Mario e Silla, gli «uomini nuovi» della Repubblica Romana
L’inizio di un’età di guerre civili che porteranno al crollo della Repubblica e alla nascita dell’Impero

L’ultimo scorcio del II secolo avanti Cristo vede lo Stato Romano in un periodo di quiete e di benessere: fuori d’Italia le legioni estendono l’autorità di Roma sulla Spagna Meridionale, sull’Illiria, sulle terre attorno all’Alto Danubio, sull’Asia Minore, mentre nella capitale, dopo gli anni drammatici delle lotte fra i Gracchi e il Senato, sono tornati la pace e l’ordine. In questo scenario di apparente calma, dove però il popolo è corrotto e l’ordine politico in disfacimento, fanno la loro apparizione alcuni «homines novi» («uomini nuovi»), persone la cui carriera segnerà, in meno di un secolo, il tramonto della Repubblica Romana e l’instaurazione di fatto dell’Impero: ormai, il prestigio e il favore popolare sono destinati a passare dal Senato a singoli esponenti di famiglie quasi sconosciute, ma capaci – con il loro carisma e le loro doti – di «ispirare» i loro seguaci.

Il primo di questi «homines novi» è Caio Mario, ricco membro dei «populares», le cui ambizioni politiche sono incoraggiate e favorite dall’appoggio dell’illustre famiglia dei Metelli: Console per ben sette volte, unisce ingegno, onestà e straordinarie capacità belliche; ma è anche aspro e amaro di carattere, di temperamento irruente e rissoso, con passioni violente, ambizioni intempestive e cupidigia insaziabile; non ha una grande cultura, perché agli studi ha preferito sempre la vita degli accampamenti e la gloria militare. Negli anni 109-108 avanti Cristo presta servizio come luogotenente di Quinto Cecilio Metello Numidico nella guerra che è scoppiata in Africa contro Giugurta, conquistandosi le simpatie dei soldati per il suo valore; all’età di circa 50 anni ha raggiunto il rango di ex pretore e può vantare una carriera solida, anche se non troppo brillante, che comunque gli permette il matrimonio con Giulia, della famiglia dei Cesari (Giulia sarà la zia di quel Cesare che già Plutarco giudica «il più grande dei Romani», e che imiterà Mario nella sua vita e nelle sue imprese). Ma le cose stanno per cambiare! Radicalmente!


La guerra contro Giugurta

Facciamo un passo indietro, spostandoci nel Regno di Numidia (corrispondente all’incirca alla Libia e all’Algeria Settentrionali), una terra dove a fresche vallate si alternano sconfinate zone desertiche; la popolazione vive dedicandosi soprattutto alla pastorizia, mentre dove la terra è buona prospera l’agricoltura e sorgono cittadine. Dopo la morte di Massinissa, il Re fedele alleato di Roma, sale al trono il figlio Micipsa. Questi si occupa soprattutto di filosofia greca; i figli Adèrbale e Ièmpsale sono troppo giovani per regnare, cosicché il potere effettivo è esercitato da Giugurta, nipote del Sovrano. Una sua moneta lo raffigura come un uomo abbastanza attraente, con i capelli mossi che scendono sulle spalle, il naso prominente, gli occhi socchiusi, una bocca piccola ma ben disegnata; è intelligente, cinico, astuto e coraggioso, spregiudicato e disposto a tutto per comandare da solo. Naturalmente, quando Micipsa muore, nel 118 avanti Cristo, fra i tre coeredi scoppia subito una lotta mortale per la supremazia.

Ièmpsale soprattutto, coraggioso e deciso, si rivela il nemico più pericoloso per Giugurta, che provvede a farlo assassinare il prima possibile. La notizia del delitto si diffonde in tutto il Regno con rapidità fulminea e i Numidi si trovano divisi in due fazioni, una per Adèrbale, l’altra per Giugurta.

Scoppia la guerra: sconfitto, Adèrbale fugge dal Regno e si rifugia a Roma.

Anche Giugurta manda dei suoi ambasciatori nella città capitolina, per parare il colpo e probabilmente per cercare sostenitori a suon di quattrini. Le due parti sono convocate in Senato, dove Adèrbale tiene un rovente discorso contro Giugurta e chiede l’appoggio di Roma per punire l’usurpatore. I legati di Giugurta difendono come possono l’opera del loro capo, e nella delibera finale il Senato – che non vuole inimicarsi Giugurta – invia in Numidia una commissione che indaga, interroga e alla fine divide il Regno in due parti: a Giugurta viene data quella orientale (la migliore), corrispondente più o meno alla Libia, mentre Adèrbale ottiene quella occidentale, l’odierna Algeria del Nord, con la capitale Cirta (l’odierna Costantina). Siamo nel 115 avanti Cristo.

