Cinque Maggio 1945
Riflessioni attuali a tre quarti di secolo dal sacrificio dei nuovi Martiri per l’italianità di Trieste

Nella storia della Venezia Giulia, il Cinque Maggio è una data importante: non già perché 40 anni or sono aveva appena visto la morte di Tito (avvenuta il giorno precedente) e l’ulteriore accelerazione del processo critico già in atto da tempo che avrebbe portato al disfacimento della ex Jugoslavia, quanto perché in quel giorno del 1945 caddero a Trieste i primi Martiri della «nuova» italianità: Claudio Burla, Giovanna Drassich, Carlo Murra, Graziano Novelli e Mirano Sancin.

Una lapide che ricorda il loro sacrificio, col doveroso riferimento alla Medaglia d’Oro «ad memoriam» concessa dal Presidente della Repubblica (sia pure con enorme ritardo) venne scoperta nella ricorrenza del 65° anniversario, auspice la Lega Nazionale con il concorso di Comune, Provincia, Associazioni d’Arma, Unione degli Istriani e Libero Comune di Pola in Esilio; senza dire che a ogni cadenza annuale una corona d’alloro viene posta a perenne ricordo di quella tragica pagina di storia nel luogo dell’eccidio, all’incrocio di Corso Italia con Via Imbriani.

Il 5 maggio 1945 la Jugoslavia aveva appena «vinto» la cosiddetta corsa per Trieste, con l’arrivo delle sue truppe partigiane poche ore prima di quelle neozelandesi, quali avanguardie degli eserciti alleati; ma aveva dimostrato immediatamente quali fossero le sue intenzioni, dando inizio ai «quaranta giorni» più drammatici della lunga storia cittadina. Non a caso, proprio nella centralissima via dedicata a Matteo Renato Imbriani (per l’appunto: un grande patriota del primo irredentismo) i Caduti falciati da una mitragliatrice «drusa» avevano avuto il solo torto di innalzare il tricolore e di avviarsi verso il Sacello Oberdan per attestare la permanente fedeltà all’Italia, condivisa da una larghissima maggioranza di Triestini.

Fu il primo episodio di una lunga mattanza che si sarebbe protratta a Trieste fino a metà giugno, quando gli Slavi furono costretti a lasciare la città, in seguito agli accordi di Belgrado fra Tito e il Generale Alexander; ma che sarebbe continuata «sine die» in Istria e Dalmazia, ben oltre lo stesso trattato di pace del 10 febbraio 1947. Basti rammentare che, secondo valutazioni degli stessi Alleati Occidentali, e quindi al di sopra di ogni sospetto, le persone scomparse nella sola città di Trieste durante i «quaranta giorni» avrebbero superato le 4.000 unità.

Oggi non serve rammentare i dettagli di quel plumbeo Cinque Maggio, in cui oltre alle Vittime quasi tutte giovanissime si contarono parecchi feriti (qualcuno rimase invalido): le cronache dell’epoca e le ricostruzioni assai precise degli eventi, su cui esiste una bibliografia molto esaustiva[1], parlano chiaro e pongono in evidenza, senza se e senza ma, la responsabilità di chi aveva ritenuto di poter governare all’insegna del terrore e della cosiddetta «giustizia popolare» perseguita alacremente con angherie di ogni sorta, che spesso si concludevano negli infoibamenti o nelle deportazioni, a danno di una popolazione che non aveva «colpe» di sorta, all’infuori dell’italianità.

Nondimeno, nel pur difficile disegno di pervenire a una memoria condivisa occorre onorare quei Martiri, al pari dei giovani patrioti che otto anni più tardi sarebbero caduti sotto il piombo del Governo Militare Alleato, e per esso della polizia inglese[2], a fronte della stessa unica «colpa» di avere invocato la nuova redenzione di Trieste e il suo ritorno alla madrepatria italiana[3]. Ignorare la nobiltà del loro sacrificio e il valore degli ideali per cui si erano impegnati, tanto da meritare il massimo riconoscimento della Repubblica, vorrebbe dire ucciderli un’altra volta.

Si stanno per compiere 150 anni dalla conclusione del sogno risorgimentale, grazie a Porta Pia e alla fine del potere temporale: ebbene, il modo migliore per celebrare la ricorrenza è quello di comprendere in un solo abbraccio tutti i patrioti che si sono impegnati per realizzare l’auspicio di Dante, Petrarca, Machiavelli e Leopardi, in troppi casi immolandosi sui patiboli e sui campi di battaglia, dai primi moti carbonari alla battaglia di Calatafimi, ovvero dalla resistenza sul Piave a quella di Trieste durante un lunghissimo secondo dopoguerra.

