Pompeo il Grande
L’uomo che informò di sé gli ultimi decenni della Repubblica Romana

Gneo Pompeo Magno è un eccellente capo militare la cui complessa personalità politica domina gli ultimi 30 anni della Repubblica Romana. È tanto benvoluto dalla gente quanto è stato odiato il padre, Pompeo Strabone, uomo spietato e privo di scrupoli (tanto da far assassinare il Console dell’anno 88 avanti Cristo), oltre che così ricco per le sue proprietà fondiarie nel Piceno da aver reclutato un esercito personale.

Lo storico greco Plutarco, vissuto nel I secolo dopo Cristo, dipinge Pompeo figlio come un concentrato di virtù, modestia di vita, abilità di guerriero, parola suadente, fermezza di carattere, affabilità nei contatti con la gente, in più sa dare senza arroganza e ricevere con dignità. Nell’aspetto fisico, «in lui la graziosità del bambino aveva qualcosa di dignitoso e di tenero; fin dallo sbocciare dell’adolescenza si schiuse subito come un fiore la maestosità regale del suo temperamento. I capelli si elevavano dolcemente dalla fronte; questa, volgendosi flessuosa intorno agli occhi, creava quella rassomiglianza coi ritratti del Re Alessandro di cui si parlava, più che vederla realmente» (Plutarco, Vita di Pompeo, 2). Noi non abbiamo busti in età giovanile dei Romani famosi dell’età repubblicana, ma abbiamo un busto che rappresenta Pompeo cinquantenne: «cancellando» dal volto la pinguedine e i segni dell’età ed eliminati i circa 15 chili in eccesso, vi si può intravedere un giovane effettivamente molto attraente, anche se dall’aspetto un po’ «femmineo».


Le prime imprese

Nato nel 106 avanti Cristo, Pompeo, bello, nobile, ricchissimo, dimostra ben presto la sua decisione di farsi largo e inizia la sua carriera pubblica in modo alquanto anomalo. Nell’83 avanti Cristo, il capo del partito aristocratico di Roma, Lucio Cornelio Silla, dopo aver liquidato Mitridate, Re del Ponto, si accinge a tornare in Italia con le sue legioni. Ma al momento dello sbarco nel porto di Brindisi, gli si fanno incontro le truppe del partito democratico. Silla non si perde d’animo e affronta gli avversari. Durante questa guerra, comincia a distinguersi un giovane patrizio: Gneo Pompeo.

Per aiutare Silla, il giovane Pompeo – traendo profitto dall’esempio e dalla vasta clientela del padre – non esita a formare tre legioni a proprie spese; poi marcia dal Piceno verso l’Umbria, per prendere alle spalle l’esercito dei democratici. Presso Senigallia riporta la sua prima vittoria e può quindi proseguire l’avanzata.

Silla intanto, passando di vittoria in vittoria, è entrato in Roma e avanza a grandi tappe verso l’Etruria.

Battuti in Italia, i democratici portano la guerra in Sicilia, in Africa e poi in Spagna. Silla ha capito che Pompeo è un abile ufficiale e gli affida l’incarico di sterminare gli avversari. In Sicilia Pompeo, al comando di sei legioni, non fa nemmeno in tempo a ingaggiare battaglia che i democratici sgombrano l’isola. In Africa è diverso: qui gli avversari dispongono di eserciti, di armi, di alleati e di ufficiali abili. La lotta dura aspra per un anno e, alla fine, Pompeo consegue la vittoria. È in questo frangente che si conquista la fama di uomo crudele e sanguinario, ma anche coraggioso e che sa dare l’esempio: dovendo raccogliere grano e spedirlo a Roma affamata, decide di accompagnare di persona il prezioso carico e risponde ai marinai – che si rifiutano di prendere il mare a causa di una tempesta – che «necesse est navigare, vivere non necesse» («è necessario navigare, non vivere»). Silla non ha mai avuto ai suoi ordini un ufficiale di così alto valore: per ricompensarlo, gli permette a malincuore di celebrare il trionfo e gli dà il «cognomen» di «Magnus» («Grande»). Pompeo non ha che 25 anni!

