Come nacque Roma
Un’indagine archeologica su un argomento ancora poco studiato, al di là degli «abbellimenti» leggendari

La leggenda sulle origini di Roma è nota a tutti: pressoché chiunque conosce almeno per sommi capi la storia di Romolo e Remo, abbandonati in fasce in un canestro nel Tevere perché morissero, allattati da una lupa e poi allevati da un pastore. Cresciuti, decisero di fondare una città nei luoghi della fanciullezza: la sorte arrise a Romolo, che stabilì di gettarne le fondamenta sul colle che verrà in seguito chiamato Palatino. Era il 21 aprile dell’anno 753 avanti Cristo!

Questa è la leggenda: così gli antichi Romani raccontavano ai figli la nascita della loro città, e così anche oggi ci piace immaginarla. Probabilmente nella leggenda di Romolo e Remo un nocciolo di verità c’è, ma una seria ricerca storiografica ci dice anche dell’altro.

Facciamo un salto indietro di qualche millennio. La Penisola era abitata già nell’Età della Pietra, 7.000 anni fa: i Liguri occupavano l’Italia Settentrionale, i Siculi le regioni meridionali; erano genti dalla testa a forma di pera e vivevano un po’ in caverna, un po’ in capannucce rotonde fatte di vimini, di sterco e di fango, fabbricavano stoviglie con ornamentazioni lineari, usavano utensili e armi di pietra levigata, seppellivano i morti, addomesticavano animali e si nutrivano di caccia e di pesca. Dalle misere capannucce rotonde l’architettura si evolvette in un continuo sviluppo fino alla casa di Romolo sul Palatino, al Tempio di Vesta nel Foro e al Mausoleo di Adriano, oggi Castel Sant’Angelo, e ancora più oltre fino ai giorni nostri. Aristotele e Tucidide riferiscono poi che quando il Re dei Siculi, Italo, divenne Re di Enotria, cioè della punta dello stivale italico, tanto feconda di grappoli che il nome significava «Terra del vino», e vi introdusse leggi sagge e i dettami della religione, le genti tanto lo amarono che non si chiamarono più Enotrii ma Italici, e i Greci gradualmente estesero il nome «Italia» a tutta la penisola a Sud del Po.

Verso il 2.000 avanti Cristo, superando i valichi delle Alpi, giunsero nel nostro Paese altre genti, originarie dell’Europa Centrale. Stabilirono le loro sedi dapprincipio nella regione dei laghi (quello Maggiore, quello di Como, quello di Garda) costruendo le loro abitazioni su travi immerse nell’acqua, le cosiddette «palafitte», scendendo poi verso l’Italia Centro-Meridionale; allevavano greggi, coltivavano il suolo, tessevano stoffe, cuocevano stoviglie in ceramica, col bronzo fabbricavano armi e utensili (fra cui pettini, spilloni, braccialetti, fibbie, rasoi, pinze e altri arnesi, tutti di fattura raffinata) e difendevano i loro villaggi circondandoli di bastioni di mota e terra battuta. L’abitudine di circondare queste costruzioni di bastioni e fossati la ritroviamo nella struttura degli accampamenti romani, dei castelli medievali, delle strutture difensive dei vari Paesi, dall’antichità fino a oggi. In seguito appresero l’uso del ferro con cui fabbricarono asce, coltelli, rasoi e un gran quantità di altri utensili, dopodiché fondarono una città vera e propria, che doveva trovarsi nei pressi di Villanova, vicino a Bologna: per questo, alla civiltà che si venne a formare è stato dato il nome di «villanoviana». Da questi Villanoviani, probabilmente mescolati coi Liguri e i Siculi preesistenti, si crede che derivino, come stirpe, come lingua, come costumi, gli Umbri, i Sabini e i Latini.

Occupiamoci più in dettaglio di questi ultimi: essi abitavano in quella zona della Penisola chiamata oggi Lazio (dal latino «latus», ossia «luogo largo»), e non era certo un territorio troppo invitante. Nella pianura, lungo il corso del Tevere e sulle rive del Mar Tirreno, si stendevano stagni e paludi infestati dalle zanzare malariche; sui colli, invece, vi era una vegetazione più ricca e un terreno più adatto alle coltivazioni, e anche il clima risultava gradevole. Fu quindi inevitabile che i Latini, da pastori e agricoltori quali erano, si stabilissero sui colli, ma senza trascurare la pianura: avevano compreso quale importanza poteva avere per l’agricoltura un territorio solcato da un largo fiume e poco distante dal mare. Si misero quindi a bonificare il terreno paludoso e a regolare il corso del Tevere, le cui acque, straripando in più punti, formavano estese zone acquitrinose. Anche quand’ebbero resa fertile buona parte della pianura, i Latini continuarono a costruire sui colli i loro villaggi perché abitando lassù evitavano due pericoli: da un lato, si trovavano al sicuro dalle razzie dei pirati liguri e fenici, che con le loro navi assalivano le città costiere per depredarle; dall’altro lato, di lì era più facile fronteggiare gli assalti dei popoli dell’interno che avevano più volte tentato d’impadronirsi del Lazio per avere le lane dei suoi greggi, i raccolti abbondanti del suo suolo e il legname delle sue folte foreste.

I Latini non formavano un vero popolo, come lo intenderemmo noi oggi: ogni loro villaggio – un agglomerato di capanne addossate l’una all’altra e disposte senza alcun ordine, con stradine in terra battuta – costituiva una piccola città-Stato, governata da un Re. Verso l’VIII secolo avanti Cristo, c’erano nel Lazio una quarantina di villaggi latini, uniti tra di loro in una lega religiosa: a capo di questa lega era la città di Albalonga, che sorgeva sui Colli Albani, probabilmente dove oggi si trova Castel Gandolfo, l’attuale residenza estiva del Pontefice. Ogni anno i Latini si recavano ad Albalonga per celebrare le ferie latine, delle feste religiose che duravano quattro giorni nel santuario di «Juppiter Latiaris» («Giove del Lazio») e che culminavano col sacrificio di un toro bianco, le cui carni venivano poi distribuite tra tutti i partecipanti.

I Latini avevano dovuto più volte far fronte agli assalti degli Etruschi, che dalla riva destra del Tevere, e precisamente dalla parte dove sorgeva l’Isola Tiberina (punto in cui vi era un guado), tentavano di penetrare nel Lazio. È vero che i Latini avevano fortificato i villaggi che si trovavano sulla riva opposta del fiume, ma i villaggi più grandi, quelli che avrebbero potuto resistere meglio agli attacchi del nemico, si trovavano nell’interno del territorio. È probabile che sia stato per questo che i Latini decisero di costruire poco distante dal Tevere un nuovo villaggio, che facesse da baluardo agli attacchi dal Settentrione, e il colle Palatino, posto proprio di fronte alla strada dalla quale provenivano gli Etruschi, sembrava messo lì apposta per sbarrare il passaggio. Non solo: i Latini si accorsero che da quell’altura, oltre a controllare la via che conduceva al territorio etrusco, si poteva dominare anche quella che conduceva al mare, attraverso il Tevere. Era dunque una posizione favorevole anche per i commerci. In un’epoca in cui mancavano comode vie terrestri di comunicazione, il fiume (facilmente navigabile dalle imbarcazioni di quel tempo) rappresentava l’unica e importante strada commerciale: dal mare giungevano le barche cariche di sale, tanto ricercato dai popoli dell’interno, e al mare le barche trasportavano la lana che i Latini barattavano con altre merci. C’erano, insomma, tutte le condizioni favorevoli perché quel colle, sovrastante il Tevere e a soli 20 chilometri dal mare, divenisse la sede di un nuovo villaggio: fu così che, il 21 aprile dell’anno 753 avanti Cristo, come ricordato più sopra, i Latini aggiunsero un villaggio sul Palatino ai molti già sparsi nel Lazio, e gli diedero il nome di Roma, perché anticamente il fiume Tevere era chiamato Rumon e Ramnes erano i «fiumaioli», coloro che abitavano vicino al fiume; col tempo, da «Ramnes» si passò a «Romani». La data tradizionale della nascita di Roma potrebbe essere verosimile, perché non è da escludere che il giorno della fondazione del villaggio venisse ricordato di padre in figlio e debitamente celebrato a scadenza annuale.

