Roma conquista la Magna Grecia
La lunga guerra contro Pirro segna gli anni in cui le rissose città greche dell’Italia Meridionale devono cedere di fronte alla «compattezza» romana

Con la vittoria del 290 avanti Cristo sui Sanniti, popolazione guerriera stanziata in parte degli attuali Abruzzo e Molise, la Repubblica Romana era diventata la potenza egemone dell’intera Penisola: erano presidiati dalle legioni il Lazio, gran parte della Toscana, quasi tutta l’Umbria, le Marche e la Campania.

Nonostante i Romani avessero improntato i rapporti con le città della Magna Grecia[1] (tra cui primeggiava, per ricchezza e potenza, Taranto) a principi di amicizia e di rispetto, era chiaro che una simile espansione fosse vista con preoccupazione e insieme con ostilità da queste città, che vedevano non solo minacciate le rotte navali del Mediterraneo, già insidiate dai Cartaginesi, ma messa in pericolo la loro stessa indipendenza.

Nel 282 avanti Cristo Turi, una colonia greca posta a non grande distanza da Taranto, chiese aiuto ai Romani per difendersi dai Lucani, una popolazione dell’entroterra, in vigorosa espansione demografica, che mirava alla sua conquista; la seguirono Ipponio, Reggio, Locri e Crotone. Probabilmente queste città erano anche turbate dalla lotta di classe, e disposte ad accogliere le guarnigioni romane come una protezione dei ricchi contro le sollevazioni della plebe. I Romani non si lasciarono sfuggire l’occasione per intervenire, liquidare i Lucani e lasciare sul posto delle truppe. Indispettiti, i Tarantini risposero catturando e distruggendo alcune navi romane che erano penetrate nel loro golfo. Il Senato Romano considerò il fatto come una gravissima provocazione e si affrettò a dichiarare guerra ai Tarantini.

Questi, sebbene possedessero un discreto esercito, non se la sentirono di affrontare da soli le legioni e – anticipando un uso divenuto in seguito tristemente italiano – si rivolsero per un aiuto a un Sovrano straniero: Pirro, Re dell’Epiro (una regione della Grecia). Non volendo far valere i propri diritti con le loro forze, delegarono un altro a farlo.

Figlio del Re Eacida e nipote di Alessandro Magno, di stirpe macedone, Pirro (circa 319-272 avanti Cristo) era considerato uno dei migliori condottieri del tempo, audace, cavalleresco, animato da spirito pratico, e questa fama era tutt’altro che immeritata. Era salito sul trono dell’Epiro nel 306 avanti Cristo, ancora adolescente, nel tormentato periodo che vedeva le lotte tra i diadochi (i Generali che ambivano ottenere l’eredità del grande Impero lasciato loro da Alessandro Magno), ne fu cacciato e riuscì a riottenerlo nel 297 con l’aiuto di Tolomeo Soter, Sovrano d’Egitto. Il busto conservato al Museo Nazionale di Napoli mostra un uomo giovane, dalle labbra grosse e dallo sguardo fiero, con lineamenti fini; ciuffi di capelli ordinatamente pettinati fanno capolino da sotto l’elmo. Il suo programma era di ampliare il proprio Regno occupando la Macedonia e la Tessaglia, l’Italia Meridionale, la Sicilia e l’Africa Settentrionale. L’invito dei Tarantini gli forniva il pretesto per iniziare il suo ambizioso piano di conquiste.

Pirro

Busto di Pirro, epoca romana, Museo Archeologico Nazionale di Napoli (Italia)

Pirro sbarcò in Italia nel 280 avanti Cristo con un esercito composto di 20.000 fanti, 3.000 cavalieri, 2.000 arcieri e circa 20 elefanti: erano questi animali del tutto sconosciuti in Italia, che i Romani, per averli visti la prima volta in Lucania, chiamarono «buoi lucani».

Fu nei pressi di Eraclea che l’esercito romano, forte di 20.000 uomini, diede battaglia a quello epirota. Il console Publio Valerio Levino aveva avuto l’ordine di ricacciare in mare il nemico a qualunque costo; dal canto suo, Pirro sapeva che era da quel primo scontro che poteva dipendere la piena realizzazione del proprio progetto. Lanciò subito all’attacco i suoi cavalieri, cercando di colpire di fianco i legionari; i fanti e i cavalieri romani fecero fronte all’assalto, ma quando videro avanzare gli elefanti, simili a torri gigantesche (delle specie di «carri armati» dell’epoca), furono presi dal terrore e si diedero alla fuga. Furono 10.000 i Romani morti, feriti o prigionieri; anche Pirro ebbe gravi perdite (4.000 soldati).

