La Seconda Guerra Punica
Un condottiero eccezionale, uno dei più grandi della Storia, si misura con un popolo estremamente tenace, in un conflitto destinato a mutare in modo irreversibile il futuro dell’umanità. Le ragioni delle sue vittorie e della sua disfatta finale

Si parla spesso di «arte della guerra», non sempre in modo appropriato: l’arte serve infatti a costruire, a «creare» qualcosa di bello, di «vivo»; la guerra invece distrugge, spegne, uccide. Eppure, di fronte a degli schieramenti, a delle tattiche di battaglia, forse la parola «arte» – almeno in senso lato – non è del tutto inappropriata. Come dimostreremo in questo articolo.

La Seconda Guerra Punica combattuta tra Roma e Cartagine è la più terribile guerra che ha dovuto affrontare la Città Eterna nei suoi primi mille e passa anni di storia: una guerra lunga (è durata la bellezza di 18 anni!), difficile e incredibilmente densa di operazioni militari e politiche. Anzi, se si considerano le guerre contro Antioco di Siria come una naturale «appendice» della Seconda Guerra Punica, allora la si potrebbe definire – come fatto da alcuni – la Prima Guerra Mondiale della Storia: si combatté infatti in tre continenti, e vi presero parte le più grandi potenze dell’epoca (non solo Roma e Cartagine, ma anche il Regno Ellenistico di Siria). Basti qui dire che Tito Livio, il maggior storico dell’antica Roma, ha impiegato più pagine per darci il resoconto di questa guerra che per narrare tutti i fatti dei precedenti cinque secoli di storia romana, che occupano lo spazio di più di un libro.

Cercheremo, per ragioni di brevità, di tracciare un quadro degli eventi nelle linee essenziali, come semplice panoramica.

Questa guerra assomiglia a una partita di scacchi: come in una partita di scacchi la vittoria arride esclusivamente a chi mette in atto una strategia migliore dell’avversario, così nella Seconda Guerra Punica le vittorie sono merito di abilità strategiche e non di superiorità numerica, armamento o forza degli eserciti.

La Prima Guerra Punica si è conclusa nel 241 avanti Cristo con la vittoria dei Romani, che strappano ai Cartaginesi la Sicilia, la Sardegna e la Corsica. La città africana si rifà di queste perdite con la conquista della Spagna Meridionale, ricca di miniere di metallo e argento, necessarie per procurarsi armi e risorse finanziarie per riprendere le ostilità; è Amilcare, della nobile famiglia dei Barca, che guida le operazioni contro le riottose tribù dei Celtiberi, dopo aver inutilmente tentato di impedire l’invasione romana della Sicilia. Ha tre figli, la sua «covata di leoni»; un giorno porta davanti al fuoco sacro uno di questi, Annibale (nato nel 247), di nove anni, gli fa stendere le mani sulla vittima appena immolata e gli fa giurare agli dèi eterna inimicizia e odio verso i Romani. Annibale avrebbe mantenuto fino alla morte questa promessa!

Annibale giura odio ai Romani

Claudio Francesco Beaumont, Annibale giura odio ai Romani, 1730-ante 1766, Musée des beaux-arts, Chambéry (Francia)

Amilcare muore in battaglia quando Annibale ha 18 anni. A 26 anni, questi succede al padre come comandante supremo dell’esercito cartaginese in Spagna. Ha un vigore che pare inesauribile, e inoltre dimostra subito un intuito fenomenale come stratega. Assale i Celtiberi e li sottomette. Vuole attuare il programma che il padre ha lasciato incompiuto: terminare la conquista della Spagna, dei Pirenei e della valle del Rodano, allo scopo di assicurare a Cartagine le vie commerciali della Gallia, attraverso le quali viene importato lo stagno; prepara una vastissima rete di alleanze con le tribù galliche al di qua e al di là delle Alpi, poi dà avvio al suo più ambizioso progetto. Nel 219 avanti Cristo decide di portare la guerra in Italia e sferrare un attacco diretto verso Roma. Muove da Cartagena, la potente colonia-arsenale fondata sulla costa catalana, punta su Sagunto e, dopo otto mesi di assedio, la conquista e la rade al suolo.

Sagunto, a Ovest dell’Ebro (quindi in zona di influenza cartaginese) è città alleata dei Romani. Il Senato invia a Cartagine degli ambasciatori, che richiedano la consegna di Annibale o la guerra. I Cartaginesi rispondono con la guerra!


L’offensiva cartaginese...

