La Terza Guerra Punica
Le vicende che portarono alla definitiva fine di Cartagine e del suo Impero

Era l’anno 149 avanti Cristo, e l’anziano Senatore Marco Porcio Catone (un uomo magro, con lineamenti ossuti, stempiato e dallo sguardo penetrante), detto il Censore, stava tenendo un discorso. Al termine, lo concluse dicendo: «Ceterum censeo delendam esse Carthaginem» («Per quanto riguarda il resto, penso che Cartagine debba essere distrutta»). Non era il tema del discorso; in realtà, non c’entrava nulla. Ma, ogni volta che Catone si metteva a parlare, qualsiasi fosse il tema su cui discuteva, quella stessa frase risuonava come una monotona litania. Da oltre un anno andava avanti così.

Catone aveva avuto occasione di visitare la città africana nel 175 avanti Cristo, in missione ufficiale: pur avendo perso la guerra, i Cartaginesi erano rimasti un popolo di abili mercanti ed erano riusciti ad accumulare nuovamente una grande ricchezza, tanto che il Senatore era convinto che un giorno non lontano essi sarebbero tornati a contendere ai Romani il dominio del Mediterraneo; gli orti e i vigneti erano fertilissimi, le armi si andavano accumulando negli arsenali; aveva portato in Senato un cestino di fichi freschi, a ricordare quanto fosse pericoloso aver vicino una città così prospera. L’accordo con il vecchio Catone non era però unanime. Secondo alcuni Senatori, Cartagine, battuta irreparabilmente a Zama e sottoposta – tra l’altro – alla dura condizione di non poter condurre alcuna guerra, neppure in Africa, senza il consenso di Roma, non sarebbe stata più in grado di dar fastidio.

Ma il parere del vecchio Senatore finì per prevalere. Il Governo della Repubblica Romana si decise a dare il colpo di grazia a Cartagine. Bisognava solo trovare un pretesto valido per poter dichiarare guerra alla sua antica rivale o, meglio, per costringere i Cartaginesi a dichiarare guerra per primi: i Romani sarebbero così apparsi come vittime dell’aggressione e meritevoli di vittoria.

Il pretesto lo fornì Massinissa, Re di Numidia (attuale Algeria). Fu un uomo straordinario: visse fino a 90 anni, generò un figlio a 86 anni e con un regolato regime di vita mantenne salute e forza sino alla fine; trasformò il suo popolo nomade in una società rurale stabile e in uno Stato disciplinato, con capitale Cirta, una città che adornò di grandiosi edifici, compresa come sua tomba una grande piramide che ancora oggi si eleva presso la città di Costantina, in Tunisia. Questi, fin dal 157 avanti Cristo, compiva continue scorrerie per impossessarsi del territorio costiero dell’odierna Tripolitania, che apparteneva a Cartagine, e prese il controllo di molte città. Più volte i Cartaginesi si erano appellati a Roma, alleata di Massinissa, che però aveva fatto orecchi da mercante o aveva dato ragione al Sovrano Numida. Nel 149, ormai stanca di sottostare ai continui soprusi del suo «vicino di casa», Cartagine si decise a reagire e a dichiarargli guerra. Di fronte a questa palese violazione dei termini del trattato di pace siglato 50 anni prima, il Senato Romano stabilì che la città avrebbe dovuto subire una durissima lezione, anzi, la più dura che fosse mai stata inflitta: sarebbe dovuta essere completamente rasa al suolo, per non risorgere mai più!