Tre anni dopo è inviato accanto a Catulo per reprimere la ribellione di Lepido, che egli aveva appoggiato per il consolato del 78 avanti Cristo. Dà prova di giustizia quando – catturato un gruppo di sediziosi – uno si fa avanti e confessa di essere lui il solo responsabile e l’unico da punire: «Questa volta il colpevole ha ottenuto il perdono per gli innocenti» è la sua risposta.

Alla fine della campagna, rifiuta di congedare il suo esercito finché il Senato non gli concede un comando proconsolare contro i democratici Sertorio (e poi Perperna) in Spagna. Qui combatte già Metello Pio, luogotenente di Silla, che però dopo quattro anni di guerra non è riuscito a ottenere nemmeno una vittoria. La guerra di Spagna dura cinque anni, con un susseguirsi di vittorie e sconfitte; ma, nel 72 avanti Cristo, Pompeo, grazie all’arrivo di rinforzi, sollecitati con urgenza, può fare ritorno in Italia come vincitore e celebrare un nuovo trionfo: per merito suo la Spagna è tornata di nuovo sotto il dominio di Roma.

Una nuova rivolta è intanto scoppiata in Italia per opera di Spartaco, un gladiatore trace (nel senso che combatteva alla maniera tracia), ex legionario, un personaggio leggendario idealizzato sia dai contemporanei che dai posteri. I giochi dei gladiatori nei circhi sono lo spettacolo più gradito ai Romani: i gladiatori, quasi tutti prigionieri di guerra, sono costretti a combattere per divertire gli spettatori; nonostante nell’immaginario popolare i duelli terminino con la morte dei gladiatori, in realtà questi sono disciplinati da regole ferree e «solo» in un caso su 10 si arriva alla morte del gladiatore in seguito alle ferite riportate, ma di solito non direttamente nell’arena. Nel 74 avanti Cristo, 200 gladiatori tentano di fuggire da Capua sotto la guida di Spartaco e 78 ci riescono. Un gran numero di schiavi esaltati dalla libertà, dal cibo e dai piaceri si unisce a loro, cosicché la ribellione assume proporzioni preoccupanti: sono di ogni razza, Ebrei, Greci, Spagnoli, negri, Germani, e si portano dietro un codazzo di donne e di bambini; agli arruolati vengono impartite lezioni d’armi. L’ingente esercito di Spartaco, comandato con abilità, crea una difficile situazione militare per Roma, con una serie di vittorie. Poi, per ragioni che non si sono mai appurate (forse per suscitare una seconda ribellione in Sicilia), i gladiatori decidono di saccheggiare e depredare il Meridione d’Italia anziché fuggire a Nord, passando le Alpi. Per risolvere la questione una volta per tutte, contro i ribelli il Senato manda Crasso con sei legioni: questi comprende di dover combattere una guerra particolare, di rifuggire dagli scontri campali e tagliare al nemico i rifornimenti. La sua tattica funziona: il Generale costringe il nemico col mare alle spalle e un vallo prontamente eretto di fronte. Privi di vettovaglie, i gladiatori sono costretti a tentare di forzare le fortificazioni nemiche e danno battaglia presso il fiume Sele, in Campania; prima dello scontro, Spartaco dimostra la propria volontà di battersi fino alla morte uccidendo il proprio cavallo per non essere tentato alla fuga. Nonostante il loro coraggio, i gladiatori vengono sopraffatti e lo stesso Spartaco perde la vita. Quelli che riescono a scappare si imbattono nelle truppe di Pompeo che torna dalla Spagna a marce forzate: 5.000 gladiatori vengono catturati e crocifissi lungo la Via Appia, da Roma a Capua, come monito agli schiavi di non tentare un’altra ribellione.

Ormai Gneo Pompeo è uno dei personaggi più importanti di Roma: nel 70 avanti Cristo, a soli 36 anni, è nominato Console insieme con Marco Licinio Crasso, un rivale geloso con cui è difficile collaborare, tanto che i due si trovano in disaccordo su tutte le questioni e si urtano continuamente. Tuttavia riescono a concordare nell’apportare delle modifiche alla Costituzione di Silla che non sono sgradire all’aristocrazia, anche se i conservatori non sono disposti a fare concessioni che accrescano il potere di Pompeo. Questi, che dopo aver difeso gli aristocratici è passato dalla parte dei democratici, si ritira a vita privata per prepararsi alla rivincita: sa che, dopo non molto tempo, ci sarà ancora bisogno di lui.


La guerra contro i pirati

Infatti, appena tre anni dopo, Pompeo è di nuovo richiamato per una guerra: questa volta il Senato gli affida l’incarico di liberare il Mediterraneo dai pirati che ostacolano il commercio marittimo di Roma. Per far questo, viene istituita d’urgenza una nuova carica militare: quella di navarca (dal greco «naus», «nave» e «archòs», «capo»). I poteri attribuiti al navarca sono veramente straordinari: viene deciso infatti di dargli, senza alcun limite di tempo, il comando supremo delle operazioni sull’intero Mar Mediterraneo, dallo Stretto di Gibilterra ai lidi asiatici e africani; inoltre gli si concede di scegliere a piacere 24 luogotenenti fra i Senatori, di prendere dall’erario pubblico quanto denaro gli serva, di avere a sua completa disposizione fino a 120.000 fanti, 5.000 cavalieri e una flotta di 500 navi.

Potremmo chiederci perché il Senato Romano abbia deliberato in totale contrasto con i principi repubblicani, che non permettono di attribuire poteri illimitati a un uomo solo. Dobbiamo a questo proposito tenere presente la particolare condizione in cui si trovano i Senatori Romani: essi si vedono di fronte a due alternative, o lasciare che i pirati – ormai praticamente padroni del Mediterraneo – mandino in completa rovina la Repubblica, o dare pieni poteri a un abile condottiero perché la liberi in modo definitivo dai potenti predoni del mare. È così che la maggioranza dei Senatori, nella speranza di salvare lo Stato, si vede costretta a violare i principi su cui si è sempre fondata la Repubblica. Nominato il navarca, viene stabilita una lotta a fondo contro i pirati.

La pirateria è antica quanto la navigazione. Il Mediterraneo è stato infestato dai pirati fin dai tempi più antichi e Roma, non appena si è affacciata sul mare, ha dovuto provvedere a difendere le sue coste e le sue navi dalle loro scorrerie.

Per molti secoli, la pirateria non ha costituito un grave pericolo: la Repubblica ha avuto sempre forze sufficienti per far fronte alle incursioni dei predoni del mare. Ma nel I secolo avanti Cristo le cose cambiano. Da una parte, le continue guerre hanno falcidiato il 25% delle forze armate romane; dall’altro lato, i pirati hanno raggiunto una tale potenza da preoccupare seriamente i Romani. Questo anche perché i pirati hanno aiutato i Re dell’Asia nelle guerre contro Roma, ricevendo in compenso navi e persino territori: Plutarco ci riferisce che essi sono arrivati a possedere più di 1.000 navi e oltre 400 città; «a essi si appoggiavano flottiglie non solo attrezzate per il loro particolare mestiere, dotate di equipaggi robusti, piloti abili, navi veloci e leggere, e rese temibili dalla loro forza; ma ancor più spiacevoli per la loro odiosa arroganza, che traspariva dai pennoni dorati, dalle cortine di porpora, dai remi argentati: pareva quasi che quella gente godesse e si facesse bella di compiere il male» (Plutarco, Vita di Pompeo, 24). Da Tigrane, Sovrano di Armenia, ricevono buona parte della Cilicia (una regione situata nella Penisola Anatolica) e da altri Monarchi Asiatici ottengono un buon numero di arsenali, di fortezze e di porti lungo le coste del Mediterraneo Orientale. Divenuti potenti e molto numerosi, anche perché disertori e criminali di tutti i popoli ingrossano di continuo le loro file, i pirati accrescono la loro audacia. Se all’inizio si sono limitati ad assalire le navi in navigazione sul Mediterraneo, ora si azzardano ad attaccare villaggi e città. Ma non basta: riescono persino a catturare alcuni alti magistrati romani, che sono costretti a versare fortissime somme di denaro per riottenere la libertà. Quando poi i pirati vengono a sapere che nel porto di Ostia è pronta una flotta destinata ad agire contro di loro, vi giungono di sorpresa, distruggono tutte le navi e fanno prigionieri due pretori. A poco a poco, i pirati sono divenuti i veri padroni del Mediterraneo: ben poche navi romane riescono a sfuggire alla cattura, e di questo stato di cose ne risente particolarmente il commercio, in quanto Roma non può più spedire all’estero i suoi prodotti né importare il frumento dall’Africa (soprattutto dall’Egitto). La carestia e la miseria cominciano a minacciare l’esistenza stessa della Repubblica Romana!

Naturalmente, i Romani non sono rimasti inattivi di fronte alle continue scorrerie dei pirati. Nel 78 avanti Cristo, il Senato ha inviato in Cilicia il Console Publio Servilio con l’incarico di sterminare le forze dei predoni del mare ma egli, nonostante abbia combattuto con valore per tre anni consecutivi, non è riuscito a ottenere grandi risultati: i pirati che ha scacciato dalla Cilicia si sono rifugiati nell’isola di Creta che, a causa della sua posizione al centro del Mediterraneo Orientale, è divenuta il quartier generale della pirateria. Nel 74 avanti Cristo, il Senato ha inviato una nuova spedizione contro i pirati, ma anche questa ha avuto poca fortuna: nella battaglia navale che si è svolta presso Creta, i pirati sono riusciti a catturare parecchie navi romane. Così, la situazione di Roma nel Mediterraneo è andata aggravandosi sempre di più.

Due sono le ragioni per cui Roma non è riuscita ad avere partita vinta sui pirati: prima di tutto, la mancanza di un condottiero di valore, e in secondo luogo, la scarsità di forze impiegate nell’impresa.

Ma nel 67 avanti Cristo, Roma trova l’uomo adatto a debellare i predoni del mare. Nominato navarca con poteri straordinari, Pompeo mette in atto un grande piano d’azione, che diverrà il fondamento della moderna guerra navale e che basterebbe da solo a dar gloria a qualsiasi uomo. Egli divide tutto il Mediterraneo in 13 settori e affida ciascuno di questi a un suo luogotenente, con l’ordine di snidarne i pirati.

Il piano di Pompeo rivela subito tutta la sua efficacia: i nemici si accorgono ben presto di non avere più alcuna via di scampo, perché quelli che riescono a sfuggire a un luogotenente, incappano nel settore sorvegliato da un altro. In breve tempo, sono catturate parecchie centinaia di navi pirata.

Nel frattempo Pompeo, con una parte della flotta, si prende l’incarico di sgombrare il mare intorno alla Sicilia e all’Africa, per permettere le spedizioni di frumento dai territori nordafricani. In soli 40 giorni, il Mediterraneo Occidentale è completamente ripulito dai predoni. Quei pirati che sono riusciti a sottrarsi alla sorveglianza dei luogotenenti romani, si sono rifugiati tra le coste della Cilicia.

A questo punto Pompeo, con le 60 navi da guerra migliori, si trasferisce nel Mediterraneo Orientale.

La lotta si presenta lunga e sanguinosa, ma Pompeo ricorre a un espediente: promette che i pirati disposti ad arrendersi spontaneamente non solo non verrebbero uccisi, ma otterrebbero la libertà. La decisione di Pompeo dà subito un ottimo risultato: a centinaia i pirati si consegnano nelle mani dei Romani con le mogli e i figli. Quelli che preferiscono combattere si trovano ben presto senza possibilità salvezza e sono costretti ad arrendersi, ma anche questi vengono trattati con grande clemenza: hanno salva la vita e sono trasferiti sulla terraferma dove, da scorridori del mare, si trasformano in cittadini e contadini.

Grazie al suo agire fulmineo, Pompeo in meno di tre mesi ha liberato l’intero Mediterraneo dal flagello della pirateria: in tutto, sono stati fatti prigionieri più di 20.000 pirati ed eliminate o catturate 1.300 navi, di cui 90 dotate di rostri di bronzo; d’ora in poi, Roma può far navigare sicura i propri bastimenti mercantili.


Dall’apogeo al declino

Sono più di 20 anni intanto che, nella lontana Asia Minore, le legioni di Roma tentano invano di sconfiggere Mitridate, Re del Ponto. «L’unico Generale che può piegare Mitridate è il grande Pompeo» afferma in Senato il tribuno Manilio. I Senatori approvano e, nel 66 avanti Cristo, Pompeo parte per il Ponto, dove deve anche rimediare alle lentezze del predecessore Lucullo. Affronta Mitridate sulle rive dell’Eufrate in una battaglia notturna: i Romani attaccano con la luna alle spalle, così che la luce, bassa sull’orizzonte, protende molto in avanti, sopra i nemici, le ombre proiettate dai loro corpi; quando i legionari si slanciano contro di loro a passo di corsa e con alte grida, i Pontici si danno alla fuga in preda al panico; più di 10.000 sono i morti. Mitridate riesce a fuggire, e per quattro anni prosegue la lotta; ma le ripetute sconfitte che subisce, la rottura dell’alleanza da parte di Tigrane Re di Armenia, la rivolta interna nel Ponto lo portano – come si usa spesso all’epoca – a togliersi la vita gettandosi sulla sua spada perché il suo corpo è immunizzato contro qualsiasi veleno.

In seguito, di sua iniziativa (scavalcando la consueta commissione dei consiglieri senatori), Pompeo intraprende un’ampia riorganizzazione delle province orientali di Roma e degli Stati satelliti, occupando la Cilicia, la Siria e la Palestina; entra in Gerusalemme e impone un tributo. Le sue conquiste triplicano le entrate dell’erario, le sue clientele adesso affollano vaste zone del mondo romano; in Oriente, dove si atteggia a Monarca Ellenistico, la sua influenza è immensa e l’enorme ricchezza personale che si è procurata eclissa anche il famoso ingente patrimonio di Crasso.

Carico ormai di bottino e di gloria, nel 61 avanti Cristo Pompeo ritorna in Italia. A Roma celebra il terzo e più sfarzoso trionfo: davanti al suo carro procedono ben 324 prigionieri illustri, mentre decine di cartelli annunciano che egli ha espugnato 1.000 fortezze, occupato 900 città e catturato 800 navi nemiche. Nella capitale ha però un’amara sorpresa: il Senato (guidato da Catone Uticense e da Lucullo), diffidando dei suoi metodi e temendo ormai la sua potenza, non gli è più favorevole; oppone un netto rifiuto alle sue richieste di assegnazioni di terre ai veterani e di ratifica dei provvedimenti presi nelle province orientali.

Ma Pompeo non si perde d’animo.

Un altro uomo potente è osteggiato in Roma dal Senato: Caio Giulio Cesare. Pompeo si mette d’accordo con lui e insieme con Crasso forma il cosiddetto «triumvirato» (dal latino «tres», «tre», e «vir», «uomo», quindi «unione di tre uomini»). La figlia di Cesare, Giulia, diviene moglie di Pompeo.

L’accordo dà subito ottimi risultati: nel 59 avanti Cristo, Cesare e Crasso vengono eletti Consoli; l’anno dopo Pompeo ottiene di rimanere a Roma, mentre Cesare riesce a farsi nominare Proconsole nelle Gallie. Ma tale accordo non è destinato a durare: il prestigio di Pompeo a Roma è compromesso dagli scontri tra le bande armate, dalle lotte violente tra la plebe e gli oligarchi, e – per contro – dalle vittorie di Cesare contro i Galli. La morte di Giulia e di Crasso, in una spedizione contro i Parti, acuiscono il suo contrasto e la sua rivalità con il suocero. A questo punto gli aristocratici cominciano a favorire Pompeo per opporsi a Cesare e Pompeo, che sopra ogni cosa desidera entrare nel loro partito, approfitta dei disordini che si verificano nella capitale per atteggiarsi a restauratore e a garante dell’ordine. Gli «optimates» esaudiscono in parte la sua richiesta di una dittatura, nominandolo Console unico (anno 52 avanti Cristo); l’alleanza è suggellata dal suo matrimonio con Cornelia, figlia di Quinto Cecilio Metello Scipione, un esponente emblematico della vecchia aristocrazia, poco simpatico e non molto abile.

Rimasto unico padrone, in combutta col Senato Pompeo pensa di liberarsi di Cesare, ordinandogli di smobilitare l’esercito e tornare a Roma. Di fronte a un’intimazione che lo lascerebbe inerme nelle mani degli avversari, Cesare non solo si rifiuta di ubbidire, ma con l’unica legione che gli rimane marcia alla volta della capitale, tra l’entusiasmo della gente. È la guerra civile! L’avanzata di Cesare è fulminea; timorosi di misurarsi con lui in campo aperto, Pompeo e i Senatori fuggono a Brindisi e di qui in Grecia, dove contano di ammassare truppe numerose.

Cesare non lo insegue subito. Prima guida le sue truppe in Spagna, dove costringe i luogotenenti pompeiani Petreio e Afranio a congedare i loro eserciti. Fallisce invece il corpo di spedizione inviato in Africa, per un errore di valutazione di Curione sulle forze del nemico: i Cesariani sono sconfitti dalle preponderanti forze di Giuba, Re della Numidia, giunto più per odio contro i Romani che per alleanza verso Pompeo.

Dopo aver sistemato le cose in Italia, Cesare si imbarca con l’esercito per inseguire Pompeo in Grecia. Questi ha truppe numerose e ben armate, e dalla sua parte è passato anche Tito Labieno, il migliore luogotenente che aveva Cesare in Gallia. Ma Pompeo è l’ombra di se stesso, incapace di predisporre un piano di guerra e aspettando che i suoi consiglieri gliene propongano uno. Nel suo campo si pensa a tutto, fuorché a come acquistare la vittoria, che si dà già per scontata: così, i vari luogotenenti di Pompeo «già da tempo apertamente contendevano fra loro ricompense civili e cariche religiose e stabilivano i consolati per gli anni successivi; altri richiedevano le case e i beni dei Cesariani. In un consiglio vi fu tra di loro una grande controversia se fosse opportuno tenere conto, nei prossimi comizi pretori, della candidatura di Lucilio Irro, che era assente in quanto mandato da Pompeo presso i Parti; i suoi amici imploravano la lealtà di Pompeo, che mantenesse ciò che gli aveva promesso alla sua partenza, perché non sembrasse essere stato ingannato per mezzo della sua autorità; gli altri non volevano che uno solo venisse preferito a tutti, quando uguali erano fatiche e pericoli.

Ben presto Domizio, Scipione e Lentulo Spintere, nelle quotidiane discussioni sulla successione al pontificato di Cesare, giunsero pubblicamente a gravissime ingiurie verbali: Lentulo ostentava il privilegio dell’età, Domizio vantava il favore e l’autorità di cui godeva a Roma, Scipione confidava nella parentela con Pompeo. Acuzio Rufo inoltre accusò, presso Pompeo, Afranio del tradimento dell’esercito, che diceva essere accaduto in Spagna. E Domizio in consiglio disse che era favorevole a che, una volta terminata la guerra, ai Senatori che avevano partecipato con loro alla guerra venissero distribuite tre tavolette di voto, per esprimere singoli giudizi su chi era rimasto a Roma o chi, trovandosi nelle terre occupate da Pompeo, non aveva combattuto: una sarebbe stata la tavoletta per assolvere da ogni imputazione; un’altra per condannare a morte, la terza per infliggere multe. In una parola tutti discutevano o delle proprie cariche o delle ricompense in denaro o dei nemici da perseguire e pensavano non in che modo vincere, ma come mettere a frutto la vittoria» (Caio Giulio Cesare, De bello civili, libro terzo, 82-83).