È ovvio che Giugurta non si accontenti di possedere «mezzo» Regno e così, verso la fine dell’anno successivo, invade la porzione della Numidia che è toccata al cugino e lo costringe a rinchiudersi in Cirta.

La capitale è una città che potremmo definire «internazionale», abitata da Numidi, da Greci e da moltissimi Italici, commercianti e speculatori, che sono cittadini romani. Questi, che si vedono esposti alla rovina e al pericolo, mandano ambascerie a Roma con decise e furenti richieste perché la Repubblica intervenga. Ma lo Stato non può far nulla, dato che dall’Europa Settentrionale e Centrale stanno scendendo verso i confini d’Italia enormi masse di Germani.

Si decide perciò di limitarsi a inviare due ambascerie, che dopo lunghissime confabulazioni tornano indietro senza aver concluso nulla. Nel frattempo Giugurta, furbo e tenace, trionfa: Cirta capitola alla fine della primavera del 112 avanti Cristo, Adèrbale viene assassinato con crudeltà, tutti i Numidi adulti e gli Italici sono massacrati dalle truppe vincitrici.

Appena la notizia giunge a Roma, scoppia un putiferio. Il Senato, accusato di essersi lasciato corrompere dall’oro di Giugurta, tronca ogni indugio e dichiara la guerra. È allestito un corpo di spedizione, che sbarca sulle coste africane e inizia le operazioni.

Giugurta comprende che la situazione rischia di prendere una brutta piega; si reca al campo romano dichiarandosi pronto ad accettare qualsiasi condizione pur di evitare il conflitto. Il comandante romano, Lucio Calpurnio Bestia, decide di non infierire, si limita a infliggere a Giugurta il pagamento di una somma e lo obbliga a consegnare gli elefanti da guerra. Quindi gli restituisce il Regno: è l’anno 111 avanti Cristo.

Molti, a Roma, non sono soddisfatti di una simile soluzione: nelle piazze e davanti al Senato si riuniscono molte minacciose assemblee popolari, che invocano che sia Giugurta stesso a venire nella capitale per discolparsi. Il Senato manda al Re Numida un pretore, perché lo conduca in Italia con un salvacondotto. Questi viene, si presenta in Senato, è interrogato ma trova un alleato in un tribuno, che pone il «veto» alla prosecuzione del dibattito (effetto questo, con tutta probabilità, dell’oro con cui Giugurta si è fatto precedere a Roma...). «O città venale, tu sarai perduta quando troverai un compratore» commenta il Re Numida.

Il processo viene così interrotto, ma il fatto esaspera il popolo in maniera pericolosa. Per evitare tumulti di piazza, il Senato progetta di deporre Giugurta ed eleggere al trono Massiva, figlio di un fratello di Micipsa. Informato del progetto, che per lui significherebbe la fine, Giugurta – rimasto in Roma – fa assassinare Massiva nella stessa città capitolina. Il delitto fa precipitare gli eventi: Giugurta è cacciato da Roma e la guerra viene subito ripresa.

Le operazioni sono condotte con fiacchezza in un territorio desertico, privo di strade, abitato da tribù bellicose e ostili; ai primi del 109 avanti Cristo l’esercito romano è disfatto dai Numidi.

Una nuova ondata di malcontento investe Roma: vengono istituiti processi con condanne severe ai capi militari responsabili, disordini, accuse e controaccuse; il tribuno Caio Mamilio Limetano istituisce una commissione per indagare se vi sia stata corruzione nelle trattative con Giugurta, e parecchi membri dell’aristocrazia e del Senato sono incriminati (le tangenti da essi ricevute sono, in realtà, i doni tradizionali di un Re-cliente ai suoi patroni romani, che accettandole si macchiano però di tradimento perché antepongono gli interessi del cliente al loro dovere verso lo Stato). Tutto ciò, in ogni modo, porta a un buon risultato, nel senso che il Senato decide che è ora di farla finita e di impegnarsi a fondo per eliminare il diabolico avversario.

Il comando dell’esercito viene affidato a Quinto Cecilio Metello, il miglior Generale del tempo, che ha fama di uomo onesto ed energico. Questi fra i suoi luogotenenti sceglie Caio Mario, che – non essendo, a differenza di Metello, un aristocratico – tratta con alterigia.

Sbarcato in Africa, Metello riorganizza con pugno di ferro l’esercito e inizia una lunga e difficile campagna in quelle terre sconosciute e nemiche. Giugurta riesce a ottenere l’aiuto del suocero Bocco, Re dei Mauri (all’incirca gli odierni Marocchini), si ritira verso l’interno e inizia una difesa disperata fra le montagne selvagge.

