Schiavi contro Roma
Le tre guerre servili (136-71 avanti Cristo) e l’epopea di Spartaco

Nella storia dell’uomo, la schiavitù ha esercitato un ruolo costante dagli albori della civiltà al movimento abolizionista dell’Ottocento non senza proiezioni residue fino ai nostri giorni, e ha lasciato una lunghissima scia di straordinarie sofferenze umane, assieme a frequenti interrogativi sulla sua liceità etica e politica, per non dire dei tentativi di affrancamento da parte delle vittime, che secondo la pertinente definizione di Aristotele appartenevano a una proprietà del «dominus» diversa da tutte le altre per una sola ragione molto semplice: anche gli schiavi hanno un’anima.

Potremmo tranquillamente aggiungere che oltre all’anima avevano una mente e un cuore: proprio per questo, ebbero coscienza di una condizione disumana, di solito in maniera necessariamente approssimativa e forse primordiale, ma in taluni casi non disgiunta dalla volontà di impegnarsi per una problematica redenzione – volontà che divenne più forte con l’avvento del messaggio cristiano ma che aveva fatto registrare anticipazioni piuttosto significative anche in epoche precedenti.

In questo senso, la storia di Roma assume momenti di straordinaria rilevanza con le sollevazioni degli schiavi che ebbero luogo nello scorcio finale del secondo secolo avanti Cristo e nei decenni iniziali del primo, quando fu necessario ricorrere alle armi per domare quelle rivolte, nell’ambito delle tre guerre servili combattute durante il sessantennio iniziato nel 136 e concluso nel 71. Le cause furono sostanzialmente analoghe, e possono essere sintetizzate nella consapevolezza di una condizione disperata e irreversibile, idonea a innescare reazioni tanto più forti, in quanto gli schiavi non avevano alcunché da perdere all’infuori di una vita senza prospettive, fatta di vessazioni e violenze quotidiane. Si deve aggiungere che costituivano una moltitudine enorme, riveniente dalle vittorie militari di Roma e dalla cattura dei prigionieri destinati a diventare merce di scambi e di compravendite, su cui il «dominus» aveva potere incondizionato: bastava un nonnulla per dare luogo a punizioni terribili.

La prima guerra servile (136-132) si protrasse per un quinquennio, coinvolgendo vaste plaghe della Sicilia a cominciare da Enna per espandersi in tutto il territorio dell’isola, anche perché a Roma si era confidato di poter risolvere la questione con un impegno relativamente circoscritto, mentre le forze servili al comando del Siriaco Euno che giunse al punto di farsi incoronare col nome di Re Antioco, unitamente a quelle di Cleone che guidava la rivolta di Agrigento, avevano mobilitato almeno 30.000 uomini. Alla fine, per vincere la resistenza degli schiavi, segnatamente a Messina, Catania e Taormina, dove la resistenza ebbe maggior vigore, furono necessari gli interventi di Lucio Calpurnio Pisone e soprattutto di Publio Rutilio, che si conclusero con la morte di circa 20.000 ribelli, la maggior parte dei quali vennero trucidati dopo la caduta della stessa Messina, con largo ricorso alle crocifissioni, e dopo l’ultima resistenza di Enna (unica città – assieme a Sandanski per Spartaco – ad avere onorato un comandante servile con apposito monumento).

Non meno sanguinoso fu il secondo conflitto servile (104-100) che ebbe luogo sempre in Sicilia, a opera di 6.000 uomini al seguito di Salvio, un condottiero con fama di indovino, e di altri 10.000 guidati da Atenione di Cilicia, poi uniti in un solo gruppo. Nella prima fase, l’impegno di Roma fu condizionato dalla concomitanza di quelli contestuali contro Cimbri e Teutoni sul fronte settentrionale, e contro Giugurta su quello africano; poi, coi consoli Lucio Licinio Lucullo e Marco Aquilio vennero messe in campo forze preponderanti che ebbero ragione degli schiavi anche se le schiere ribelli si erano ulteriormente ampliate. Almeno 20.000 vennero uccisi mentre gli altri, secondo la testimonianza di Diodoro Siculo, furono condotti a Roma dove scomparvero per mano reciproca nei truci spettacoli dell’arena.