Busto di Annibale

Busto (presunto) di Annibale, Museo Archeologico Nazionale di Napoli (Italia)

Annibale non perde tempo. Divide le truppe cartaginesi in tre parti, inviando un esercito in Africa a difesa di Cartagine (nel caso i Romani tentino una spedizione sul suolo africano), ne lascia uno a presidiare la Spagna affidandolo al fratello Asdrubale e prende il terzo con sé. Stabilisce un grande deposito di rifornimenti presso Tarragona e varca i Pirenei. Ha con sé un esercito di 50.000 fanti, 9.000 cavalieri e 37 elefanti: non sono truppe numerose, ma espertissime e fedeli.

Le popolazioni galliche della valle del Rodano tentano di impedire il passaggio al suo esercito. Annibale si apre la strada combattendo; impiega tutta la primavera e l’estate del 218 avanti Cristo per attraversare la Provenza. Arriva sulle sponde del fiume Rodano; non ci sono ponti, e per passarlo lo fa attraversare ai suoi uomini e ai loro animali su zattere sostenute da otri, impiegando un solo giorno. Quando giunge ai piedi delle Alpi le sue forze, per le perdite subite, si sono ridotte a 38.000 fanti e 8.000 cavalieri.

Il passaggio delle Alpi è sempre stato visto come un’impresa grandiosa e disperata. È autunno, cade la prima neve; occorrono nove giorni per la salita, e sei per la discesa sul versante italiano dopo aver sconfitto gli Alpigiani, che tentano di sbarrare il passo all’invasore. Non sappiamo esattamente attraverso quale valico Annibale sia giunto nella Penisola: secondo Tito Livio, risalì la valle della Durance, e giunse al Monginevro; secondo altri storici valicò il Moncenisio e scese nella valle della Dora Riparia. Agli occhi degli antichi, che hanno poca dimestichezza con queste montagne, la traversata delle Alpi diviene un’impresa quasi leggendaria; in realtà, le montagne sono state varcate fin dall’epoca preistorica a scopi commerciali o di transumanza, e i Galli da tre secoli le passano con le loro tribù in armi, le donne, i bambini e le masserizie. Ci sono sentieri, passi e valichi. Napoleone l’ha definita poco più di una «passeggiata», ma è una visione semplicistica, soprattutto se si tiene conto che è stata fatta da uomini e animali abituati a un clima semi-tropicale, e in più nella stagione più rigida. Scrive Livio che ad Annibale «gli altissimi monti visti da vicino, e le nevi che quasi sembravano toccare il cielo, le case rozze poste sulle rocce, il bestiame e i giumenti bruciati dal freddo, gli uomini intonsi e incolti, le cose animate e inanimate tutte irrigidite dal gelo, e tutte le altre cose, più orrende a vedersi che a dirsi, rinnovarono la paura […]. Il nono giorno giunsero sul valico delle Alpi, attraverso luoghi impervi e sbagli di strada dovuti all’inganno delle guide, o, quando non si prestava fede alle guide, al fatto che, cercando di indovinare il cammino, si addentravano a caso nelle valli. Fu posto il campo sul valico per due giorni, per concedere riposo ai soldati stanchi per la fatica e per i combattimenti […]. Nei soldati affaticati e demoralizzati da tante avversità aggiunse grande terrore anche la caduta della neve […]. Data la partenza all’alba poiché l’esercito avanzava lentamente per i luoghi tutti ricoperti di neve, e l’inerzia e la sfiducia si leggevano sui volti di tutti, Annibale, precedendo le insegne, fece fermare i soldati su di un’altura, da cui la vista spaziava in ogni direzione, e mostrò loro l’Italia e la Pianura Padana che si stendeva ai piedi delle Alpi, dicendo che essi allora varcavano le mura non solo dell’Italia, ma anche di Roma; tutto il resto sarebbe stato piano e in discesa, e con una o al più due battaglie avrebbero avuto nelle loro mani e in loro potere la rocca e la capitale dell’Italia» (Tito Livio, Storia di Roma, XXI, 32 e seguenti). Al di là degli «abbellimenti» retorici, quella delle Alpi non si rivela una traversata «indolore»: sui sentieri ripidissimi coperti di neve, sulle rocce, nei burroni muoiono moltissimi uomini, si perdono quasi tutte le vettovaglie, le armi, i carriaggi. Non sono più di 30.000 fanti, 6.000 cavalieri e 21 elefanti quelli che si accampano, laceri e sfiniti, nelle terre dei Galli Cisalpini; Annibale ha mandato, in precedenza, emissari a intavolare trattative, e ora molte di queste tribù gli sono amiche. Chi non è del tutto d’accordo, come i Taurini, ne subisce le conseguenze: Annibale assale la loro capitale, Torino, e ne passa a fil di spada tutti gli uomini della guarnigione. Può quindi «disporre sulla scacchiera» le proprie forze e prepararsi alle mosse successive. Poi prosegue a marce forzate; lui stesso, a causa delle fatiche, sarà colto da febbri che gli causeranno la perdita della vista a un occhio.