La guerra si trascina così per oltre due anni, fra piccoli scontri, assedi, marce lunghe e penose, agguati; Metello adopera una tecnica da guerriglia, fa il vuoto intorno ai Numidi, incendia i campi, uccide le mandrie e distrugge i fortini. Giugurta sarebbe forse anche disposto a concludere la pace, ma Metello è risoluto a farla finita una volta per tutte. La lentezza della guerra, però, lascia scontente le classi popolari romane, che vedono ovunque corruzione e tradimenti.

Torniamo quindi al punto in cui avevamo interrotto la narrazione. La conseguenza del malcontento si vede quando, nell’anno 107 avanti Cristo, Caio Mario, ancora luogotenente di Metello, ottiene un congedo e torna a Roma per presentarsi candidato alla carica di Console. Svolge una campagna estremamente accanita contro i nobili e i Generali corrotti, compreso Metello; semina il malcontento del mondo degli affari (il ceto equestre) contro i Senatori che non sentono la responsabilità del grave momento; approfitta dei disordini popolari dei tribuni Memmio e Mamilio che aizzano la plebe contro la guerra, e viene eletto grazie al sostegno di una potente coalizione: il figlio di contadini, il candidato delle classi povere sale alla massima carica della magistratura romana. Il suo trionfo è completo quando il Senato gli affida il comando supremo dell’esercito di Numidia.

Per raccogliere tutti gli uomini validi, Mario compie una grandiosa innovazione: chiama alle armi non solo – come si è sempre fatto – i cittadini «censiti» (cioè quelli iscritti alle liste di censimento), ma anche i «proletarii» (cioè i cittadini privi di terra, coloro che come unica ricchezza hanno la prole – i figli –). Non è una cosa da poco: fino a questo momento il servizio militare è stato, per i Romani, un diritto del proprio stato di cittadini, più che un dovere; i più poveri ne sono stati sempre esclusi e i piccoli proprietari hanno provveduto a proprie spese all’equipaggiamento e all’armamento. Col trascorrere del tempo, però, questa categoria di cittadini va quasi scomparendo, cosicché Mario autorizza a entrare nell’esercito anche i nullatenenti: in tal modo egli crea il primo esercito «moderno» di Roma, fatto di soldati di mestiere che percepiscono uno stipendio per il loro servizio. Scompare così la bella figura del cittadino che imbraccia le armi quando la patria ne ha bisogno e che, conclusa la guerra, ritorna alla sua casa senza esigere alcun compenso: il nuovo esercito creato da Mario è una milizia adatta alla nuova grandiosa politica romana di espansione territoriale.

Con la riforma di Mario, l’obbligo del servizio militare dura dai 17 ai 46 anni, ma fino ai 60 si può essere chiamati a formare la riserva o per i servizi. L’arruolamento è solenne, con la recluta che giura davanti all’insegna raffigurante un’aquila d’oro; poi inizia l’addestramento: l’aspirante soldato impara a marciare, ad andare a cavallo, a nuotare e a combattere. La marcia è di almeno 30 chilometri al giorno e il legionario (il soldato della legione, il moderno reggimento) porta con sé la razione di grano, un piccone, un’ascia, una sega, una pietra per macinare il grano e tutto l’armamento; i muli trasportano le tende e le macchine per l’assedio.

Anche le armi sono modificate: al piccolo e pesante scudo di ferro, Mario ordina che si sostituisca uno scudo ovale più grande e nel medesimo tempo più leggero perché fatto con legno rinforzato da pelle di bue. Questo scudo è anche una vera arma di offesa, perché può essere diretto con forza a colpire l’avversario al volto. Le altre armi, uguali per tutti, sono l’elmo, la corazza, il «pilum» (un giavellotto) e il gladio (la spada di tipo iberico).

Il numero dei soldati che formano la legione è aumentato da 4.500 a 6.000 ed è abolita la suddivisione su tre file di «astati», «principi» e «triari». La legione viene ripartita in 10 coorti di 600 uomini ciascuna; ogni coorte è, a sua volta, divisa in tre manipoli (200 uomini) formati ciascuno da due centurie. Ogni legione, durante le marce, è affiancata da 300 cavalieri che in combattimento aggirano il nemico con rapidi spostamenti e alla fine di una battaglia vittoriosa lo inseguono e lo sterminano durante la fuga. I volontari sono stranieri e formano la fanteria ausiliaria: arcieri e frombolieri iberici coprono in battaglia le operazioni dei legionari. Il genio militare è eccezionale: i genieri romani sanno improvvisare la costruzione di ponti, di strade, di acquedotti e di tutto quello che serve all’esercito nei suoi massicci spostamenti; molte delle loro opere esistono ancora e sono tuttora funzionali.