Ottenuta la vittoria, Pirro prese a risalire la Penisola col suo esercito, mettendola a sacco e accampandosi poi a pochi chilometri da Roma. Le città greche dell’Italia Meridionale si unirono a lui, e Lucani, Bruzi e Sanniti gli si dichiararono alleati. Tuttavia, forse impressionato dalle mura da cui la città era circondata, il condottiero epirota non osò tentare la presa della città. Decise di ricondurre le truppe nell’Italia Meridionale, per prepararsi al nuovo scontro con l’esercito nemico.

Pirro verso Roma

Nella primavera dell’anno successivo, il 279 avanti Cristo, i due eserciti si trovarono nuovamente uno di fronte all’altro, questa volta ad Ascoli Satriano (in Puglia). Publio Sulpicio Saverione e Publio Decio Mure avevano il comando di quattro legioni, circa 40.000 uomini; Pirro aveva rinforzato il suo esercito con reparti delle città greche e con corpi forniti da Sanniti, Lucani e Bruzi. I Romani avevano deciso di non mostrare di temere gli elefanti, di resistere alla loro carica e di difendersi dalle frecce che i nemici lanciavano dall’alto dei pachidermi. Il combattimento durò con accanimento per tutta la giornata, finché l’impeto degli elefanti costrinse i Romani alla ritirata. Ma i legionari avevano dato prova di eccezionale valore, procurando a Pirro talmente tanti morti e feriti (3.000, contro i 6.000 di Roma), che egli mormorò, abbattuto dal dolore: «Un’altra vittoria come questa, e me ne torno da solo in Epiro!» Da quel momento, l’espressione «vittoria di Pirro» prese a indicare una vittoria costata quanto una sconfitta.

Venuto in Italia credendo in una conquista rapida e facile, il condottiero epirota dopo un anno di guerra non aveva conseguito alcun successo determinante e si vedeva di fronte un esercito romano certo provato, ma ancora in piena efficienza. A quel punto, per non correre rischi più gravi, decise di avanzare ai Romani proposte di pace: mandò Cinea con 2.000 prigionieri romani, impegnandoli a ritornare se Roma avesse preferito proseguire la guerra. Cinea era un abile oratore tessalo in grado, si diceva, di conquistare più città lui con le parole che Pirro con le falangi. Mentre il Senato stava soppesando le proposte ed era incline ad accettarle, il Senatore Appio Claudio, novantenne e cieco, esclamò indignato: «Vorrei essere sordo oltre che cieco, per non udire i Romani discutere le proposte del nemico. Esca prima Pirro dall’Italia e poi discuteremo la pace!» Era indegno per i Romani trattare la pace dopo la sconfitta e mentre il nemico rimaneva ancora sul suolo della patria: questo era il senso delle sue parole. Richiamati alla dignità da Appio Claudio, i Romani respinsero le proposte di Pirro, decisi a proseguire la guerra, e rimandarono indietro i prigionieri. Tornato dal suo Sovrano, Cinea così descrisse il Senato di Roma: «Mi è sembrata un’assemblea di Re!»

I Romani, a loro volta, inviarono presso Pirro il censore Gaio Fabrizio Luscino, uomo dall’austerità e dall’incorruttibilità leggendarie. Quando il medico personale del Re Epirota si presentò al campo romano offrendosi di avvelenare il proprio Sovrano, Fabrizio lo fece legare e ricondurre dai nemici, raccomandando a Pirro di scegliersi meglio i suoi amici. E mostrandogli, con quel gesto, con che pasta d’uomini aveva a che fare!

Disgustato dall’ignavia e dalla codardia dei suoi alleati, e messo alle strette dal trattato col quale Cartagine riconosceva l’egemonia di Roma in Italia in cambio di quella di Cartagine in Sicilia, Pirro decise di passare nell’isola con 8.000 soldati per cercarvi più sicuri allori. Liberò Siracusa dall’assedio dei Cartaginesi, fu proclamato Re di Sicilia, e la sua campagna si trasformò in una marcia trionfale: entrò in Agrigento, conquistò Selinunte, Segesta, Palermo, si insediò sul monte Erice, costrinse gli ultimi contingenti cartaginesi a rinserrarsi nella fortezza di Lilibeo, loro estremo avamposto sull’isola. Ma il suo dominio imperioso urtò i Greci di Sicilia, che pensavano di poter conquistare la libertà senza disciplina e senza coraggio: gli ritirarono il loro aiuto e lo costrinsero a ripassare lo Stretto di Messina. «Quale preda io abbandono, destinata alla conquista di Cartagine e di Roma!» mormorò.