Maggiore impatto politico e militare, e maggiore risonanza storica, ebbe la terza e ultima guerra servile (73-71) di cui fu protagonista Spartaco, catturato in Tracia[1] e tradotto a Capua nella terribile scuola di gladiatori condotta da Cornelio Letulo Vazia, dove si addestravano centinaia di prigionieri destinati ai combattimenti del circo. Quello di Spartaco fu un tentativo reso più forte dall’essere stato iniziato proprio dai gladiatori, che avevano una preparazione fisica e militare di qualche rilievo, e soprattutto una maggiore consapevolezza delle proprie possibilità, tanto da aggregare schiere crescenti di schiavi e di contadini liberi ma miserabili.

Dopo la prima aggregazione in area vesuviana e la prima grande vittoria in territorio di Pompei, l’esercito spartachista giunse a disporre di circa 40.000 uomini, con incursioni ben riuscite su Metaponto, Thurium e altre località della zona; ancora una volta, con iniziali sottovalutazioni da parte romana, parzialmente superate con l’invio di milizie più consistenti.

La strategia di opposizione a Spartaco ebbe un primo successo con la scelta strategica di costringere le sue forze a ritirarsi in Calabria accerchiandole con una serie di fortificazioni e profondi fossati trasversali da una costa all’altra. Non avendo mezzi per passare in Sicilia, anche per il tradimento di chi avrebbe dovuto fornirli, gli schiavi attaccarono con successo la linea nemica ma con perdite notevoli, trovando ulteriori difficoltà nel disaccordo fra lo stesso Spartaco e Crisso, uno dei suoi uomini più in vista: il primo intendeva marciare verso Nord nel difficile tentativo di raggiungere le terre d’origine dei suoi uomini, quali la Gallia e la sua stessa Tracia, mentre il secondo propendeva per un’azione a medio raggio diretta a proseguire la tattica delle incursioni che non ebbe successo perché venne sconfitto e ucciso da Lucio Gellio nella battaglia del Gargano. Al contrario, Spartaco decise di confermare l’opzione di muovere verso il Settentrione: aveva ancora 30.000 uomini, con cui ebbe ragione delle forze romane, dapprima in agro di Pistoia e poi presso Modena, dove prevalse nella dura battaglia contro Caio Longino, sbaragliando il nemico.

A quel punto, invece di proseguire come da programma, ritenne opportuno cambiarlo e ripiegare verso Sud, probabilmente per la difficoltà di passare le Alpi resa più ardua dalla stagione avversa, non disgiunta dalla necessità impellente di garantire approvvigionamenti meno difficili alle sue dipendenze militari e civili. Una tesi più ardita ma da non potersi escludere a priori è ravvisabile nella presunzione di Spartaco, galvanizzato dalla vittoria contro il console romano, di poter affrontare le legioni con buone probabilità di ulteriori successi[2].

Da stratega di viva esperienza, Spartaco tenne ancora in scacco l’avversario che sconfisse, sebbene in maniera non decisiva, nel Piceno e in Lucania, ma alla fine non ebbe modo di sottrarsi allo scontro della verità contro l’esercito certamente più fresco di Marco Licinio Crasso e dei suoi 45.000 uomini che Roma aveva inviato contro gli schiavi, assurti al ruolo di nemico non meno pericoloso di quelli esterni.

Al pari degli schiavi, lo stesso Crasso, che sarebbe passato alla storia quale massimo rivale di Pompeo, non disdegnava le maniere forti se non anche terroristiche pur di farsi ubbidire dai suoi: basti pensare all’adozione indiscriminata della «decimatio» che nell’occasione impose la morte di 4.000 uomini tramite bastonate, a fronte dell’accusa di codardia davanti al nemico: prassi tanto più sconcertante in quanto scontava una decurtazione importante degli effettivi senza alcuna garanzia di poterli sostituire nel breve termine con adeguati rinforzi.