Il massimo grado di comando a cui può aspirare un legionario è quello di centurione per la fanteria e di decurione per la cavalleria (equivalenti ai nostri ufficiali), mentre gli alti gradi sono riservati ai rampolli delle famiglie nobili; a guerra finita, legionari e centurioni possono scegliere se essere pagati in denaro o avere assegnate delle terre da coltivare (un modo di pagamento, almeno nei primi tempi, è con razioni di sale, un bene prezioso, da cui la parola «salario» come sinonimo di «stipendio»). Per contro, la disciplina è durissima: per le infrazioni si va dalla flagellazione alla morte, in caso di fuga o se la sentinella si è addormentata; quando un intero reparto si dimostra vile, si opera la decimazione: un uomo ogni dieci viene giustiziato.

Il campo militare (castra) è un esempio di praticità e armonia, con le tende e le baracche per i soldati, il quartier generale, l’infermeria, la prigione e la sussistenza per conservare i viveri; ancora oggi molte città, con le loro vie e piazze, conservano le tracce di questa sistemazione.

Questo nuovo genere di esercito porterà un gravissimo danno all’ordine della Repubblica: i nuovi soldati, infatti, sono legati da grande devozione e interesse ai propri comandanti, che li stipendiano e sotto i quali servono a lungo. Più che militare per lo Stato, ora essi militano per il loro Generale: se questi partecipa alle contese politiche, i suoi uomini sono pronti, per sostenerlo, a impugnare le armi contro altri cittadini. Lo stesso Caio Mario sarà il primo a sperimentare le conseguenze funeste di questo stato di cose.

Con le sue nuove forze, Mario dà inizio alla campagna africana. Assale qualche città, batte le forze numide soprattutto per opera del comandante della cavalleria, Lucio Cornelio Silla, e nello stesso tempo, per mezzo di trattative segrete condotte sempre da Silla, cerca di staccare Bocco da Giugurta e farsene un alleato, promettendo parte dei possedimenti del genero. Il Re dei Mauri capisce che la causa di Giugurta è ormai perduta e medita di tirarsi fuori dal gorgo prima di esserne travolto: perciò, nella primavera del 105 avanti Cristo, si accorda con Mario per preparare la trappola in cui far cadere il Re Numida. Bocco invia a Giugurta un messaggio, col quale lo invita a un incontro per discutere le modalità della pace coi Romani. Questi, dopo aver esitato a lungo, si reca all’appuntamento: così viene catturato, incatenato e trascinato fino al campo di Mario.

Il 1° gennaio dell’anno 104 avanti Cristo, Mario celebra a Roma il suo trionfo: passa in mezzo a una folla festante, con Silla al fianco (che, tanto per sottolineare le sua parte preponderante nella conclusione della guerra, si fa forgiare un anello con incisa la scena di Giugurta nell’atto di essergli consegnato per mano di Bocco). Dietro la sua biga, in catene, ridotto a uno spettro, cammina colui che è stato il potente Re di Numidia, assieme ai figli, ai parenti, ai cortigiani. Terminato il trionfo, Giugurta è rinchiuso nel carcere Tulliano (l’odierno carcere Mamertino), una specie di orrendo sepolcro, gelido e umido, scavato sotto il Campidoglio; qui le guardie gli strappano di dosso la tunica leggera che indossa, e per portargli via l’orecchino d’oro gli strappano con forza tutto il lobo dell’orecchio.

Quando è spinto verso la segreta, e buttato giù, Giugurta, con un ultimo guizzo di ironia, esclama con un sogghigno: «Per Ercole! Com’è freddo questo vostro bagno»; in prigione egli, abituato al clima caldo dell’Africa, dopo sei giorni di tormento per il freddo e la fame, muore strangolato. Termina così la guerra giugurtina, e le figure di Mario e di Silla cominciano a dominare la scena di Roma.


L’ascesa di Mario

Terminata la guerra contro Giugurta, Mario deve subito affrontarne un’altra, molto più pericolosa, contro i Teutoni e i Cimbri o Cimmeri, due popoli germanici partiti dalle loro sedi originarie della penisola dello Jutland a causa di un maremoto e che già dal 113 avanti Cristo – come abbiamo accennato più sopra – sono entrati in Italia dalle Alpi Orientali. Hanno percorso l’intera Pianura Padana avanzando un poco ogni primavera, guerreggiando, soffermandosi a lungo in un posto e ovunque depredando, poi sono passati in Gallia sostando nella ricca e tiepida Provenza. Tutti gli eserciti romani che hanno tentato di ostacolare i loro movimenti sono stati battuti; nell’ultimo scontro, ad Arausio (Orange), il più grave disastro militare romano dopo Canne, più di 60.000 legionari hanno trovato la morte.

Il popolo e il Senato si rivolgono a Mario, implorandolo di salvare la patria dal nuovo pericolo.

