Belgrado e Roma: corsi e ricorsi storici
Analogie e discrasie nella chiusura di sedi diplomatiche all’insegna del risparmio

All’inizio del 1982 la Jugoslavia era alle prese con una crisi economica in rapida crescita, che nel giro di pochi anni l’avrebbe portata alla massima incidenza europea del debito pubblico sul prodotto lordo, e poi al disastro definitivo, col disfacimento della sua compagine territoriale e l’avvento delle nuove Repubbliche indipendenti. In quella congiuntura drammatica, fra i provvedimenti volti a salvare il salvabile, sia pure senza successo, venne inserito quello molto discusso, e dagli effetti necessariamente marginali, di chiudere nove Ambasciate e di ridurre il personale in altre sette, a causa di un «alto costo di mantenimento»[1]. Tale iniziativa avrebbe dimostrato subito il suo carattere velleitario, all’insegna di un risparmio sostanzialmente ininfluente sull’ampiezza del dissesto, oltre a una pesante caduta d’immagine.

Con un’analogia che conferma la teoria dei ricorsi storici, all’inizio del 2020 il Governo Italiano giallo-rosso, a integrazione di altri tagli già effettuati in precedenza, ha deciso di assumere un’iniziativa simile a quella jugoslava del 1982, chiudendo 27 Consolati in 15 Paesi di tutto il mondo. Tale intervento ha colpito le rappresentanze presenti in cinque Paesi Europei (Finlandia, Lituania, Regno Unito, Romania, Svizzera); quattro americani (Brasile, Cuba, Messico, Stati Uniti); quattro africani (Comore, Costa d’Avorio, Lesotho, Somalia); due asiatici (Giappone e Libano). È inutile aggiungere che si sono levate molte proteste, in specie da parte di connazionali all’estero che per fruire dei servizi diplomatici si vedono costretti ad affrontare trasferte a raggio più largo per raggiungere il Consolato meno distante dalla loro residenza. Ed è altrettanto inutile precisare che alcune chiusure hanno riguardato sedi di evidente importanza: basti rammentare quelle di Cincinnati, Nashville, Nagoya, Lucerna, oltre alla vecchia e gloriosa legazione di Chisimaio nella Somalia Meridionale.

Alla luce del progresso elettronico degli ultimi tempi, si è sostenuto che molte questioni possono essere sbrigate «on-line» ma ciò significa ignorare che in tanti casi, compresi quelli di ordinaria burocrazia come il rinnovo di un passaporto, l’accesso diretto alla rappresentanza diplomatica estera resta sempre necessario. In ogni caso la chiusura di un ufficio consolare è dimostrazione concreta di una volontà politica che subordina il senso dello Stato a scelte economiche di rilevanza finanziaria pressoché nulla.

Le chiusure diplomatiche italiane del 2020 hanno penalizzato alcuni Paesi dell’Unione come il Regno Unito, senza tener conto dei possibili problemi aggiunti dalla Brexit, e altri Stati di primaria importanza anche dal punto di vista dell’immigrazione italiana, sempre interessata alle opportune assistenze, come nei casi di Stati Uniti, Brasile, Giappone, e della stessa Svizzera. Eppure non si è tenuto conto di una ragionevole scala di priorità che salvaguardasse almeno i casi di maggiore impegno: il cosiddetto cambiamento, nel tentativo di accreditarsi presso l’opinione pubblica con la politica della lesina, ha finito per colpire dovunque.

Tornando ai trascorsi della Jugoslavia, conviene aggiungere che nel 1982 il regime di Belgrado stava confrontandosi con le conseguenze della morte di Tito, avvenuta venti mesi prima, a conclusione di un «regno» durato ininterrottamente dal 1953 al 1980, e di un esercizio effettivo del potere ancora più lungo, pari a poco meno di un quarantennio: il Presidente Sergej Kraiger, terzo successore dello stesso Tito nella lunga lista dei 18 Capi di Stato che si sarebbero alternati ai vertici della Repubblica Federativa prima della sua drammatica implosione, non fu alieno dall’avallare le proposte governative di austerità che si tradussero, fra l’altro, nella forte stretta sulle rappresentanze diplomatiche.

L’Italia del 2020 presenta qualche affinità tutt’altro che marginale con le condizioni di quella vecchia Jugoslavia, alla luce del debito pubblico in aumento costante, che alla fine del 2019 ha raggiunto un passivo pari a 2.292 miliardi di euro: ennesimo primato storico, con un ragguaglio al 135,7% del Prodotto Interno Lordo, e quel che è peggio, con una crescita di oltre trenta punti nel volgere dell’ultimo decennio, destinata a incidere negativamente su investimenti importanti, quali quelli nello sviluppo dell’export.

Eppure, il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha parlato di anni «bellissimi» e il nuovo Ministro degli Esteri Luigi Di Maio, cui si deve il provvedimento riguardante la chiusura delle 27 rappresentanze diplomatiche, cerca di infondere nuova linfa vitale al proprio Dicastero attraverso il trasferimento alla sua diretta dipendenza di competenze strategicamente importanti (e finanziariamente consistenti) come la promozione del prodotto italiano all’estero e la cooperazione internazionale (quest’ultima, già oggetto di precedente collocazione innovativa presso il Ministero dell’Industria e dello Sviluppo Economico, di cui lo stesso Di Maio era titolare: un «turnover» opinabile, e dalle conseguenze organizzative e funzionali facilmente presumibili).