Troppo spesso, il Cinque Maggio ha coinciso con pervicaci osanna elevati nella ex Jugoslavia alla memoria del satrapo di Belgrado, nell’altrettanto pervicace rimozione dalla memoria collettiva, dei delitti contro l’umanità di cui costui si era macchiato, come da precise documentazioni storiografiche[4]: a ben vedere, si tratta di residue manifestazioni di anacronistico folclore assimilabili a quelle degli ultimi austriacanti. Il «Dio che atterra e suscita» cantato dal Poeta a margine di un altro celebre Cinque Maggio, quello della scomparsa di Napoleone, conforta tuttora chi crede nei valori supremi di civiltà e giustizia: gli stessi per cui caddero nel maggio 1945 gli incolpevoli Martiri di una Trieste rimasta senza pace anche a guerra finalmente conclusa dopo cinque anni di lutti e di tragedie.


Note

1 La bibliografia in questione è quasi sterminata: qui basti citare almeno il primo contributo, oggi quasi introvabile, di G. Holzer, Fasti e nefasti della quarantena titina a Trieste, stampa in proprio, Trieste 1946, 86 pagine. Fra i tanti contributi più recenti, confronta Alessandro Cappellini, Trieste 1945-1954: gli anni più lunghi, MGS Press, Trieste 2004, 336 pagine; e per un inquadramento di più lungo periodo, confronta Elio Apih, Trieste, Collana «Storia delle città italiane», in collaborazione con Giulio Sapelli e Elvio Guagnini, Giuseppe Laterza & Figli, Bari 1988, 406 pagine. In merito alle persecuzioni comuniste, anche nei confronti di Sloveni e Croati dissidenti, utili riferimenti sono reperibili in: Bogdan C. Novak, Trieste 1941-1954: la lotta politica, etnica e ideologica, Edizioni Mursia, Milano 1973, 478 pagine. Infine, per le ultime, convulse fasi del Governo Militare Alleato nel cosiddetto Territorio Libero di Trieste (TLT), si veda: Vladimiro Lisiani, Good-bye Trieste, Edizioni Mursia, Milano 1966, 320 pagine.

2 L’autunno del 1953 fu un periodo decisivo nella storia di Trieste e del confine orientale. In settembre, il Presidente del Consiglio Giuseppe Pella, dopo avere mobilitato alcuni contingenti di truppe in Friuli, chiese una consultazione in tutto il Territorio Libero di Trieste per conoscere la reale volontà popolare; in conseguenza, nel mese successivo gli Alleati dichiararono «motu proprio» l’intenzione di restituire la Zona «A» all’Italia, provocando violente reazioni nella Repubblica Federativa, guidate dallo stesso Tito. Ne derivarono forti manifestazioni per Trieste in tutta Italia, e nella stessa città di San Giusto, con particolare riguardo a quelle d’inizio novembre, rese drammatiche e sanguinose dal Governo del Territorio Libero di Trieste e dalla violenza della sua polizia. Un anno dopo (4 novembre 1954) la Zona «A» venne finalmente restituita all’amministrazione italiana, fatta eccezione per alcune rettifiche del confine, con la rinuncia italiana agli abitati di Albaro Vescovà e Crevatini, a monte di Muggia.

3 Caddero per l’italianità di Trieste, in quel tragico novembre del 1953, come da lapide «ad memoriam» installata dal Comune: Piero Addobbati, Emilio Bassa, Leonardo Manzi, Saverio Montano, Francesco Paglia, Antonio Zavadil, che nel 50° anniversario del proprio nobile sacrificio vennero insigniti di Medaglia d’Oro al Merito Civile. I giovanissimi Addobbati e Manzi appartenevano, rispettivamente, a famiglie esuli dall’Istria e da Fiume; si può aggiungere che il ricordo del primo rimase particolarmente vivo a distanza d’anni negli ambienti studenteschi, e che Associazioni nel Nome del Caduto vennero costituite anche in altre regioni (in particolare, ebbe lunga vita quella di Firenze, presieduta da Uberto Bartolini Salimbeni).

4 Per una sintesi aggiornata di tipo etico-politico, e degli stessi aspetti giuridici, confronta Italo Gabrielli, Istria Fiume Dalmazia: Diritti negati – Genocidio programmato, seconda edizione, Luglio Editore, Trieste 2018, 128 pagine. Una ricostruzione accurata non meno importante è quella predisposta dal Governo Italiano in vista delle trattative di pace in programma a Parigi durante il dopoguerra: Treatment of the Italians by the Yougoslavs after September 8th, 1943, prima edizione inglese, Roma 1946, 126 pagine (l’edizione italiana è stata resa disponibile nel 2011 a cura dell’Associazione Dalmata, e presentata da Mila Mihajlovic di RAI International nel corso di apposita conferenza al Vittoriano).

(maggio 2020)

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