I Teutoni sono 300.000 uomini combattenti, con al seguito un numero maggiore di figli e di mogli, non una semplice invasione ma proprio la migrazione dell’intero popolo; a loro si aggregano oltre 30.000 Ambroni. Plutarco, nella Vita di Caio Mario (11) li descrive «irresistibili per focosità e audacia, nelle azioni ravvicinate e nelle battaglie attaccavano con la rapidità e la violenza di un fuoco, sì che nessuno poteva resistere al loro assalto, ma tutto quello che trovavano sul loro cammino afferravano e trascinavano via come preda».

Per affrontare un nemico tanto potente, Mario provvede innanzi tutto a sottoporre le sue truppe a pesanti esercitazioni: le allena facendole correre in ogni maniera, compiendo lunghe tappe, costringendole a portare sulle spalle il bagaglio e a prepararsi da sé il rancio, tanto che quei soldati che amano la fatica ed eseguono in silenzio e senza riluttanza gli ordini impartiti, vengono in seguito chiamati da tutti «muli mariani». Oltre a rinforzare il fisico dei suoi soldati, Mario li incoraggia a osare e, più importante di tutto, a farsi conoscere da loro. I suoi modi arcigni nel comandare e l’inflessibilità nel punire finiscono per essere giudicati da tutti «salutari»; la violenza del suo temperamento, l’asprezza della voce e la ferocia del volto sono ritenuti temibili non tanto per i suoi, quanto per i nemici. Soprattutto è stimato per la rettitudine dei suoi giudizi, quando premia e addita come esempio onorevole il colpo di spada con cui un giovane soldato, Trebonio, uccide Caio Lusio, nipote dello stesso Mario, per difendersi da un tentativo di stupro.

Nel 102 avanti Cristo, Mario affronta i Teutoni presso il fiume Rodano. I nemici si presentano davanti all’accampamento romano in numero sterminato, ributtanti d’aspetto, con un forte vocio e strepito. Dopo aver tentato invano d’indurre gli avversari a battaglia, e respinti in alcuni assalti al campo, si rimettono in marcia e per sei giorni sfilando ininterrottamente davanti alla palizzata, numerosi come sono, chiedendo ai Romani, tra risa e lazzi, se hanno qualcosa da mandare a dire alle mogli, perché le avrebbero incontrate quanto prima. Mario li lascia passare, poi piomba addosso agli Ambroni mentre hanno i corpi appesantiti dall’aver mangiato a più non posso e le menti svaporate dal vino puro; è uno sterminio. Le stesse donne degli Ambroni scendono in campo, armate di spade e scuri, con grida terribili, colpendo sia i loro uomini come traditori, sia i Romani come nemici, insensibili a ferite e mutilazioni, invitte d’animo fino alla morte. Pochi giorni dopo Mario si scontra con l’immenso esercito dei Teutoni, costringendo gli avversari a dare battaglia nei pressi di Aquae Sextiae (Aix-en-Provence) su un terreno in pendenza, che avrebbe reso i loro colpi privi di vigore e senza forza l’urto degli scudi. Nel frattempo, nasconde 3.000 legionari guidati da Claudio Marcello in valli ombreggiate d’alberi, che piombino dietro i nemici a battaglia iniziata. Respinti prima verso la pianura, i Teutoni sono poi fatti a pezzi dalle truppe di Marcello che si scagliano gridando sulla loro retroguardia, scompaginandone le file. I Romani nell’inseguimento prendono vivi o abbattono oltre 100.000 uomini, e in più s’impadroniscono dell’accampamento nemico con tende, carri e vettovaglie. Si dice che a quel tempo i Marsigliesi abbiano fatto i recinti dei loro vigneti con le ossa dei morti e che il terreno sia divenuto tanto grasso per i cadaveri, da produrre una quantità sovrabbondante di frutti.

Mario non è solo un uomo inflessibile con i suoi ma anche un Generale che non concede tregua al nemico, ed è impietoso, non gli ripugna la strage; a un’ambasceria di Cimbri, che gli dice che sono pronti ad arrendersi per un po’ di terra da coltivare in cambio e delle città dove vivere, risponde: «I vostri amici teutoni l’hanno già avuta, la terra, e toccherà anche a voi... per l’eternità». I Cimbri, forti di 200.000 uomini, mostrano sprezzo nei confronti del nemico e fanno mostra del loro vigore e della loro audacia sostenendo nudi le nevicate, arrampicandosi sulle cime delle Alpi attraverso i ghiacci e la neve alta, ponendo sotto i corpi gli ampi scudi come fossero slitte e lasciandosi scivolare lungo i pendii delle rocce lisce e spaccate, di cui non si vede il fondo. Mario li raggiunge in Italia, ai Campi Raudii, in una località del Ferrarese chiamata Vercellae (a torto identificata da alcuni storici moderni con un’altra località di ugual nome corrispondente all’odierna Vercelli). I suoi 50.000 legionari danno battaglia in estate, con i Romani aiutati nella lotta dalla canicola e dal sole che dardeggia negli occhi dei nemici: i Cimbri, abituati ai climi freddi e ai luoghi ombrosi, sono depressi dal caldo, sudano e ansimano. I legionari li attaccano di corsa, li incalzano fino al campo; qui le donne cimbre, vestite di nero, uccidono chi fugge, strangolano con le loro mani i figli più piccoli, li gettano sotto le ruote dei carri e gli zoccoli delle bestie, e infine si sgozzano. Gli uomini si legano per la gola alle corna o alle gambe dei buoi, che pungolano e fanno correre così da essere trascinati o calpestati miseramente. Secondo Plutarco oltre 120.000 sono i Cimbri morti in battaglia, più di 60.000 sono catturati e ridotti in schiavitù; oggi si ritiene che i Cimbri morti siano stati 65.000, mentre tutti gli altri sono stati resi schiavi.