Non appena vennero a conoscenza della dichiarazione di guerra da parte di Roma, i Cartaginesi furono presi dal terrore: avevano un piccolo esercito, una flotta ancora più piccola, non mercenari, non alleati (persino Utica si schierò col più forte), e Roma controllava il mare; sapevano di non poter fronteggiare i loro avversari e che un simile conflitto sarebbe stato perduto in partenza. Ignari della reale portata della deliberazione, credettero di poterne mutare il disegno sottoponendosi alla pace «a ogni condizione». Inviarono quindi a Roma, in fretta e furia, 30 Ambasciatori. A loro, il Senato della città capitolina promise che avrebbe discusso la pace a patto che i Cartaginesi consegnassero 300 ostaggi, scelti fra i giovani delle più nobili famiglie, tutte le armi e l’intera flotta da guerra. La consegna avrebbe dovuto esser fatta direttamente ai Consoli Romani, che stavano già facendo vela verso l’Africa alla testa di un poderoso esercito e della flotta da guerra. Erano condizioni durissime che comunque i Cartaginesi, pur di evitare la guerra, si costrinsero ad accettare. Alcune madri si gettarono in mare nuotando dietro alle navi che portavano via i loro figli, e finirono per annegare.

Avvenuta la consegna di giovani e armi, i Consoli fecero sapere che c’era un’ultima condizione di pace, che avrebbero riferito a una commissione di Senatori. A costoro, accorsi per udire le decisioni di Roma, i Consoli dissero: «Vi lodiamo, oh Cartaginesi, per aver consegnato con sollecitudine armi e ostaggi. Ora non vi resta che accogliere l’ultima intimazione del Senato. Andate a fabbricarvi un’altra città a parecchie miglia dalla costa. Noi abbiamo l’ordine di distruggere questa vostra Cartagine!». Era una condizione inaccettabile: ricostruita a 10 miglia dalla costa, Cartagine sarebbe stata tagliata fuori dai suoi porti e dalle sue rotte commerciali, chiusa oltretutto in un territorio controllato da Massinissa, e sarebbe crollata in modo definitivo. Invano i Senatori offrirono le loro vite, si gettarono a terra, batterono il capo, fecero notare che mai si era vista una simile atrocità. Quando i Cartaginesi vennero a conoscenza di questo, uccisero i capi che avevano consigliato di consegnare gli ostaggi e le armi, e si prepararono alla guerra a oltranza!

La storia della difesa di Cartagine non può non suscitare la più grande ammirazione: pochi popoli mostrarono una simile, disperata, volontà di resistere. Avendo consegnato tutte le armi ai Romani, il Governo ordinò alle officine militari di fabbricare in fretta e furia quante più armi potessero. Furono demoliti pubblici edifici per avere metallo e legname da costruzione, le statue venerate degli dèi vennero fuse per ricavarne spade e, dato che mancavano le corde per mettere in azione le catapulte, le donne cartaginesi non esitarono a offrire i loro capelli. Strabone ci riferisce che le officine cartaginesi riuscirono a produrre in due mesi 8.000 scudi, 18.000 spade, 30.000 lance, 60.000 proiettili da catapulta, un gran numero di macchine belliche e una flotta di 120 navi. Tutti gli uomini atti alle armi, anche gli schiavi, si posero alla difesa delle mura che cingevano la città: Cartagine era infatti protetta da possenti fortificazioni, tanto dalla parte della terra, quanto da quella del mare. Con quella tenacia e quelle fortificazioni, la città immobilizzò per tre anni l’esercito romano.

Le legioni romane sferrarono il primo attacco alle mura di Cartagine nella primavera del 149 avanti Cristo, ma esso si risolse in un completo insuccesso: non solo i nemici respinsero tutti i loro assalti, ma riuscirono a distruggere un gran numero di macchine belliche. A Roma, dove si era certi che Cartagine avrebbe ceduto subito, la sorpresa della sconfitta suscitò una vivissima impressione. Vennero immediatamente sostituiti i Consoli che dirigevano le operazioni di assedio e furono inviate in Africa nuove truppe.

L’assedio si trascinò per altri due anni, senza che i Romani riuscissero a conseguire alcun notevole successo. A questo punto il Senato, deciso a porre fine alla «questione cartaginese» una volta per tutte, mandò in Africa uno dei più abili condottieri del tempo: Publio Cornelio Scipione Emiliano, nipote adottivo di Scipione l’Africano (il vincitore di Annibale a Zama). Aveva un viso tondo e squadrato, gli occhi socchiusi, un’espressione tranquilla da uomo più di pensiero che di azione. Quando questi giunse in Africa, vi trovò una situazione grave: 3.500 legionari romani, che avevano tentato di scalare le mura di Cartagine dalla parte del mare, erano stati circondati dai nemici; con un’abile manovra, Scipione riuscì a salvarli. L’impresa gli valse la stima di tutto l’esercito.