La battaglia risolutiva ebbe luogo nell’Alta Valle del Sele dove Spartaco cadde combattendo valorosamente[3] mentre 6.000 schiavi furono crocifissi lungo la Via Appia fra Capua e Roma: un provvedimento analogo a quello assunto per Messina alla fine della prima guerra servile ma destinato a restare nella memoria collettiva in modo ancora più indelebile, e a placare per sempre ogni eventuale velleità di rivalsa[4].

Non a caso, nello scorcio conclusivo dell’età repubblicana e nella lunga stagione imperiale le rivolte servili sarebbero rimaste un ricordo sempre più sfumato salvo essere sostituite da quelle militari, promosse nei confronti di un potere centrale in via di lento e progressivo disfacimento; ma questa è un’altra storia, conclusa nel 476 con la caduta di Romolo Augustolo, l’ultimo Imperatore.

La vicenda delle guerre servili non ha fruito di soverchie attenzioni in sede storiografica: tutto sommato, diversamente dalle grandi imprese della Roma repubblicana e poi di quella imperiale, non ha glorie specifiche da evidenziare. Anzi, le difficoltà incontrate per risolvere la questione militare con avversari scarsamente organizzati, e non certo in grado di competere ad armi e risorse pari, hanno tolto a quei conflitti ogni possibile aureola celebrativa riducendoli, caso mai, a un simulacro di guerra civile.

Eppure, se viste in un’ottica oggettiva e quindi equidistante, quelle guerre attestano che la vittoria di Roma non fu mai facile, a fronte di ben nove sconfitte sul campo, e che fu necessario porre rimedio a quelle pagine non certo gloriose facendo ricorso a un ampio dispendio di energie, in primo luogo sul piano umano.

Dal canto loro, gli schiavi dimostrarono coi fatti quanto possa valere la forza della disperazione, fino al punto da rovesciare le sorti di battaglie che sulla carta erano perdute in partenza: del resto, la storia abbonda di casi analoghi, come attesta quello emblematico di Valmy, dove gli «straccioni» della Rivoluzione Francese ebbero la meglio sulla grande coalizione del legittimismo europeo. In effetti, sia nell’evo antico che in tempi meno lontani il valore umano di comandanti e combattenti ebbe un ruolo spesso decisivo, che oggi è pressoché scomparso a favore della tecnica e della sofisticazione delle armi.

Ciò spiega l’atteggiamento prudentemente riservato degli storici latini, sia pure con alcune eccezioni come quella di Diodoro Siculo che d’altra parte scriveva molto più tardi. Ad esempio, si cercherebbe invano in Tito Livio la retorica celebrativa di uomini come Giulio Cesare o di altri massimi demiurghi del mito di Roma, applicata alle non facili vittorie delle guerre servili, per non dire di qualche simpatia spartachista che finisce per comparire sia pure controluce in pagine di Sallustio o dello stesso Cicerone.

Non troppo paradossalmente, gli schiavi ebbero maggior fortuna in tempi moderni, quando Spartaco e i suoi uomini vennero esaltati da Carlo Marx quali proletari dell’antichità che avevano anticipato di quasi due millenni la lotta di classe, per non dire della «Lega spartachista» promossa nelle esperienze di Rosa Luxembourg e di Karl Liebknecht; o in tempi ancora più vicini, del «kolossal» cinematografico che nel 1960 il regista americano Stanley Kubrick avrebbe dedicato a Spartaco, interpretato da Kirk Douglas, con Lawrence Olivier nel ruolo di Crasso[5].

In Italia, a parte la tragedia che Alessandro Manzoni avrebbe voluto dedicare a Spartaco ma rimase allo stadio progettuale, e quella di Ippolito Nievo con esiti appena migliori, il contributo più importante alla letteratura e alla storiografia nella materia in riferimento resta quello di Giuseppe De Felice Giuffrida (Le guerre servili in Sicilia: storia dei vinti, Edizioni Giannotta, Catania 1911, 132 pagine) che d’altra parte risente in maniera ovvia delle pregiudiziali politiche di una Sinistra battagliera come quella del primo socialismo a cui appartenne l’Autore, parlamentare di otto legislature nonché sindaco di Catania, parimenti propenso a ravvisare nei capi delle prime rivolte e nello stesso Spartaco i progenitori delle moderne lotte proletarie, a onta delle ben diverse condizioni, innanzi tutto giuridiche, in cui costoro avevano operato (nella società romana la schiavitù era istituzionalizzata e accettata universalmente).