Poche volte, nella Storia, si sono visti popoli scomparire in modo così totale, e mai in un così breve lasso di tempo: i Cimbri e i Teutoni cessano del tutto di esistere e di loro non rimane che l’aggettivo «teutonico» come sinonimo di «tedesco».

Tornato a Roma, Mario celebra un trionfo nuovo e più grandioso del precedente, viene proclamato «terzo fondatore dell’Urbe» dopo Romolo e Camillo.

Anche nella battaglia contro i Cimbri, Mario ha avuto al fianco, come luogotenente, Lucio Cornelio Silla; questi ha osservato l’agire del suo superiore pensando fra sé che egli saprebbe fare ancora meglio.

Nell’anno 100 avanti Cristo, Mario viene eletto Console per la sesta volta. Ha ora il compito di governare in pace la sua città, che ha difeso tanto bene in guerra: ma si accorge che è per lui più facile sorvegliare ed esortare i soldati, che far leggi e discutere in Senato; più semplice battere i nemici sul campo di battaglia, che difendersi dai complotti e dalle invidie dei rivali in politica. Scoppiano dei tumulti, che seda utilizzando i suoi veterani e assassinando anche, tra gli altri, il tribuno della plebe Saturnino che era suo alleato ma troppo avverso alla classe senatoria; per frenare la ribellione dei popoli italici concede loro la cittadinanza romana, compiendo così, in qualche modo, l’unità d’Italia. Non ottiene però dagli «optimates» il riconoscimento che si aspetta per i suoi servigi; corrucciato si ritira a vita privata, in attesa di riabilitarsi.


La guerra contro Mitridate

Una mattina dell’89 avanti Cristo, il Senato Romano è radunato a deliberare nel tempio di Bellona quando un passero entra volando nell’aula, stringendo nel becco una cicala; ne lascia cadere un pezzo e, trattenendo l’altro, si allontana. Dato che a tutti gli avvenimenti inconsueti si attribuisce un valore soprannaturale, sono chiamati gli àuguri perché ne spieghino il significato; il loro responso è che il segno preannunzia ai Romani che gravi disordini e lotte stanno per sorgere nella loro città.

Gli eventi funesti hanno principio in Oriente, sul Mar Nero, e di preciso nel Regno del Ponto. Questo è governato da Mitridate, un Sovrano energico e famoso per il suo odio contro i Romani. Una testa in marmo conservata al Museo del Louvre a Parigi, che lo ritrae col capo coperto da una pelle di leone, e una sua moneta d’argento, lo raffigurano come un uomo estremamente avvenente, col viso tondo dai lineamenti delicati, ben proporzionato, con capelli fluenti in morbide ondulazioni: quest’uomo «bello e dannato» parla 20 lingue, ama la cultura, la musica e le arti, e a tali doti accompagna una malvagità ai massimi livelli (per prendere il potere ha ucciso la madre e il fratello). Già nella sua infanzia si è dovuto difendere dalle insidie di coloro che lo educavano, e che hanno fatto di tutto per ucciderlo al fine di ereditare le immense ricchezze che possedeva: pretendevano che compisse esercizi rischiosi come cavalcare su un cavallo non domato e lanciare contemporaneamente dei giavellotti, ma Mitridate, grazie alla sua destrezza, è riuscito sempre a sventare questi progetti. Allora hanno pensato di avvelenarlo, ma il giovane, prevedendo questa possibilità, ha abituato il suo corpo a sopportare il veleno ingerendone dapprima minime quantità e aumentando via via la dose, fino a giungere al punto che il veleno non è più nocivo alla sua salute: questo fenomeno va ancora oggi sotto il nome di «mitridatismo». A questo punto, i suoi nemici hanno pensato di togliergli la vita mediante un agguato; Mitridate, avendolo capito, ha escogitato di evitarlo dedicandosi alla caccia: abbandonata la reggia, ha incominciato una vita errabonda, girovagava fra le foreste, per i monti, si rifugiava negli anfratti che la montagna gli offriva, in sette anni non ha dormito mai in un posto fisso e nessuno ha mai potuto sapere dove si trovasse. Un tale genere di vita lo ha salvato dalle imboscate dei suoi nemici e ha contribuito a rendere forte e robusto il suo corpo.