Il 48 avanti Cristo in Tessaglia, presso la città di Fàrsalo, i due grandi condottieri schierano in ordine di battaglia i loro eserciti. È lo scontro decisivo per diventare padroni di Roma: 22.000 Cesariani contro oltre 44.000 Pompeiani. Pompeo – che è stato malvolentieri persuaso dal suo stato maggiore allo scontro – confida tuttavia nella superiorità della sua cavalleria, nella quale milita il fior fiore dell’aristocrazia. La lancia in avanti. Cesare ordina ai suoi legionari di non mirare ai cavalli, ma di dirigere la punta dei giavellotti verso gli occhi dei cavalieri. Questi, giovani e forti, vedendosi puntare addosso le lame lucenti al sole, atterriti alla prospettiva di una ferita in cui al dolore si sarebbe sommata una deturpazione irreversibile della loro bellezza, si coprono il viso con le mani, voltano i cavalli e si danno a una fuga precipitosa. A questo punto, Cesare fa avanzare contro il fianco dello schieramento nemico, lasciato sguarnito dalla fuga dei cavalieri, sei coorti che ha tenuto di riserva. Dopo poche ore, la battaglia è decisa: l’esercito di Pompeo rimane completamente distrutto.

Occupato il campo nemico, «si poterono vedere pergolati di frasche, una grande quantità di argenteria esibita, tende pavimentate con zolle di erba fresca, le tende di Lucio Lentulo e di alcuni altri coperte di edera e inoltre altre cose che testimoniavano un lusso eccessivo e la fiducia nella vittoria, così che facilmente si poteva pensare che i nemici, che cercavano piaceri non necessari, non avevano avuto alcun timore per l’esito di quella giornata» (Caio Giulio Cesare, De bello civili, libro terzo, 96).

A Pompeo non rimane che la fuga: cerca scampo in Egitto, alla Corte del Re Tolomeo, confidando nell’amicizia e nella gratitudine che legava la terra dei Faraoni a Pompeo padre.

Ma è perseguitato dalla sfortuna: Tolomeo è giovanissimo e di tutti gli affari del Regno si occupa Potino, un eunuco privo di scrupoli. Questi e gli altri Ministri di Tolomeo, incerti e disorientati, pensando in questo modo di procurarsi l’amicizia del vincitore, fanno assassinare Pompeo a tradimento, colpendolo più volte di spada alle spalle. L’uomo emette un solo gemito, si copre il volto con la toga e muore a 59 anni, un giorno dopo il suo compleanno: è il 28 settembre dell’anno 48 avanti Cristo!

Il capo di Pompeo, troncato dal busto, viene inviato come trofeo a Cesare, il quale ritrae il viso a quella vista e scoppia in lacrime quando riceve l’anello di Pompeo, che raffigura un leone che tiene una spada con la zampa: egli non ha mai desiderato la morte del grande rivale, che ammirava moltissimo. Tutti coloro che hanno avuto parte nel suo assassinio sono messi a morte. Invece i resti di Pompeo sono raccolti e seppelliti nella villa di Alba.

Seguaci di Pompeo continuano comunque a combattere in Africa e in Spagna. Nel continente africano sono sempre alleati con Giuba di Numidia, che dispone di una numerosa cavalleria; Cesare aspetta rinforzi e poi li affronta a Tapso: 50.000 nemici rimangono sul terreno e anche Giuba perde la vita. In Spagna la partita coi Pompeiani si chiude un anno dopo, a Munda.

Cesare torna a Roma in trionfo, ma non potrà goderne a lungo: il 15 marzo dell’anno 44 avanti Cristo è assassinato in una congiura. Trafitto da 23 pugnalate cade a terra, in Senato, proprio ai piedi della statua del suo grande rivale Pompeo.

(settembre 2020)

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