Rispetto alle altre, la terza guerra servile fruisce ancor oggi di maggiori attenzioni: le prime due coinvolsero soltanto la Sicilia, mentre l’ultima ebbe per teatro l’intera penisola italiana, sottolineando l’ampiezza territoriale che la questione degli schiavi aveva finito per assumere diventando una mina vagante anche per una grande potenza come quella di Roma. C’è di più: non meno ragguardevole anche a lungo termine fu l’importanza assunta dalla figura di Spartaco, vero condottiero dotato di carisma e di capacità organizzative e strategiche difficilmente eguagliabili, a più forte ragione in un’armata di schiavi o di nullatenenti come i contadini destinati a languire nei campi dei latifondisti.

Non a caso, diversamente da Euno e dagli altri capi delle prime guerre servili, Spartaco seppe posporre il proprio interesse personale a quello della causa comune: ben lungi dall’idea di cingere una paradossale corona «monarchica» sull’esempio dello stesso Eulo e di Atenione, fu una sorta di «primus inter pares» la cui autorità era generalmente riconosciuta anche da parte di coloro che, come Crisso, non accettarono le opzioni strategiche del comandante preferendo dissociarsi di comune intesa e andare incontro alla sconfitta totale.

Alla fine i nodi vennero al pettine, ma solo quando Roma decise di opporre a Spartaco un esercito di maggiore consistenza e di mezzi adeguati a una grande campagna bellica. In effetti, la cronaca delle guerre servili suscita l’impressione che a Roma siano state considerate per parecchio tempo alla stregua di quella che oggi si definirebbe un’operazione di polizia; con una differenza decisiva per il disinteresse in ordine alle vittime, maggioritarie per gli schiavi ma rilevanti anche per Roma.

L’assunto è valido in modo particolare per il terzo conflitto servile, in cui il fronte spartachista si trovò a essere notevolmente ampliato dall’apporto dei contadini che non erano schiavi «stricto sensu» ma vivevano in condizioni di assoluta indigenza, e nello stesso tempo di pieno subordine a un regime fiscale che risulta eufemistico definire vessatorio.

Al giorno d’oggi, ogni confronto appare sostanzialmente irrealistico se non anche azzardato, e in ogni caso appartiene alle suggestioni della storia e agli esercizi della storiografia. Questa considerazione è riferibile a qualsiasi accostamento critico, fino a quello con l’ultima guerra civile in difesa della schiavitù giuridicamente riconosciuta, vale a dire con il conflitto che vide la Confederazione degli Stati Meridionali scendere in armi contro quelli abolizionisti dell’America Settentrionale di Abramo Lincoln, durante gli anni Sessanta dell’Ottocento.

Altre lotte di matrice non solo economica hanno preso il sopravvento, in specie durante il «secolo breve» allorché diedero luogo a una serie di genocidi allucinanti, ma ciò non significa che le guerre servili romane possano essere archiviate, e infine dimenticate: anche attraverso le tante vittime indiscriminate, e le atroci sofferenze che comportarono, costituiscono la permanente dimostrazione di un impegno umano volto, nonostante condizioni praticamente impossibili, alla ricerca di una vita più accettabile, o quanto meno alla protesta contro un sistema politico apparso arcaico e vessatorio ancor prima della grande rivoluzione cristiana.