Un anno dopo il funesto presagio di cui si è detto sopra, giunge a Roma la notizia che il Re Mitridate ha invaso la Bitinia, la Frigia e la Provincia Romana dell’Asia, basando la sua propaganda sulla rapacità e il malgoverno dei magistrati romani; la città di Efeso è stata messa a sacco e, dietro ordine del Sovrano, 80.000 mercanti e coloni italici, che si erano stabiliti in quelle regioni, sono stati trucidati, mentre l’Ambasciatore Manio Aquilio è stato giustiziato pubblicamente versandogli in gola oro fuso. Tutta la Grecia, sottomessa a Roma già da mezzo secolo, esulta e si unisce a Mitridate pensando, che, finalmente, sia giunto il momento di rovesciare la tirannia romana.

Per porre rimedio a tanta sciagura vi sono a Roma due «homines novi» di grandi capacità: Mario, capo della plebe, e Silla, leader dei patrizi. La guerra contro Mitridate desta l’interesse di entrambi i Generali per le enormi ricchezze che il Re del Ponto possiede e delle quali il vincitore si impadronirebbe. Ricchezza, è bene ricordarlo, significa soprattutto aumento di influenza politica in Roma.

In un primo momento, si delibera che il comando della spedizione mitridatica venga dato a Lucio Cornelio Silla, che nella recente ribellione delle popolazioni italiche ha svolto molto bene il compito che gli è stato affidato. Silla è di nobile famiglia, di aspetto signorile, con gli occhi cerulei e uno sguardo reso più terribile dalle pelle del viso, scabra e chiazzata di puntini rossi, tra cui s’inframmezzano qua e là macchie di bianco. Colto e ambiziosissimo, in astuzia e potenza non vuole essere superato da alcuno; è generosissimo con gli amici, ma di una crudeltà estrema con i nemici, e odia la plebe. Ama il lusso, la dolce vita e i piaceri, ed è incline allo scherzo; vive circondato da una corte di prostitute, gladiatori e poeti maledetti, condividendo con mimi e buffoni una vita sregolata, arrivando a trascurare gli affari di Stato e degradando la dignità della carica che ricopre.

Mario non si rassegna a una tale decisione del Senato, raccoglie sotto il suo comando una banda armata di 3.000 uomini e provoca dei tumulti contro i sostenitori del rivale; questi all’improvviso lascia Roma e raggiunge il proprio esercito che ha raccolto a Nola, in Calabria.

Il Senato, a questo punto, affida a Mario la conduzione della guerra e invia subito a Nola dei tribuni perché prendano in consegna l’esercito di Silla.

Ma le truppe – eccetto quasi tutti gli ufficiali superiori e i nobili conservatori – sono ormai più fedeli al comandante che alla patria, e questa sarà una costante dei decenni successivi fino ad Augusto; poco disposte ad assoggettarsi a Mario, arrivano a lapidare i messi giunti dalla capitale. Poi Silla, alla testa di 35.000 uomini, marcia verso Roma. È il primo atto della guerra civile, Romani contro Romani. I soldati di Mario, male armati, cercano di fronteggiare i Sillani alle porte della città scagliando dai tetti tegole e sassi, ma alla fine sono sopraffatti. Silla diviene padrone di Roma: dispone di un esercito personale e nessuno può opporsi alla sua volontà.

I magistrati, a questo punto, deliberano che Mario debba essere ucciso. Per eseguire la sentenza, scelgono un guerriero cimbro: il Generale ha vinto e sterminato il suo popolo e non c’è quindi persona che abbia maggior ragione di odiarlo. Il Cimbro infatti accetta l’incarico, si arma di una spada ed entra nella stanza dove sta rinchiuso Mario. Il locale è semibuio, e al guerriero pare che gli occhi del Generale splendano nella penombra; poi si ode la sua voce che, alta, senza tremare, esclama: «Oseresti tu uccidere Caio Mario?». A quel suono, a quelle parole che sembrano un comando, dal cuore dell’aggressore svaniscono tutta l’ira e tutto l’ardimento, subentrano rispetto e timore; rimane un poco immobile, esitante, poi fugge di corsa dalla stanza, torna dai magistrati, getta in terra la spada e grida: «Non si può uccidere Caio Mario!». I magistrati rimangono allibiti, poi si consultano di nuovo e riflettono sulla sentenza data; decidono infine di mutare la condanna a morte nell’esilio: «E preghiamo gli dèi» esclamano «che ci perdonino, se scacciamo Mario dalla nostra città». Così, l’uomo che tante volte ha salvato Roma, è costretto a riparare prima a Minturno, poi in Africa. Appena sbarcato, lo raggiunge uno schiavo del Governatore Romano, che lo invia ad andarsene; a lui, Mario risponde: «Va’ a dire al tuo padrone che hai visto Caio Mario solo e infelice seduto sulle rovine di Cartagine».