In questo protagonismo sull’orlo di una vera e propria voragine finanziaria, c’è qualcosa che accomuna l’Italia alla Jugoslavia di circa 40 anni or sono, quando la sua «leadership» nell’ambito dei cosiddetti Paesi Non Allineati era ancora sulla cresta dell’onda, e quando tanti capi dei Governi Occidentali si affrettavano a portare a Belgrado le espressioni di una pervicace amicizia, di apprezzamento per la pur fallimentare politica di autogestione, e soprattutto un fiume di mezzi finanziari a fondo perduto.

Non avrebbe fatto eccezione, fra gli altri, il Primo Ministro Italiano Giovanni Goria, che nel 1988 – quando lo sfascio finale della Jugoslavia era ormai prevedibile – avrebbe offerto al Governo di Branko Mikulic ben 500 miliardi di lire (circa 250 milioni di euro) a titolo di finanziamenti e donazioni[2], senza parlare del Presidente della Repubblica Sandro Pertini che, non contento di essersi inginocchiato sul sepolcro di Tito, durante un viaggio del 1983 aveva baciato la bandiera jugoslava, e senza dire di un altro Primo Ministro, Bettino Craxi, che un anno dopo aveva definito la Repubblica Federativa quale «partner di assoluta preferenza» promuovendo la fuga a Belgrado del terrorista Abul Abbas, reo del dirottamento della nave italiana Achille Lauro e dell’omicidio di un passeggero, oltre tutto invalido.

In qualche misura, da quanto precede sembra emergere che fra Belgrado e Roma si sia stabilita una sorta di «entente cordiale» se non anche di rischiosa amicizia, con un punto di significativa convergenza, al di là dei tempi diversi, nella chiusura di parecchie sedi diplomatiche, sia jugoslave che italiane, e nel tentativo collaterale di lucrare qualche risparmio di minima rilevanza per un’utopistica copertura del debito pubblico, ma di qualche peso demagogico nella cattura della pubblica opinione e del suo momentaneo favore.

Diversamente dal messaggio di Tucidide, la storia non è maestra di vita, perché altrimenti non si continuerebbe a commettere gli errori del passato, talvolta con singolare pervicacia. Nondimeno, la sua lettura, unitamente a una corretta interpretazione, è sempre utile per comprendere, sia pure a posteriori, che anche nella vita degli Stati, al pari di quella umana, le politiche di vuota grandezza non portano a risultati positivi; al contrario, in taluni casi come quello della Jugoslavia negli anni Ottanta, conducono solo al disastro.

È chiaro ed evidente che le affinità italo-jugoslave ora evidenziate sono significative ma parziali: la differenza verosimilmente più importante sta nel fatto che, mentre l’Occidente si affrettava a recare doni e prebende a Belgrado in omaggio al «non allineamento» e alla patetica prassi dell’autogestione nonostante gli scandali che inducevano al suicidio qualche vecchio personaggio della Resistenza come Ljuba Veselinovic, al giorno d’oggi giungono a Roma le «bacchettate» dell’Europa, sebbene addolcite dalla sostanziale liberalità con cui si finisce per tollerare, anche da parte del Fondo Monetario Internazionale, il progressivo sforamento del debito, accompagnato dall’altrettanto progressiva svendita dell’Italia sui mercati internazionali ben dimostrata dalle ricorrenti alienazioni dei suoi «gioielli» produttivi e commerciali, a tutto vantaggio del capitale straniero e a conseguente detrimento del Prodotto Interno Lordo.

Resta da aggiungere che la cancellazione della Repubblica Federativa Jugoslava dall’aggregato degli Stati mondiali, e la costituzione delle Repubbliche indipendenti sorte sulle sue ceneri, hanno annullato gli effetti delle chiusure di Ambasciate o di altre sedi diplomatiche, lasciando all’iniziativa e alla responsabilità di Lubiana, di Zagabria e degli altri nuovi Governi Balcanici il compito di fondare su basi proprie la rete delle rispettive rappresentanze estere. Al contrario, per quanto concerne l’Italia le cancellazioni restano e sono destinate a sedimentare negativamente.

Si tratta di una condizione su cui riflettere attentamente: come ci ha insegnato Pinocchio, le delizie del Paese dei Balocchi non sono eterne, e prima o poi – alla stregua delle autentiche vocazioni dei protagonisti – finiscono per trasformare la comunità dei gaudenti in quella degli asini.


Note

1 Autori Vari, L’enigma jugoslavo: le ragioni della crisi, a cura di Stefano Bianchini, Edizioni Franco Angeli, Milano 1989, pagina 366. L’argomento era già stato adombrato in Autori Vari, Storia della Jugoslavia: gli Slavi del Sud dalle origini a oggi, a cura di Stephen Clissold, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1969; in particolare, evidenziando l’incidenza negativa dei conflitti razziali tra le varie etnie, e delle conseguenti rivalità regionali: una miscela esplosiva destinata a generare il «momento della prova» non appena si sarebbe dovuto affrontare «il problema della successione alla Presidenza» (pagine 295-296).

2 Autori Vari, L’enigma jugoslavo, pagina 377. Sull’argomento, e sulle altre «gratuite» disponibilità italiane del periodo in questione, confronta altresì: Carlo Montani, Venezia Giulia e Dalmazia – Sommario storico, terza edizione, Associazione Discendenti degli Esuli-ADES (con il contributo della Regione Friuli-Venezia Giulia), Trieste 2002, pagina 132.

(aprile 2020)

Tag: Carlo Cesare Montani, fine della Jugoslavia, Belgrado e Roma, Governo giallo-rosso, Maresciallo Tito, Serghej Kraiger, Giuseppe Conte, Luigi Di Maio, Giovanni Goria, Branko Mikulic, Sandro Pertini, Bettino Craxi, Abul Abbas, Tucidide, Ljuba Veselinovic, Pinocchio, Stefano Bianchini, Stephen Clissold, Repubbloica Federativa di Jugoslavia.