In tutto questo tempo, i Romani non sono rimasti con le mani in mano ma hanno stabilito una loro strategia: inviano in Sicilia un esercito al comando del console Sempronio Longo perché si prepari a sbarcare in Africa portando la guerra alle porte di Cartagine, e fanno partire da Pisa un secondo esercito, al comando del console Publio Cornelio Scipione[1], che fermi Annibale in Gallia. Sbarcato a Marsiglia, Scipione apprende che il nemico ha passato il Rodano poche ore prima; decide quindi di portare in Alta Italia una parte delle sue truppe, per impedire l’invasione della Pianura Padana, mentre l’altra parte, capitanata dal fratello Gneo Cornelio, proseguirà alla volta della Spagna. L’esercito di Sempronio, che ha nel frattempo occupato Malta e si sta preparando per raggiungere l’Africa, viene immediatamente richiamato dal Senato.

Ogni giocatore con una minima esperienza di scacchi sa che i primi a doversi muovere sono i cavalli. In più di una partita, divengono i pezzi essenziali alla vittoria. Penso che, se Annibale li avesse conosciuti, sarebbe divenuto un grande campione di scacchi. Anche lui fonda la sua strategia sui cavalli, anzi, sui cavalieri, potendo contare su quelli dell’alleato Massinissa, Re di Numidia, tra i migliori dell’antichità: superiori in tutto ai modesti cavalieri di Roma. Nell’ottobre del 218 avanti Cristo si scontra con Scipione sul Ticino e lo sconfigge; Scipione salva a mala pena la propria vita, difeso dal figlio diciassettenne che gli fa scudo col proprio corpo. In seguito a questa vittoria i Galli Cisalpini passano decisamente dalla parte di Annibale, con grave danno per i Romani. Il 25 dicembre, usando la cavalleria per premere sui fianchi il nemico, il Generale Cartaginese coglie un’altra vittoria sul fiume Trebbia, contro le forze congiunte di Scipione e Sempronio, che aveva risalito la Penisola a marce forzate; 20.000 legionari restano sul campo. L’unico successo romano nel primo anno di guerra viene da Gneo Cornelio Scipione, che raggiunge Tarragona, distrugge le riserve di Annibale e stabilisce un forte presidio.

Annibale non perde tempo ad assalire le città fortificate di Piacenza e di Cremona, limitandosi a lasciar delle truppe ad assediarle; le due colonie romane resisteranno per tutta la guerra, rifornite attraverso il Po, e la loro resistenza – che meriterebbe di essere raccontata – è un indizio di quella tenacia che sarà una delle caratteristiche che permetteranno ai Romani di superare i continui rovesci e, alla fine, vincere la guerra. La primavera dell’anno successivo, il 217 avanti Cristo, porta altri allori sul capo del Generale Cartaginese: al comando del nuovo console, Flaminio, un nuovo esercito romano muove contro di lui. Mentre i legionari sono in marcia lungo le rive del Lago Trasimeno, in una zona chiusa tra due gole, Annibale me blocca gli sbocchi e fa attaccare il nemico contemporaneamente di fronte, da tergo e di lato, dalle colline. Le urla del nemico che avanza ovunque e la nebbia accrescono la confusione dei Romani, che a un certo punto si trovano a scontrarsi tra di loro. Molti si gettano nel lago in cerca di salvezza, ma sono trascinati sul fondo dal peso dell’armatura. 15.000 Romani, tra cui lo stesso Flaminio, rimangono uccisi o annegati nel lago.

A questo punto, Annibale non punta contro Roma ma devia verso l’Umbria, cercando di sollevare le popolazioni locali; ma le città della Toscana e dell’Umbria gli sbarrano le porte in faccia, non avendo alcuna fiducia in quel «liberatore». I Cenomani e i Veneti, nella Pianura Padana, sono rimasti fedeli a Roma. Si porta poi nell’Italia Meridionale, una terra ricca dove potrebbe stanziare comodamente il proprio esercito, rendersi alleate quelle città sottomesse a Roma da poco tempo e, all’occorrenza, mettersi facilmente in comunicazione con Cartagine; eppure anche qui la «messe» è scarsa, non si muovono le città del Piceno e della Puglia, e neppure i Sanniti. Ridotti comunque in condizioni difficili, i Romani eleggono un dittatore, Quinto Fabio Massimo. Questi comprende l’impossibilità di sconfiggere Annibale in campo aperto e decide di adottare una tattica «temporeggiatrice», evitando le grandi battaglie e logorando il nemico con un continuo stillicidio di piccoli attacchi e imboscate a singoli reparti isolati, facendogli attorno terra bruciata per impedirgli l’approvvigionamento: per questo passerà alla Storia con il soprannome di «Cunctator» («il Temporeggiatore»).