Liquidato Mario, Silla può finalmente dedicarsi alla guerra contro Mitridate.

Mentre a Roma fervevano i preparativi per il conflitto, Mitridate andava estendendo le sue conquiste: il suo esercito giunge fino in Tracia e in Macedonia.

Non appena le truppe di Silla sbarcano sul suolo greco, la Penisola Ellenica denuncia la sua alleanza a Mitridate e passa nuovamente dalla parte di Roma. La sola Atene, comandata da Aristione, un tiranno licenzioso e crudele, resiste a Silla.

Il Generale Romano prepara immediatamente un piano per attaccare la città riottosa. Impegna ben 2.000 muli alle macchine da guerra e, per procurarsi il legno necessario a costruire i carri militari, fa abbattere i maestosi alberi dei boschi sacri agli dèi; i templi di Olimpia e di Lesbo, famosi e venerati in tutto il mondo pagano, che nessun Generale Romano in passato ha voluto profanare, vengono per suo ordine devastati e spogliati di tutte le loro ricchezze. Quando alcuni emissari di Aristione vanno da lui per trattare la pace, magnificando Teseo, Eumolpo e le guerre persiane, Silla risponde: «Tornatevene indietro, o beata gente, con i vostri bei discorsi. Io sono stato mandato ad Atene dai Romani non a imparare la storia, ma a domare la ribellione».

Al momento propizio, i soldati di Silla muovono contro Atene, scalano le mura dalla parte dell’Eptacalco (dove l’accesso non è sorvegliato) ed entrano nella città. È mezzanotte. Atene è svegliata dal fragore di mille tube e corni, gli abitanti accorrono alla difesa della loro città ma nulla possono contro l’impeto dei legionari che percorrono le strade con le spade in mano. Il massacro che ne segue entra nella leggenda, si dice che il sangue della gente trucidata abbia bagnato un intero quartiere della città, e che il numero delle persone che si sono tolte la vita per la disperazione di vedere Atene vicina alla distruzione totale sia stato non inferiore a quelle sgozzate dal nemico.

Dopo la sconfitta di Atene e l’uccisione del suo Re, Silla può muovere direttamente contro Mitridate.

L’esercito di Roma e quello del Ponto si trovano l’uno di fronte all’altro sulla piana di Cheronea. Silla schiera 1.500 cavalli e meno di 15.000 fanti, mentre Mitridate ha con sé 10.000 cavalli, 100.000 fanti (tra cui 15.000 schiavi nella prima linea) e 90 carri falcati a quattro cavalli. La sproporzione di forze è notevole, lo spettacolo offerto dall’esercito del Ponto è magnifico e imponente: immense schiere di soldati, scintillio di armi di bronzo e di ferro, balenio delle corazze decorate d’oro e d’argento, ondeggiare di tuniche, di mantelli e di pennacchi dai vari colori.

Sin dall’inizio della battaglia, Silla dà ordine di occupare il colle Turio, ottimo punto strategico, cosa che riesce a fare grazie a due cittadini di Cheronea che guidano un pugno di soldati per un sentiero sconosciuto al nemico. La loro apparizione provoca scompiglio nei soldati del Ponto, che nella fuga provocano nel loro schieramento disordine e paura. Silla sferra l’attacco in quel momento, impedendo ai carri falcati di prendere velocità, cosicché la forza con cui cozzano contro i Romani è tanto debole che i legionari non solo li respingono, ma si mettono a battere le mani ridendo e chiedendo il bis, come si usa fare nell’ippodromo durante le corse dei cavalli. Poi sguainano le daghe, colpiscono di lato le lunghe picche del nemico e vengono al corpo a corpo. Quando la massa dell’esercito di Mitridate piomba sui legionari per stringerli a destra e a sinistra, come nella morsa di una tenaglia, il Generale Romano con una manovra fulminea si porta sulla destra, ottenendo una vittoria, poi ripiega sulla sinistra e costringe il nemico alla fuga.

Le perdite dell’esercito di Mitridate sono notevoli: solo 10.000 uomini riescono a mettersi in salvo; Silla riferisce nelle sue memorie che dei suoi soldati ne mancavano solo 14, e aggiunge che due di questi rientrarono la sera al campo.

Potendo contare ancora su un esercito forte e agguerrito, