Tito Livio e le radici della storiografia occidentale
L’opera da cui discende gran parte del bene e del male della moderna storiografia

Nell’anno 27 avanti Cristo Ottaviano Augusto rimane unico signore di Roma dopo la soppressione dei suoi due colleghi-rivali Lepido e Antonio: sotto la sua ombra si trova raccolto un territorio vastissimo ed eterogeneo, che si estende da Gibilterra alla Siria, dalle sabbie dell’Egitto alle coste rocciose della Gallia (l’odierna Francia). Dopo più di un secolo di guerre civili che hanno insanguinato lo Stato romano, il neo-Imperatore si accinge ad un’imponente opera di restaurazione dei costumi dei padri («mores maiorum»), che passa anche attraverso la restaurazione dei generi letterari dei tempi passati.

In questo clima scrive Tito Livio, nato a Padova nel 59 avanti Cristo e morto nel 17 dopo Cristo, da considerarsi sicuramente il maggior storiografo «di professione» dell’antica Roma. Il progetto che egli concepisce con la sua opera Annales ab Urbe condita è smisurato: narrare la storia di Roma dalle origini fino – per quel che sappiamo – alla morte di Augusto, per un totale di almeno centocinquanta libri; ne sono attestati ben centoquarantadue, che vanno dalla fondazione della città fino all’anno 9 avanti Cristo, terminando con il massacro di Teutoburgo e la definitiva esclusione dei Romani dalla Germania profonda. La vastità dell’opera è inversamente proporzionale alla speranza della sua sopravvivenza: ci sono rimasti i primi dieci libri, poi i libri dal ventuno al quarantacinque; per i libri mancanti possediamo dei riassunti, composti spesso ad uso delle scuole.

Gli Annales ab Urbe condita si pongono come un potente richiamo agli Annales antichi, la cui narrazione veniva impostata «ab antiguo», con limiti cronologici fissati; questo provoca talvolta degli squilibri, soprattutto quando la narrazione di un evento si deve interrompere per far posto ad altre vicende contemporanee.

Livio è ben conscio della difficoltà del suo compito, soprattutto per quel che riguarda il periodo anteriore o coincidente alla fondazione di Roma, così denso di abbellimenti leggendari; lui si pone sul piano della completa neutralità, non volendo confutare né smentire né confermare i fatti delle origini canonizzati dalla tradizione. L’«antiquitas», del resto, gode di questa particolare licenza, la possibilità cioè di impostare la storia dei primi tempi di Roma come eroica e fondata sullo stretto rapporto tra uomini e dèi, per raggiungere lo scopo politico di rendere più solenni i primi tempi della città (tale particolare nozione prende il nome di «mito necessario»); Roma ha acquisito una tale gloria militare che, se si tramanda che ha avuto origine da Marte (il dio della guerra), i popoli devono accettare questa storia con la stessa tranquillità con la quale accettano il dominio romano (si parla allora di «mito obbligato»).

Un altro problema riguarda il rapporto con il potere, in special modo se si considera che Augusto è padrone indiscusso di Roma e non ha avversari politici. Livio diviene più accorto nell’avvicinarsi ai tempi presenti e il suo giudizio su Giulio Cesare, conservatoci da Seneca, non è del tutto celebrativo: non è chiaro – ammette Livio – se la nascita di Cesare sia stata per Roma un bene o un male; questo perché Pompeo incarnava più di Cesare la tradizione anti-popolare che Augusto mirava a restaurare, e Livio non era certo tanto temerario da schierarsi contro l’Imperatore.

Il tema predominante nella storiografia, non solo liviana, prende una verniciatura pessimistica e moralistica: la storia umana è letta prevalentemente come decadenza continua dallo splendore delle origini al momento presente, decadenza dovuta all’allentarsi dei «mores», degli stili di vita, delle abitudini; Livio insiste sulla decadenza del presente di Roma più per la convenzione storiografica al pessimismo che per reale convinzione, e manifesta il piacere di narrare le vicende leggendarie delle origini per liberarsi dal peso del presente; nell’incipit sull’inizio delle guerre puniche scrive come se da quel momento iniziasse una nuova storia, usando gli stilemi tipici di chi compone un poema. Il suo modo di scrivere lo avvicina al filone detto «ciceroniano», basato sulla «concinnitas», cioè sull’armonizzazione del periodo; riceve elogi da Quintiliano che lo paragona ad un fiume che scorre «lento e solenne».

La parte del leone negli Annales è affidata alla narrazione di eventi militari o politici ad alto livello, mentre i periodi di pace sono giudicati poco interessanti, e vi è una particolare trascuratezza verso i fenomeni della storia della cultura. La preparazione di Livio nelle arti belliche è meno che sommaria, del resto la guerra gli interessa per gli aspetti spettacolari, descrittivi; nessuno penserebbe seriamente di usare i testi di Livio come manuali di strategia militare, a differenza dei commentari di Cesare che sono serviti di base a più d’un brillante condottiero (come ad esempio Napoleone).

Livio molto raramente cita le fonti che usa con tanta libertà, ancor meno le confronta fra loro e comunque applica il criterio della maggior credibilità della fonte più antica, in modo del tutto arbitrario.

L’impostazione storiografica di Livio ha fatto scuola ed è presente ancora al giorno d’oggi in molte opere divulgative e in numerosi testi scolastici, con tutto ciò che di bene e di male questo comporta; solo negli ultimi anni si è cominciato ad un serio vaglio delle fonti e ad un’attenzione verso i fenomeni artistici e filosofici accanto a quelli politici e militari. La strada è ancora lunga, ma si è cominciato a percorrerla; con la speranza che lo si faccia «fino in fondo».

(novembre 2005)

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