La sua è una tattica saggia, ma ben presto stanca i Romani desiderosi di combattere apertamente il nemico e ottenere una grande e decisiva vittoria, anche per non mettere a dura prova la fedeltà degli alleati italici, esposti alle devastazioni e ai saccheggi dei Cartaginesi a corto di rifornimenti. Così il 2 agosto dell’anno 216 avanti Cristo, nella piana di Canne, in Puglia, viene combattuta la più grande battaglia mai svoltasi fino ad allora.

Come al solito l’esercito romano è affidato ai due consoli, Lucio Emilio Paolo e Caio Terenzio Varrone, che comandano un giorno ciascuno. Dei due, il secondo è il più impaziente di dare battaglia, e quel giorno il comando tocca a lui.

Varrone dispone di circa 80.000 uomini: ha distribuito la sua fanteria al centro, in uno schieramento profondo e compatto, al comando del proconsole Servilio. Lui e Paolo hanno preso il comando della cavalleria e si sono posti ai lati.

Annibale non ha neppure 40.000 uomini, ma il suo genio strategico gli vale per quanti mancano. Dispone i suoi pochi uomini su una fila più lunga e più sottile di quella romana. Ha delle truppe di cui si fida poco: mercenari galli e iberici, preoccupati soprattutto di salvare la pelle; li ha messi proprio al centro del suo schieramento, disposti a cuneo, verso il nemico. Ai lati di questi, mette le sue truppe scelte, gli uomini venuti con lui dall’Africa; a prova del loro valore, indossano quasi tutti armature romane, che hanno tolto ai nemici uccisi alla Trebbia e al Trasimeno. La cavalleria – numericamente superiore a quella romana e meglio addestrata – è disposta più all’esterno, e più numerosa da una parte che dall’altra, il che gli permetterà di essere di molto superiore prima su un’ala, poi sull’altra. Ancora una volta, sarà la cavalleria l’arma risolutiva del condottiero cartaginese.

La battaglia inizia con l’attacco della fanteria romana contro i mercenari galli; questi, come Annibale ha previsto, cominciano a ritirarsi. Nel frattempo, il nucleo più forte della cavalleria cartaginese batte quella romana che gli sta di fronte e la volge in fuga, dopodiché si sposta rapidamente all’altra ala per recare aiuto al nucleo più debole.

Le truppe romane continuano a incalzare i mercenari nemici, che si ritirano formando in una sacca a forma di imbuto, mentre ai lati le migliori truppe cartaginesi rimangono ferme. A questo punto, si muovono e attaccano i Romani su tre lati. Grazie alla loro superiorità numerica, i legionari possono ancora resistere. Ma i cavalieri punici, liquidati quelli romani, piombano alle spalle dei fanti completando l’accerchiamento e impedendo ogni possibilità di manovra, rendendo inevitabile la disfatta. Il fior fiore della gioventù romana, i figli dei senatori, i discendenti delle antiche famiglie patrizie si stringono intorno al console Paolo, rimasto ferito. Combattono con l’eroismo della disperazione, e cadono tutti l’uno sull’altro: il console, due proconsoli, due questori, 29 tribuni, 80 senatori, oltre 40.000 tra fanti e cavalieri; 10.000 uomini vengono fatti prigionieri. Annibale non ha perso che 6.000-8.000 uomini. È la prima volta che viene usata la cosiddetta «manovra a tenaglia», che diventerà in futuro una tattica fondamentale in molte battaglie – per esempio, sarà usata nella Prima Guerra Mondiale dal Maresciallo Tedesco Hindenburg per sconfiggere con le sue scarse truppe la Seconda Armata Russa ai Laghi Masuri e, nella Seconda Guerra Mondiale, dal Generale Sovietico Zukov per salvare Mosca dall’attacco tedesco. Roma è sotto scacco.

Dopo una così schiacciante vittoria, il Generale Cartaginese offre ai Romani la possibilità di trattare la resa. Ci si è chiesti perché una simile proposta proprio all’apice del suo successo, quando ormai sembra inarrestabile. «Gli dèi non accordano tutti i loro doni a un solo uomo» lo rimprovera Maarbale, il comandante della cavalleria; «tu sai conquistare le vittorie, Annibale, ma non sai sfruttarle». Non è vero, la strategia di Annibale è intelligente. Probabilmente, fin dall’inizio la sua idea non è stata di distruggere Roma, ma di azzerarne per sempre la potenza, di ridimensionarla in modo definitivo. Non ha abbastanza soldati per occupare e presidiare le città d’Italia rimaste fedeli all’Urbe, né per prendere d’assalto una città protetta da mura di pietra larghe e resistenti, neppure per cingerla d’assedio. Nell’Urbe ci sono due legioni, intatte, che non si sono mosse di lì dopo il disastro di Canne. Il console Varrone è stato salutato con gioia, perché rientrando in città ha mostrato di non dubitare della patria... e questa è un’altra prova della tempra con cui sono stati forgiati questi antichi Romani. Il Senato capisce tutto questo e rifiuta sdegnosamente la proposta di pace, tornando alla tattica di temporeggiare: per sconfiggere il nemico è sufficiente aver pazienza e impedirgli di ricevere rinforzi; la mancanza di aiuti e la lontananza dalla sua patria lo logorerebbero in modo continuo e inesorabile.

La vittoria di Annibale a Canne fa comunque pendere decisamente la bilancia dalla sua parte: molte delle città del Meridione che prima gli avevano chiuso le porte, ora gli mandano profferte di pace. Tutto ciò che è a Sud di Teramo passa ai Cartaginesi. Annibale decide di portare i suoi uomini a svernare a Capua (l’odierna Santa Maria Capua Vetere), città mercantile, di commerci e di industrie fiorenti, prospera e ricca, simile nell’animo a Cartagine ma più raffinata per i transiti delle grandi civiltà, l’etrusca e la greca, che da molte generazioni hanno toccato i suoi traffici; per importanza di popolazione e per livello economico è la seconda città d’Italia, ricca di templi, con due grandi fori sempre affollati, due teatri, un circo, gli stabilimenti delle terme, e tutt’attorno una campagna rigogliosa popolata di vigne, di gelsi, di ulivi. Le donne sono di una bellezza proverbiale, di forme robuste ma dai lineamenti sereni, e con un senso di dolcezza quasi materna. Annibale promette di fare di Capua la nuova capitale d’Italia, e questo solletica le antiche aspirazioni dei suoi abitanti; molti ufficiali cartaginesi trovano alloggio nelle case cittadine, si abbandonano ai piaceri e ai diletti che offre una grande città per tutto l’autunno, l’inverno e la primavera nascente. Gli «ozi di Capua» divengono proverbiali, secondo Livio e altri storici antichi sono essi a rammollire i Cartaginesi rendendoli incapaci di sconfiggere ancora i Romani: «Il sonno e il vino, le bevande delicate, le meretrici e l’ozio avevano indebolito e resi effeminati i corpi e gli animi dei Cartaginesi, non altrimenti che se fossero stati reclute novelle». La descrizione può essere un tantino esagerata, ma nella sostanza è in parte veritiera.

I Romani approfittano di questa pausa per passare all’attacco. Nel 212 avanti Cristo il console Claudio Marcello espugna e mette a sacco Siracusa, che si è schierata dalla parte del nemico, poi fa lo stesso con Taranto e Capua. L’intera Sicilia, che si è ribellata, torna in mano a Roma. Si scontra anche con Annibale, ottiene parziali successi che gli valgono il titolo di «Spada di Roma», mentre il Temporeggiatore ne è lo «Scudo». Muore in un’imboscata, ma Annibale vede ridursi man mano il suo spazio di manovra in terra italiana.

Nella primavera dell’anno successivo, in una notte di tempesta, il Generale Cartaginese si spinge in vista di Roma. È difficile capire quali siano i sentimenti che lo agitano vedendo finalmente la sua grande nemica, così vicina e così inespugnabile – sconfitta più volte, ma non ancora domata. Porta il suo cavallo fin sotto le mura, e in segno supremo di sfida lancia un giavellotto oltre la cinta, prima di allontanarsi al galoppo. Non si avvicinerà mai più. Il Senato si spaventa così poco di questa sua presenza che, per mostrare la propria sicurezza, mette in vendita all’asta il territorio sul quale Annibale ha posto il suo accampamento: il terreno viene aggiudicato allo stesso prezzo che se fosse libero!


...e la controffensiva romana

Busto di Publio Cornelio Scipione

Busto di Publio Cornelio Scipione, metà del I secolo avanti Cristo, Museo Archeologico Nazionale, Napoli (Italia)

