalitaria.

Il fatto nuovo, innescato dalle convenienze di turno, è stato caratterizzato dall’ennesimo salto della quaglia, del quale tutto si potrà dire ma non che corrisponda alla volontà del popolo sovrano, o presunto tale. Del resto, non è una novità, soprattutto in Italia, che le vecchie maggioranze, sebbene siano sostenute dalla logica non certo egualitaria degli interessi di parte, possano essere cancellate al pari di un castello di carta, cercando di dimostrare come il nuovo «ribaltone» si compia «per il bene del Paese» quando tutti sanno benissimo quali siano le sue ragioni effettive, legate a fattori contingenti, e soprattutto alle operazioni tipiche delle vecchie consorterie.

In realtà, la politica italiana è sempre stata il regno del pressappochismo e dell’improvvisazione, che fanno tornare in mente la commedia dell’arte o il gioco di prestigio, con tutto il rispetto per i personaggi che ne erano abili e spregiudicati protagonisti. Dal Risorgimento in poi, la prassi del «teatrino» ha fornito ottime prove, il cui solo elenco è indicativo di un sistema: si pensi alle esperienze che già prima del 1861 erano state dette del «connubio» tra i moderati di Camillo Cavour e i progressisti di Urbano Rattazzi, o a quelle del trasformismo elevato a sistema di governo, in cui si distinse quale suo massimo protagonista il Presidente del Consiglio Agostino Depretis, nel condurre la Sinistra (o meglio le sue nuove aggregazioni) alla guida dell’Italia, e nel gestire ben otto esecutivi attraverso un decennio (1876-1887).

Conviene aggiungere che la storiografia non è stata unanime nel prendere le distanze dalla prassi trasformista, pur esprimendo critiche ricorrenti. Valga per tutti l’esempio di Benedetto Croce, secondo cui l’aggiornamento delle posizioni politiche appartiene alla logica di un sistema fondato su quella che lo storico abruzzese avrebbe definito «Religione della Libertà» sin dal primo capitolo della sua fondamentale Storia d’Italia dal 1871 al 1915. Non si può certamente negare – rileva il Croce – che l’epoca del Depretis «si configurava nell’opinione e nel sentimento come di ristagno e di corruttela» ma è parimenti vero che la crisi dei vecchi partiti era ormai irreversibile, e che «a una rinata Destra e a una coerente e valida Sinistra nessuno più credeva sul serio», tanto più che forze indubbiamente nuove avevano iniziato a operare nel momento politico, a cominciare dall’Estrema Sinistra socialista, da un movimento cattolico organizzato, e dalle prime avvisaglie del futuro nazionalismo, sostenuto dalle nuove attese coloniali.

Il fenomeno non appartiene al solo scorcio conclusivo del «secolo breve». Dopo l’avvento della Repubblica, la fantasia politica è venuta alla ribalta con nuove accelerazioni semantiche e sostanziali: chi non ricorda l’esperienza delle «convergenze parallele» di Aldo Moro o della «non sfiducia» di Enrico Berlinguer, uscite dalla fertile inventiva delle alchimie di partito alla caccia di formule che all’occorrenza significavano tutto o niente? In quegli anni, la politica parve assumere connotazioni surreali, non meno opinabili di quelle odierne che sembrano indulgere soprattutto allo spettacolo.

Queste considerazioni diventano fondamentali per la logica del «compromesso storico» tra Cattolici e marxisti, che peraltro si richiamava all’opportunità di fare fronte comune contro l’emergenza del terrorismo ma che più tardi, venute meno le esigenze di straordinarietà, diede luogo a esperimenti definiti senza mezzi termini di «inciucio» (quasi a togliere ogni dubbio nel chiarire la prevalenza dell’interesse particolare – se non addirittura individuale – su quello della comunità). In questo percorso non è difficile scorgere i sintomi di un progressivo scollamento, inteso come distacco della «casta» dai problemi e soprattutto dal cuore della gente.

La politica interna non ride, manifestando oscillazioni talvolta clamorose soprattutto nell’ambito economico e finanziario, ma quella estera ha pianto con pervicacia e ben poche eccezioni, vittima di una crescente subordinazione alla logica degli interessi. Le esperienze talvolta disastrose dell’Italia liberale, fatte di umiliazioni e di palesi improvvisazioni, simboleggiate – per dirne una – dai pesanti pastrani invernali in dotazione al primo Corpo di spedizione in Africa, furono parecchie. La logica del camaleonte ebbe momenti di particolare notorietà nei «giri di valzer» che tanto irritavano gli Alleati di Vienna e Berlino, durante la coriacea stagione della Triplice (1882-1915); nella segretezza con cui fu firmato il Patto di Londra pochi giorni prima dell’intervento contro l’Austria a fianco dell’Intesa; e più tardi, negli eventi che portarono all’armistizio del 1943 e al suo improvvido annuncio tardivo. Per restare nella metafora, il camaleonte si era vestito da pecora, se non anche da coniglio, come si sarebbe visto in occasione del «Diktat» (1947) e del trattato di Osimo (1975) quando l’Italia fu capace di rinunciare alla sovranità su una porzione del proprio territorio senza alcuna contropartita: un paradosso che non era mai accaduto dall’epoca dei plebisciti e dei baratti (tra cui quelli che consentirono di trasferire alla Francia il Nizzardo e la Savoia).

Considerazioni non dissimili valgono per le oscillazioni in materia di scelte coloniali in senso spesso antitetico, come fu dimostrato dalla decisione di intraprendere la conquista della Libia assunta da Giolitti con la guerra italo-turca (1911-1912) dopo un quindicennio di ripensamento pressoché totale che aveva fatto seguito alla disastrosa sconfitta di Adua (1896). E poi, che cosa dire delle più recenti incertezze non esenti da contraddizioni circa l’atteggiamento assunto nelle questioni del Vicino Oriente, con particolare riguardo al permanente conflitto arabo-israeliano, e in quelle della vecchia «quarta sponda» africana, caratterizzata da scelte episodiche o casuali tra le varie fazioni della Libia contemporanea?

La mancanza di tradizione unitaria spiega il fenomeno in misura parziale e riduttiva; del resto, esistono Stati importanti e «giovani» come l’Italia, ma non per questo alieni dal perseguire scelte e comportamenti coerenti. C’è dell’altro: l’incapacità di una gestione etica della cosa pubblica si coniuga con un pervicace individualismo, suffragando la permanente «vittoria» di Francesco Guicciardini ai danni di Nicolò Machiavelli e di una filosofia politica fondata in primo luogo sulla priorità dello Stato e della sua fondamentale «salvezza» vista come compito prioritario del potere, sia legislativo sia esecutivo. Né si deve trascurare l’influenza della Chiesa e della naturale propensione cattolica alla tutela dei valori personali, commendevole quanto si vuole, ma esposta alla ricorrente tentazione di confonderli con interessi più contingenti.

Nessuno vuole assumere la difesa della «parte sbagliata» in modo aprioristico, ma un esame oggettivo della storia italiana durante questi 160 anni – che sarebbe stato congruo celebrare in modo patriottico nonostante l’emergenza, al pari di quanto si è fatto per altre ricorrenze – consente di evidenziare come il Ventennio (1922-1943), pur nei limiti e nei gravi errori sottolineati da quasi tutta la storiografia, abbia costituito una cesura nei confronti della prassi compromissoria diventata sistema. Ciò, sebbene il Duce del fascismo avesse manifestato, sulle prime, analoghe suggestioni camaleontiche abbandonando la vecchia milizia socialista, perché la tipologia stessa di Stato «forte» che aveva avviato a realizzazione con il contributo di Giovanni Gentile e di Alfredo Rocco implicava il ripudio dell’incertezza e dell’attendismo. In fondo, lo sbaglio decisivo, oltre che irreversibile, compiuto da Benito Mussolini fu quello che avvenne nel 1940 con la rinunzia a un’opzione sicura e difendibile come la «non belligeranza» e la fiducia in «qualche migliaio di morti» per sedersi al tavolo della pace come comodo vincitore.

Oggi, nuove ombre «futuribili» sono in arrivo sullo scenario politico dell’Italia. Ciò sembra avvenire nell’intento di consentire al Paese un «salto in avanti» sul terreno etico che peraltro coincide con una politica finanziaria sempre più opinabile. Infatti, l’impressione prevalente è che sia basata sulla crescita indiscriminata di un indebitamento già pervenuto ai massimi europei (fatta eccezione per la Grecia) e in quello di corrispondere a presunte esigenze maggioritarie; in pratica, col risultato di mortificare la volontà degli elettori e di giubilare una «lex majoris partis» ignorata da gran tempo, con una pervicacia mai vista nella storia della Repubblica. Ne conseguono incertezze normative, costi crescenti e un clima di stupefatta precarietà resa paradossale dalla nuova maggioranza «bulgara» che peraltro non sembra giovare agli investimenti produttivi, all’occupazione e tanto meno alle conclamate ipotesi di ripresa. In buona sostanza manca una strategia organica e finalizzata al perseguimento di obiettivi condivisi, dove la vecchia «dittatura d’assemblea» teorizzata da un illustre costituzionalista quale Giuseppe Maranini ha lasciato spazio a una sorta di precario volo a vista guidato da piloti di mutevole estrazione, dove non si confida tanto negli strumenti di bordo quanto nel tradizionale «stellone».

La fiducia nel destino benevolo diventa ancora una volta l’unico Santo cui votarsi, ma facendo tutte le attenzioni del caso, perché quando il camaleonte muta pelle, cambia anche il colore, aggiungendo altri motivi di instabilità alla già precaria navigazione. Invece, l’Italia avrebbe bisogno come non mai di coerenza, sicurezza e volontà di perseguire obiettivi comuni di risanamento e di conseguente sviluppo.

(maggio 2021)

Tag: Carlo Cesare Montani, Fratelli d’Italia, Risorgimento Italiano, Chiesa Cattolica, Triplice Alleanza, Grande Guerra, Ventennio fascista, Repubblica Italiana, Africa, Vienna, Berlino, Patto di Londra, Trattato di Osimo, Francia, Nizzardo, Savoia, Libia, guerra italo-turca, battaglia di Adua, Vicino Oriente, Camillo di Cavour, Urbano Rattazzi, Agostino Depretis, Benedetto Croce, Aldo Moro, Enrico Berlinguer, Francesco Guicciardini, Niccolò Machiavelli, Giovanni Gentile, Alfredo Rocco, Benito Mussolini, Giuseppe Maranini, trasformismo italiano.