Tornato sul continente, razziò il tesoro del tempio di Persefone, saccheggiò Crotone e assoggettò altre città greche a pesanti tributi: tutto per ricostruire le sue forze in vista dello scontro coi Romani. La battaglia decisiva con l’esercito comandato da Manio Curio Dentato si svolse nella primavera del 275 avanti Cristo, presso Maluentum («città sulla montagna»). Pirro confidava ancora nei suoi elefanti, ma i Romani avevano scoperto il modo di neutralizzarli: non appena li videro alla carica, gli arcieri cominciarono a scagliare frecce sulla cui punta v’era della stoppa accesa, e i legionari ad agitare torce. Atterriti dal fuoco, i pachidermi prima indietreggiarono, poi si volsero per fuggire, calpestando gli stessi soldati epiroti che li seguivano e scompaginandone le fila. I manipoli romani, armati alla leggera e facilmente manovrabili su quel terreno accidentato, si dimostrarono superiori alle falangi epirote troppo grevi.

Era la sconfitta definitiva: Pirro chiese nuove truppe agli alleati italici, che gliele rifiutarono. Allora vide naufragare il suo sogno di gloria e nell’autunno dello stesso anno tornò tra le montagne natie. Conquistò in parte il Regno di Macedonia, poi cercò di sottomettere la Grecia: qui trovò la morte, ad Argo, nel 272 avanti Cristo, in una rissa sulle strade tra opposte fazioni di quella città. Finiva così un vasto disegno egemonico, condotto con determinazione ma senza il sostegno di uno Stato saldamente organizzato.

Quanto alla città presso cui era avvenuto lo scontro che aveva deciso le sorti della campagna d’Italia, i Romani ne cambiarono il nome, troppo simile a «Maleventum» («evento maligno») in «Beneventum» («evento benigno»), nome che la città conserva tuttora: Benevento.

Il ritiro di Pirro segnò anche il destino delle città della Magna Grecia: nel 272 avanti Cristo, Milone consegnò Taranto ai Romani; la città mantenne la sua autonomia, dovendo però accogliere un presidio romano e impegnarsi a fornire navi e altri aiuti in caso di guerra. Subito, si arresero tutte le altre colonie. Col 264 avanti Cristo, tutta l’Italia Meridionale soggiaceva al potente dominio di Roma: la Repubblica si trovava a controllare una superficie di 130.000 chilometri quadrati dall’Appennino Tosco-Emiliano allo Stretto di Messina, con una popolazione di circa 1.168.936 persone e una media di quasi 49 abitanti per chilometro quadrato.

La conquista fu subito consolidata con la fondazione di altre colonie, latine o romane: queste servivano ad alleviare la disoccupazione e la pressione demografica, funzionavano come guarnigioni in mezzo a popoli sottomessi di cui non ci si poteva fidare (i legionari venivano accolti nelle città vinte a suon di «pernacchie», che forse scambiarono inizialmente per un segnale di benvenuto), costituivano avamposti e sbocchi per il commercio e fornivano cibo alle bocche affamate della capitale. In questo modo furono fondate centinaia di città italiane che tuttora esistono, e la lingua e la cultura latina si sparsero: in Italia, nome che le fonti greche del periodo avevano ormai esteso a tutta la Penisola, si andava lentamente costituendo un’unità nazionale, che sarebbe divenuta maestosa nei risultati.


Nota

1 La Grecia si presenta come un Paese quasi interamente montuoso e con un suolo poco adatto all’agricoltura. Ciò spiega perché, nell’VIII secolo avanti Cristo, molti Greci abbiano abbandonato le loro città per cercare altrove terre fertili da coltivare. Questi emigranti si diressero soprattutto verso l’Italia Meridionale e la Sicilia. Due erano le ragioni di una tale scelta: per prima cosa la fertilità del suolo di queste regioni, e poi perché le tribù italiche che allora le abitavano, debolissime militarmente, non sarebbero state in grado di opporsi all’occupazione. Così, nel corso dell’VIII secolo avanti Cristo e nei primi decenni del secolo seguente, i Greci fondarono in Italia molte città, che furono chiamate «colonie» (dal latino «còlere», cioè «abitare»). Nell’Italia Meridionale sorsero le città di Taranto, Sibari, Metaponto, Crotone, Locri, Reggio Calabria, Poseidonia, Napoli e Cuma; in Sicilia furono fondate Siracusa, Leontini, Nasso, Imera, Gela, Agrigento, Selinunte e Zancle (l’odierna Messina). Nel VI secolo avanti Cristo le colonie greche erano già diventate le più grandi e floride città del Mediterraneo Occidentale: l’insieme di quelle colonie prese così il nome di Magna Grecia («Grande Grecia») per dimostrare la superiorità persino sulla madrepatria, la Grecia.

(novembre 2019)

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