Intanto, in Spagna la situazione evolve in modo rapido e inaspettato. Il possesso della regione è importantissimo per ambedue le rivali perché di lì potrebbero partire i rinforzi che Annibale va invocando con sempre più insistenza, e che suo fratello Asdrubale sta radunando. Questi si scontra con Publio Cornelio Scipione e Gneo Cornelio, li sconfigge e li uccide. Non passano che due anni, e si trova a dover fronteggiare un Generale di «razza», Publio Cornelio Scipione il Giovane, figlio dell’uomo da lui ucciso (quello che già aveva salvato il padre sul Ticino). È stato eletto edile curule nel 213, conosce la politica e quando gli viene affidato il comando dell’esercito in Spagna dimostra di avere anche un notevole ingegno militare; è un sincero ammiratore di Annibale, che si sforza di imitare in tutto, persino nei piccoli gesti, negli atteggiamenti quotidiani, nei movimenti del corpo. Nel 209 avanti Cristo mette in atto un piano audace, al limite della temerarietà: impossessarsi di Cartagena, che i Punici ritengono inespugnabile perché difesa su un lato da possenti bastioni, e dagli altri tre lati dal mare. La guarnigione è di soli 1.000 uomini, perché il grosso dell’esercito cartaginese, sicuro della saldezza delle difese cittadine e della scarsa efficienza dei Romani che non hanno modo di smantellarle o scavalcarle e neppure di bloccare il porto, è accampato lontano, a svernare sulle rive del Tago. Scipione ricorre a uno stratagemma: apprende dai pescatori del luogo il «sistema» delle maree, e arringa i suoi soldati facendo credere loro che, sul far del mattino, gli dèi abbasseranno il livello del mare permettendo di passare sull’asciutto. Da dei contadini, quali sono i legionari romani, un simile evento sarebbe visto come un prodigio divino.

Il giorno seguente, grazie a un forte vento e a una marea di proporzioni eccezionali, 500 legionari guidati da Scipione si avvicinano alla città dalla parte del mare, scalano le mura in un punto non presidiato e sciamano all’interno. In poco tempo, le strade della città di riempiono di cadaveri di uomini e di cani, orrendamente mutilati per accrescere il terrore del nemico. 10.000 Cartaginesi, sui 40.000 che risiedevano in città, sono fatti prigionieri; a coloro che lavorano nell’arsenale viene promessa la libertà alla fine della guerra; i figli delle tribù iberiche, che erano tenuti in ostaggio, vengono rimandati ai loro genitori con ricchi doni. Nell’Urbe, la vittoria viene accolta con grande gioia, e il Senato prolunga il comando della Spagna al giovane Publio Scipione. In quattro anni, tutta la regione passa dalla parte di Roma.

Asdrubale è però riuscito a sgusciare tra le maglie troppo larghe delle truppe romane con un esercito di 60.000 uomini. Si porta in Italia rapidamente e senza subire perdite, tentando di ricongiungersi col fratello. Il console Claudio Nerone ricorre a un astuto stratagemma, lascia una parte delle sue forze davanti ad Annibale, corre decisamente incontro ad Asdrubale riunendosi al suo collega (a avversario politico) Marco Livio Salinatore e insieme sorprendono i Cartaginesi nei pressi del fiume Metauro. I nemici sono attaccati di fronte e al fianco, con una manovra tipicamente «annibalica»; Asdrubale viene ucciso e il suo esercito annientato. La testa del fratello di Annibale, spiccata dal corpo, sarà gettata nel campo di lui, che non si era accorto di nulla.

Annibale vede svanire ormai ogni speranza di vittoria, e di ricevere aiuti. Con le poche truppe che gli sono rimaste si ritira nell’estrema punta della Penisola, in Calabria, pensando di passare in Sicilia per eccitare alla rivolta contro Roma le città dell’isola.

Ma Roma passa all’offensiva. Viene approntato un nuovo esercito e affidato a Publio Cornelio Scipione il Giovane, reduce dalla vittoria spagnola: 25.000 uomini, su 40 navi da guerra e 400 da carico salpano da Lilibeo e fanno vela verso la costa africana. Il Senato era in realtà contrario a un simile progetto, con Annibale ancora in Italia, ma ha dovuto cedere di fronte alle insistenti richieste del popolo che vedeva in Scipione l’unico che potesse garantire la vittoria. Già si va dicendo che egli non sia figlio di suo padre, ma di uno degli dèi immortali. Gli eserciti punici in Africa vengono sconfitti uno dopo l’altro. Per parare la crescente minaccia, il Governo Cartaginese richiama subito in patria Annibale: lo scopo principale dei Romani, quello di allontanare Annibale dalla Penisola, è raggiunto.

Itinerario di Annibale

L'itinerario della campagna di Annibale con le principali battaglie

Lo scontro finale avviene a Zama, o più precisamente a Naraggara, nella regione desertica 120 chilometri a Sud-Ovest di Cartagine. La battaglia è preceduta da un colloquio tra i due comandanti. È un colloquio cordiale. Tra le altre cose, quando Scipione chiede ad Annibale a chi crede che spetti il primato tra i più grandi capitani della Storia, questi risponde: «Ad Alessandro il Grande, il quale con 30.000 uomini aveva conquistato l’Asia e l’Egitto».

«E quale Generale metteresti in second’ordine?».

«Pirro» replica Annibale.

«E a chi daresti il terzo grado?».

«A me stesso».

Prosegue Scipione sorridendo: «Che diresti tu dunque, se mi vincessi?».

«Allora io mi reputerei superiore ad Alessandro e a tutti i Generali del mondo».

Nonostante i toni pacati, il colloquio mette in luce l’impossibilità di accordo, e i due si separano per dare la parola alle armi. Lo scontro avviene il mattino successivo. Annibale ha disposto le sue forze nel migliore dei modi, con la più grande accortezza e genialità: davanti gli elefanti, per scompaginare le prime file dei legionari, poi i mercenari galli, come «carne da macello», per impegnare le fanterie, e dietro le truppe veterane che lo hanno seguito dall’Italia, per dare il colpo definitivo. I suoi effettivi di fanteria sono il doppio di quelli del nemico. Difetta però di cavalieri, perché Massinissa è passato dalla parte dei Romani con tutti i suoi: ordina perciò alla sua cavalleria di allontanarsi dal campo di battaglia dopo una iniziale resistenza, trascinandosi dietro quella nemica finché lui non avesse vinto la battaglia delle fanterie.

Gli elefanti da guerra caertaginesi caricano la fenteria romana

Henri-Paul Motte, Gli elefanti da guerra cartaginesi caricano la fanteria romana alla battaglia di Zama, circa 1890

Scipione non è da meno. Invece di disporre i suoi uomini in una massa compatta, come in passato, fa in modo che tra le loro schiere vi siano degli ampi «corridoi»: quando gli elefanti partono alla carica, riempiendo l’aria dei loro barriti, vengono sospinti in questi corridoi e colpiti alle spalle e ai fianchi, sguarniti. Poi i legionari si lanciano all’attacco dei Galli, li sbaragliano e li costringono alla fuga. Scipione blocca l’assalto, lascia che i suoi uomini si riposino prima di ordinare l’attacco ai veterani cartaginesi. Quando più ferve la battaglia, alle spalle delle truppe di Annibale spuntano i cavalieri numidi di Massinissa e quelli romani di Lelio, che hanno sconfitto la cavalleria punica e sono tornati precipitosamente indietro per dare il colpo di grazia alla fanteria. Una manovra di aggiramento in perfetto stile «annibalico». Oltre 20.000 Cartaginesi rimangono uccisi sul campo, un numero eguale è ferito e catturato; Scipione ha avuto circa 1.200 morti. L’esercito di Annibale non esiste più. Il Generale Punico è rimasto vittima del suo stesso genio, è stato sconfitto da se stesso. Scacco matto.

Il condottiero cartaginese non viene fatto prigioniero. Riesce a fuggire, si reca a Cartagine, ammette che ha perso non una battaglia, ma la guerra, e consiglia di accettare tutte le condizioni che vorranno porre i Romani (e che, dopo tutto, non saranno particolarmente dure: rinuncia a tutta la flotta da guerra tranne 10 triremi, rinuncia agli elefanti ammaestrati, creazione di una Numidia indipendente retta da Massinissa, consegna di 100 ostaggi, pagamento di un’indennità di guerra, divieto di fare guerre fuori dall’Africa e di farne in Africa solo col permesso di Roma – quest’ultima la clausola peggiore –).

Si dice che Roma abbia vinto la guerra per la sua incrollabile tenacia e per il suo valore. In parte è vero. Ma non bisogna dimenticare che Annibale, oltre ai Romani, ebbe altri due nemici: la classe oligarchica e mercantile cartaginese, e gli alleati italici. Cartagine era retta da un’assemblea di ricchi mercanti assistiti da magistrati appartenenti alla nobiltà: questi detentori del potere assoluto vedevano un nemico in ogni uomo che potesse conquistarsi le simpatie del popolo. Non desideravano che Annibale ottenesse una vittoria troppo schiacciante, perché se così fosse avvenuto, al suo ritorno a Cartagine, il popolo – pieno di entusiasmo, di ammirazione e di giusta riconoscenza – avrebbe potuto acclamarlo capo della città, e loro avrebbero perso il potere da cui traevano tanti vantaggi. Perciò centellinarono ad Annibale, nei lunghi anni della sua permanenza in Italia, l’appoggio e gli aiuti necessari, senza considerare che in tal modo scavavano la fossa per sé e per la loro città. Del resto, la flotta romana fu sempre padrona del mare, anche nei momenti più cupi del conflitto, e spesso catturò o affondò i navigli, pur scarsi, che partivano da Cartagine per rifornire le truppe di Annibale. Dall’altra parte, Annibale volle porsi nei confronti degli Italici come un «liberatore», confidando nel tradizionale anelito alla libertà delle città di origine greca, che però – come era già avvenuto ai tempi di Pirro – gli lesinarono gli aiuti. Insomma, Annibale fu vinto, oltre che dai Romani, soprattutto dal suo Governo e da quelli che avrebbero dovuto essere i suoi alleati.

Terminata la guerra, Annibale tenta di risollevare Cartagine dalle conseguenze della sconfitta: eletto alle più alte cariche dello Stato, si mette a combattere la corruzione della classe dirigente, principale colpevole della disfatta. Organizza un colpo di Stato, sostituisce il gruppo di uomini al potere con un Governo «democratico» a larga base popolare. Per anni esercita un comando praticamente illimitato, in modo saggio e rigoroso: riordina le finanze della città, fa riscuotere le imposte arretrate o evase, istituisce organi di controllo sugli affari. Si scaglia contro i costumi politici corrotti, contro i profitti illeciti, contro gli scandali coperti da una catena di protezioni e omertà, contro gli oligarchi che avevano detenuto il potere: e questi decidono di vendicarsi denunciandolo a Roma, insinuando che voglia riprendere la guerra, di cui – sostengono – è stato l’unico responsabile.

Per evitare di essere consegnato nelle mani del nemico, Annibale si rifugia da Antioco, Re di Siria, il più potente Sovrano Ellenistico del tempo. Questi, che ha sconfitto gli Indiani e reso tributari gli Arabi, si lascia persuadere da lui alla guerra. Gli mostra le sue ingenti schiere, i fanti e i cavalieri, gli arcieri, gli elefanti da guerra e i carri falcati, chiedendogli ironico: «Di’, questi basteranno ai Romani?»; Annibale valuta i pachidermi addobbati con testiere e pennacchi, i cavalieri catafratti ricoperti da capo a piedi – come i loro cavalli – da corazze lamellari di metallo con ritagli di cuoio, la coorte regia degli argiraspidi con gli scudi d’argento e poi ribatte, altrettanto ironico: «La loro fame di ricchezze è insaziabile; ma questi a loro basteranno». L’uno si è riferito alla presunta forza delle truppe, l’altro ne ha valutato l’ostentazione della ricchezza. La battaglia campale decisiva si svolge a Magnesia: la maggior compattezza delle legioni ha facilmente ragione di un esercito numericamente superiore ma troppo eterogeneo, e Annibale è costretto a riprendere la fuga. Si ferma a Creta, passa in Armenia, poi trova ospitalità presso Prusia di Bitinia, un Re di modesta levatura politica e di poco coraggio. Ne riorganizza la flotta, la conduce in battaglia contro Pergamo, alleata di Roma, e vince con un astuto stratagemma, lanciando sulla tolda delle navi nemiche vasi di terracotta che, rompendosi, fanno uscire vipere vive, che gettano nel panico i Pergameni. Roma invia ambasciatori a Prusia e questi, intimorito, non fa nulla per impedire la cattura del suo ospite. Quando Annibale viene a sapere che uomini armati hanno circondato il suo rifugio, e che ogni via di fuga gli è preclusa, solleva il castone dell’anello dentro il quale conserva un veleno ricavato da infusi di erbe letali. Lo beve fino all’ultima goccia, mormorando: «Ridiamo la tranquillità ai Romani, visto che non hanno la pazienza di aspettare la fine di un vecchio come me». La morte arriva rapida. È l’anno 183 avanti Cristo; Annibale ha 64 anni.

La sorte non è stata troppo clemente neppure contro il suo avversario e ammiratore, Publio Cornelio Scipione il Giovane, che dopo la vittoria di Zama può fregiarsi del soprannome di «Africano»: dirige la guerra in Oriente contro Antioco di Siria, sconfiggendolo e riuscendo a imporre la tutela di Roma alle popolazioni di Siria e di Grecia. Purtroppo viene accusato da molti nobili e dal Senato, invidiosi e timorosi della sua popolarità, di essersi appropriato di denaro tolto ai nemici. Amareggiato contro i suoi stessi concittadini, lascia Roma e si ritira in una villa presso Literno, in Campania. Lì muore nel 183 avanti Cristo, a soli 52 anni, pochi mesi dopo Annibale.


Nota

1 Il cognome «Scipio» era proprio di un ramo della nobile «gens» Cornelia, ed era apparso per la prima volta nel IV secolo avanti Cristo. Molti dei suoi numerosi rappresentanti hanno ricoperto alte cariche politiche e militari: il più famoso è stato Publio Cornelio Scipione il Giovane, detto l’«Africano», che ha sconfitto Annibale; grandi onori sono stati tributati anche a Publio Cornelio Scipione detto l’«Emiliano» (o l’«Africano Minore», per distinguerlo dal primo), che ha raso definitivamente al suolo Cartagine (146 avanti Cristo). Grazie a loro iniziò il periodo detto dell’«imperialismo romano». Erano anche persone colte, e il cosiddetto «circolo degli Scipioni» era un vivace «salotto» culturale e letterario, amante della grande cultura greca e aperto alle nuove idee. La famiglia degli Scipioni, coi suoi rami, decadde verso la fine della Repubblica e pare che si sia estinta totalmente all’inizio dell’Impero.

(febbraio 2020)

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