L’Abbazia di Pomposa
Un connubio di arte e spiritualità

Un centro di straordinario interesse e di grande importanza nella storia del Medioevo fu l’Abbazia di Pomposa, fondata nella parte orientale della pianura ferrarese e di quella nordica del ravennate su un’isola («insula pomposiana») del delta padano, delimitata dal Po di Goro, dal Po di Volano e dal Mare Adriatico. Le prime notizie che si hanno in merito si incontrano nel frammento di una lettera di Papa Giovanni VIII, datata 874, indirizzata a Ludovico II, Re d’Italia e Imperatore Carolingio, nella quale si riporta che la stessa era inserita nella Sede Apostolica, però si sa che la chiesa almeno, se non il monastero, era già esistente nel secolo VI-VII, fondata, in epoca longobarda, dai monaci di San Colombano, aventi la sede italiana a Bobbio nel Piacentino.

Alla fine del X secolo, nel 982 per la precisione, il monastero passò sotto le competenze del monastero di San Salvatore di Pavia; poi, nel 999, fu affidato all’Arcivescovo di Ravenna, per essere trasformato in abbazia imperiale.

Negli anni successivi, dopo il 1000, l’abbazia raggiunse il suo periodo di massimo splendore di vita monastica, raggiungendo un grande benessere economico. Tale periodo aureo coincise con il governo dell’Abate Guido degli Strambiati, proveniente da ricca famiglia di Ravenna e successore di Martino alla sua morte; governò l’abbazia dal 1008 al 1046, vale a dire per ben 38 anni. Durante tale guida, il cenobio (il luogo in cui diversi monaci convivono seguendo la stessa regola) possedeva una ricca biblioteca e la vita culturale era profonda e intensa. Molto importante fu l’opera di conservazione e di diffusione della cultura in tutto il Medioevo, grazie anche al lavoro portato avanti dagli amanuensi ivi presenti. In questa sede, Guido d’Arezzo curò l’insegnamento della musica. Non solo, ma siccome si era reso conto che i monaci avevano difficoltà sia nell’apprendere sia nel ricordare i canti gregoriani e tutto quanto riguardava la musica, studiò e perfezionò un metodo completamente nuovo, che lo rese famoso in tutto la zona nordica della Penisola e che tuttora è in uso: la sua invenzione fu la scrittura musicale, avente come base il sistema delle sette note.

Nel 1001, durante un suo viaggio avente lo scopo di portare pellegrini a Roma e in Terra Santa, l’Imperatore del Sacro Romano Impero Ottone III di Sassonia, trovandosi sulla «via del sale», si fermò a Pomposa e, soddisfatto da ciò che vide, con una bolla liberò il monastero dalle dipendenze degli episcopati dei dintorni, ponendolo solamente sotto il potere del Papato e, naturalmente, dell’Impero.

Molti furono i visitatori e gli illustri ospiti che conobbero l’Abbazia di Pomposa. I visitatori erano di ogni estrazione sociale, ma tutti lasciavano doni in base alle loro possibilità. Fra i personaggi illustri, si possono qui ricordare San Pier Damiani, che per tre anni rimase all’abbazia per insegnare ai monaci come si deve affrontare la vita religiosa e, più tardi, agli inizi del XIV secolo, il sommo poeta Dante Alighieri, che vi si fermò, mentre era in viaggio verso Venezia nella sua qualità di Ambasciatore dei Da Polenta di Ravenna.

La situazione era veramente invidiabile, tanto da sollevare le preoccupazioni, se non l’invidia, dei grandi latifondisti delle vicinanze, che si rivolsero all’Arcivescovo Eriberto di Ravenna. Questi li prese sul serio e mosse con le sue truppe verso Pomposa, con l’intento di distruggerla. Era il 1025. Però l’Abate non solo riuscì a calmare le acque, ma pure ottenne il permesso di restaurare, ampliare e riconsacrare la chiesa. Che l’abbazia fosse importante lo si evince da un documento risalente all’anno 1347. Le sue dotazioni dicono chiaramente che ben 49 chiese, diffuse in 18 diocesi nei territori settentrionali della penisola italiana, ne dipendevano.

In quei tempi, le terre erano ancora salubri, ricche di piante e di boschi, e godevano della vicinanza del mare. L’isola fra due rami del Po favoriva l’isolamento, la concentrazione e il lavoro, che erano i fini che si proponevano i monaci, gli obiettivi principali della loro attività di religiosi, quali frati benedettini.

L’Abate esercitava la giustizia civile su tutto il territorio circostante, con la collaborazione dei fratelli, nel fabbricato chiamato il Palazzo della Ragione, costruito appositamente presso il margine dell’area dell’abbazia, al di fuori del contatto diretto con tutti i fabbricati dell’abbazia.