Il rito sacro che i Latini compivano per la fondazione di una città era molto semplice e pare che essi lo abbiano appreso dagli Etruschi: con ogni probabilità, anche Roma fu fondata secondo quel rito. Dopo che un gruppo di pastori e contadini giungeva sul luogo dove doveva sorgere la nuova città, veniva acceso un fuoco di sterpi e ciascuno di essi saltava attraverso la fiamma per purificarsi da ogni peccato. Quello deputato ad essere il fondatore della città scavava una fossa profonda e ciascuno dei presenti vi gettava un po’ di terra del villaggio dal quale proveniva. Poi, con indosso le vesti sacerdotali, il fondatore aggiogava un toro e una mucca all’aratro ed egli stesso lo guidava per tracciare il solco: lungo quel solco sarebbero state costruite le mura della città; dove dovevano aprirsi le porte, il fondatore sollevava l’aratro e interrompeva per breve tratto il solco. Il recinto tracciato era sacro: né gli stranieri né i cittadini avevano il diritto di sorpassarlo senza il permesso del fondatore; saltare al di là del piccolo solco era un atto di empietà e veniva scontato con la vita. Infatti, narra ancora la leggenda, quando Remo superò il solco con un salto, in segno di scherno, Romolo lo uccise seduta stante di sua propria mano!

I Latini erano profondamente religiosi: adoravano numerose divinità e immaginavano che queste li aiutassero in qualsiasi momento della vita. Non avevano templi e quindi celebravano i sacrifici agli dèi all’aperto, nei boschi. Ogni città, ogni selva, ogni casa, ogni focolare aveva il suo dio protettore chiamato «genius», ovvero «produttore della vita». La vita di un bambino era sotto la tutela di molti geni: Lucina lo proteggeva al momento della nascita, Cumina quando dormiva nella culla, Rumina durante l’allattamento; Potina ed Edua vigilavano perché si nutrisse bene, Ossipago s’interessava allo sviluppo delle ossa. Ogni famiglia aveva i suoi geni tutelari: i Lari e i Penati. I Lari rappresentavano gli spiriti protettori degli antenati che vegliavano sul buon andamento della famiglia, della proprietà o delle attività in generale; venivano raffigurati con statuette di terracotta, legno o cera, collocate in una nicchia presso il focolare; in particolari occasioni o ricorrenze, i Lari erano onorati con l’accensione di una fiammella. I Penati erano invece gli spiriti protettori di una famiglia e della sua casa, e anche dello Stato. Inoltre erano venerati i Mani, cioè le anime dei defunti, che tenevano unita la famiglia.

Anche i contadini avevano un dio tutelare: si chiamava Termine e proteggeva i confini dei loro campi. Le pietre che indicavano il limite di un campo erano dette «terminali» e potevano essere piantate solo dopo aver reso sacrifici al dio Termine.

All’inizio, quindi, Roma non fu altro che un piccolo villaggio di rozze capanne di argilla con tetti di paglia; gli archeologi moderi hanno trovato tracce di antiche capanne rettangolari o ellittiche di 5 metri per 3 metri e mezzo, oltre a sepolcreti con numerose tombe. I suoi abitanti, che non dovevano essere più di un centinaio, erano contadini e pastori: coltivavano grano, ulivo e vite; tenevano pecore e bestiame nei pascoli attorno al villaggio. Non conoscevano il denaro e per commerciare praticavano lo scambio in natura: i contadini offrivano latte, formaggi, ortaggi, lana e avevano in cambio dagli artigiani arnesi di metallo o di cuoio. Ognuno di essi, quando rientrava in famiglia, faceva da fornaio, da calzolaio e da sarto per procurarsi il necessario alla vita.

A memoria di questi tempi antichissimi, a Roma possiamo ammirare tra le altre cose ai Musei Capitolini la Lupa Capitolina (l’animale, in bronzo, tradizionalmente datato al VI secolo avanti Cristo, sembra essere invece di fattura medievale); al Museo delle Terme, un altorilievo su un’ara di Ostia raffigura la fondazione di Roma; sul Palatino ci sono ancora avanzi delle cosiddette mura di Romolo.

Lupa Capitolina

Lupa Capitolina, datazione discussa, Musei Capitolini, Roma (Italia)

Non sarebbe passato troppo tempo, che quel piccolo villaggio si sarebbe lanciato alla conquista del mondo!

(febbraio 2019)

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