Una notte, dopo aver preparato con cura minuziosa il piano di attacco, Scipione ordinò l’assalto dalla parte della terraferma. Oltre 4.000 legionari riuscirono a penetrare nella città e a occuparne la parte nuova, denominata Megara. I Cartaginesi si ritirarono nella «cittadella», il vecchio quartiere di Cartagine.

Nel frattempo Scipione, dopo aver bloccato tutte le vie di comunicazione terrestri, progettò un’opera colossale per bloccare la città anche dalla parte del mare: la costruzione di una diga che si protendesse nel mare sino a ostruire l’ingresso del porto. Ma, prima che l’opera venisse compiuta, i Cartaginesi riuscirono a costruire un canale in cui fare approdare le navi. Scipione rispose tentando di assaltare la città dalla parte del porto, dov’era difesa soltanto da un terrapieno.

Ci volle tutta l’estate del 147 avanti Cristo prima che i Romani riuscissero a impadronirsi del porto di Cartagine. Nella primavera dell’anno successivo fu sferrato un nuovo attacco in grande stile: esso era diretto alla «cittadella», dove si erano rifugiati gli abitanti. Costretti a cedere, i Cartaginesi si asserragliarono nell’Acropoli, le cui case erano state trasformate in fortini. La tremenda battaglia, alla quale presero parte anche le donne cartaginesi, durò sei giorni consecutivi: assillato dall’attività dei franchi tiratori, Scipione ordinò di dar fuoco a tutte le strade man mano che venivano conquistate e di radere al suolo gli edifici; centinaia di Cartaginesi nascosti perirono nell’incendio. Al settimo giorno, l’eroica resistenza dei Cartaginesi era terminata. La popolazione superstite, ridotta a 55.000 persone sulle 500.000 che v’erano all’inizio, si arrese. Il comandante cartaginese, che si chiamava Asdrubale (come il padre di Annibale) chiese e ottenne grazia della vita; la moglie di lui invece, sottolineando così la viltà del marito, si gettò coi figli tra le fiamme che ardevano la città. Scipione si dimostrò magnanimo, concesse a tutti i sopravvissuti la vita (pur vendendoli come schiavi), poi, obbedendo all’ordine del Senato, fece radere al suolo l’intera città. Il terreno fu arato, vi si seminò del sale perché non potesse più essere produttivo, e venne maledetto. La città bruciò per 17 giorni.

Né Catone né Massinissa, che erano stati i principali artefici della guerra, videro il risultato dei loro sforzi: erano entrambi morti pochi mesi prima.

Così finiva per sempre Cartagine, la città che, come scrisse Appiano (uno storico greco del II secolo dopo Cristo), «per 700 anni aveva dominato tanto mare e tante terre; la città così forte di anima che, anche privata della sua flotta e delle sue armi, seppe resistere per tre anni alla schiacciante potenza di Roma». Non fu stipulato nessun trattato di pace, perché non esisteva più uno Stato Cartaginese. Il suo territorio divenne provincia con il nome di Africa, mentre Utica e le altre città che avevano aiutato Roma rimasero libere sotto il protettorato romano. Da quel momento, tutta la storia politica del Mediterraneo passò necessariamente attraverso Roma. Scipione fu visto piangere sulle rovine di Cartagine: egli rifletteva come gli Stati nascono, diventano potenti e muoiono, così com’era avvenuto a Cartagine, e temeva che sarebbe giunto un giorno in cui anche Roma e tutta la sua gente sarebbe caduta; in questo si rivelò profeta, anche se sarebbero dovuti trascorrere vari secoli perché ciò che paventava si verificasse. Sul luogo dov’era sorta Cartagine, a tutt’oggi non rimangono che rovine.

(marzo 2020)

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