Note

1 Spartaco (Sandanski 109 avanti Cristo-Alta Valle del Sele 71 avanti Cristo) apparteneva a una nobile famiglia trace dell’attuale Bulgaria, ed era coniugato con una sacerdotessa: secondo la tradizione più attendibile sarebbe stato arruolato nell’esercito romano ma avrebbe finito per disertare, perché contrariato dal sistema vessatorio che vi era praticato, mentre un’altra tesi attribuisce la diserzione all’essersi schierato col nemico. Catturato durante la latitanza, venne automaticamente ridotto alla condizione di schiavo, tanto più dura alla luce delle sue origini, condotto in Italia e venduto per addestrarlo come gladiatore, stante la sua forte costituzione fisica: avrebbe combattuto nell’arena, ma scelse nuovamente l’avventura insieme al primo gruppo della nuova sollevazione servile, sino all’atto finale che lo vide soccombere davanti alle forze di Crasso.

2 La vittoria contro l’esercito di Longino, forte di oltre 10.000 uomini bene armati e organizzati, tanto più clamorosa nelle dimensioni e nel fatto che il console stesso riuscì a salvarsi solo a stento, accrebbe il prestigio di Spartaco e la sua fama di ottimo condottiero, sia tra i suoi uomini, sia nel nemico: in questo senso, un ruolo non marginale ebbe la prassi di costringere i prigionieri romani a combattersi tra di loro fino alla morte, al pari di quanto accadeva per i gladiatori. A proposito della decisione di restare in Italia, conviene aggiungere che quella al seguito di Spartaco non era soltanto un’armata combattente, ma costituiva un aggregato composto, sia pure in misura minoritaria, anche da vere e proprie famiglie con donne e bambini: ciò, con tutti i vantaggi funzionali che potevano derivarne ma nello stesso tempo con le strozzature di movimentazione facilmente intuibili, e con quelle rivenienti dalla necessità di dover governare una moltitudine quanto meno eterogenea, facendosi a un tempo legislatore e giudice, sebbene in maniera ovviamente embrionale.

3 Prescindendo dalle leggende fiorite circa una sua presunta salvezza, indotte dalla «simpatia» del personaggio ma non suffragate da elementi probanti, la fine di Spartaco non è comunque chiara, sia per quanto riguarda il luogo della battaglia conclusiva, sia per ciò che attiene alle modalità della morte. La tesi dell’Alta Valle di Sele, sostenuta da Paolo Orosio, è da ritenersi la più attendibile, tanto più che in tempi moderni vi sono stati trovati reperti importanti quali armature varie dell’epoca romana, comprese corazze e spade; al contrario, Appiano di Alessandria e Plutarco hanno fatto riferimento all’agro di Petilia, ma sembra opinabile che per sganciarsi dalle legioni di Crasso gli schiavi si fossero nuovamente spinti in Calabria, col rischio di finire in trappola come era accaduto in precedenza nel vano tentativo di imbarcarsi. Quanto alle modalità, è ormai da escludere – diversamente dall’assunto di Sallustio – che Spartaco sia stato crocifisso come parecchie migliaia dei suoi uomini: nell’ultima battaglia, dopo avere ucciso anche due centurioni romani, avrebbe combattuto al centro della mischia fino allo stremo quando venne sopraffatto da una miriade di colpi, tanto da renderlo irriconoscibile.

4 I resti dell’esercito spartachista, pari a poche migliaia di uomini, riuscirono a salvarsi con la fuga organizzando una resistenza di qualche impatto basata su scorrerie e colpi di mano, assimilabili non tanto a programmi di rivincita quanto a semplice brigantaggio. Gli ultimi, a cui nel frattempo si erano unite le forze di Lucio Sergio Catilina, vennero sconfitti nel 61, quando furono intercettati e distrutti in territorio pugliese dalle legioni che stavano muovendo verso la Macedonia.

5 Il film di Stanley Kubrick si era ispirato al romanzo storico che Howard Fast aveva dedicato a Spartaco nove anni prima, con frequenti digressioni di fantasia – e conseguenti errori – rispetto alle vicende della terza guerra servile. In precedenza, altri filmati erano stati realizzati da Giovanni Enrico Vidali (1913) e da Riccardo Freda (1953) mentre dopo Kubrick venne prodotto soltanto qualche sceneggiato televisivo, segnatamente negli Stati Uniti. In ogni caso, la molteplicità e la ricorrenza di queste realizzazioni attestano la continuità del «mito» di Spartaco in chiave popolare.

(luglio 2020)

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