Il complesso architettonico, di stile romanico-lombardo-bizantino, è veramente piacevole. L’Abbazia ebbe l’intervento dell’architetto Mazulo, denominato «magister», ma quello che maggiormente stupisce e incanta il visitatore è la grande torre campanaria, progettata e costruita, secondo alcuni, dallo stesso Mazulo, mentre l’architetto Deudedit avrebbe provveduto alle decorazioni; secondo altri, il progetto della torre e la sua costruzione, datata 1063, furono di quest’ultimo. Questa, con i suoi 48 metri e mezzo di altezza, stupisce e spicca in mezzo al piatto e uniforme territorio alluvionale quale quello del delta del Po, tanto da essere scorta da parecchi chilometri di distanza, qualora la foschia, spesso padrona dell’ambiente, non ne impedisca la visione. Anzi, rappresentò un punto di riferimento per i viandanti che dovevano percorrere le vie che attraversavano le infide paludi. Nell’imponente massa, la struttura ha un senso di leggerezza, dovuta alla disposizione e alle dimensioni delle aperture praticate sulle pareti, lunghe alla base 7,70 metri e con spessore di 1,70 metri. Infatti, i muri di pietre rosse e gialle sono interrotti da aperture che in basso sono monofore, mentre, salendo verso il cielo, diventano prima bifore, poi trifore e infine quadrifore, ma con ampiezza sempre maggiore. Il tutto tendente da un lato a diminuire il peso sul suolo e dall’altro ad annullare, visivamente, l’area della parete al livello della cella campanaria, con lo scopo di conferire al fabbricato una leggerezza e un’impulso verso l’alto, favorito in tal senso dalla conclusiva cuspide troncoconica. Le aperture sulla facciata, vista da lontano, danno l’impressione che un triangolo isoscele molto allungato, con la base sotto la cuspide, voglia decorarla e abbellirla.

Nel 1046, l’Imperatore Enrico II di Germania, in occasione del sinodo organizzato a Pavia dopo essere stato incoronato a Roma, riconoscendo la fama acquisita dal monaco Guido per le guarigioni che aveva procurate a malati e la stima che aveva meritata, gli estese l’invito a parteciparvi. L’Abate partì, salutando malinconicamente i suoi confratelli, quasi presentisse che non li avrebbe più rivisti, viaggiando a piedi o a dorso di mulo. E in verità è proprio ciò che capitò: infatti, il 31 marzo, in località Borgo San Donnino, l’attuale emiliana Fidenza, fu colpito da una violenta febbre, che lo portò rapidamente alla tomba.

Lo splendore dell’Abbazia di Pomposa durò circa tre secoli, poi lentamente, ma inesorabilmente, iniziò il crepuscolo. Una delle cause di tutto questo fu una delle disastrose rotte subite dal Po, vale a dire quella di Ficarolo del 1152, che ne cambiò l’alveo. La nuova situazione, cui dovette adeguarsi il fiume, modificò radicalmente la condizione idrogeologica del territorio: l’isola, fino ad allora salubre e piacevole, si trasformò in un’immensa palude che condizionò il clima rendendolo insalubre e insopportabile. L’intero delta divenne il dominio incontrastato delle zanzare e della malaria.

A questo punto, l’importanza del monastero declinò e nel 1491 il Papa Innocenzo VIII decise di smembrarlo, stabilendo il trasferimento di quasi tutti i membri della comunità monastica al cenobio di San Benedetto di Ferrara, voluto dal Duca Ercole I, mentre mise la chiesa sotto la tutela del Ducato Estense. La quasi totalità degli introiti che ne derivarono finì nelle tasche del Cardinale Ippolito I. Più tardi, nel 1652, per decreto del Papa Innocenzo X, l’abbazia fu completamente abbandonata dai monaci benedettini per diventare una semplice parrocchia arcipretale della diocesi di Comacchio, assumendo quello stato che è tuttora vigente.

Naturalmente, Pomposa non fece più notizia, scomparendo dalle cronache, per riapparire solamente quando nel 1802 il Governo Napoleonico vendette alla ravennate famiglia Guiccioli i resti degli edifici conventuali, mentre la chiesa continuò il suo nuovo stato parrocchiale.

Lo Stato Italiano acquistò, attraverso il demanio, l’abbazia verso la fine del XIX secolo, e a partire del 1910 iniziò a operare su tutti i fabbricati restaurandoli, ricostruendo manufatti architettonici, compiendo opere di parziale rifacimento, di demolizione di parti irrecuperabili e di conservazione degli affreschi. In più, si interessò pure alla qualità del paesaggio in cui gli edifici sono inseriti, creando un effetto di grande pregio. E nel 1960, lo Stato Italiano, avendo inteso che aveva a che fare con una realtà che creava un qualcosa di unico e particolare, promulgò una legge speciale, al fine di delimitare un’area di rispetto attorno a ciò che restava dell’antica Abbazia di Pomposa.

A partire dal 1976 è stato istituito il Museo Pomposiano, che conserva sculture e opere d’arte che hanno partecipato alla storia dell’abbazia, nel grande spazio che un tempo era il dormitorio dei frati.

Da tutto quanto esposto si deduce che l’Abbazia di Pomposa ha assunto caratteristiche e funzioni del tutto diverse da ciò per le quali era stata fondata un migliaio o poco più di anni fa. D’altra parte, si sa che nulla è stabile al mondo, e tutto è soggetto a un lento, ma implacabile divenire.

(settembre 2020)

Tag: Mario Zaniboni, Medioevo, Abbazia di Pomposa, Po di Goro, Po di Volano, Mare Adriatico, Giovanni VIII, Ludovico II, San Colombano, Bobbio, San Salvatore di Pavia, Guido degli Strambiati, Guido d’Arezzo, scrittura musicale, Ottone III di Sassonia, San Pier Damiani, Dante Alighieri, Eriberto di Ravenna, Mazulo, Deudedit, delta del Po, Enrico II di Germania, Borgo San Donnino, Fidenza, Ficarolo, Innocenzo VIII, San Benedetto di Ferrara, Duca Ercole I, Ducato Estense, Cardinale Ippolito I, Papa Innocenzo X, diocesi di Comacchio, famiglia Guiccioli, Museo Pomposiano.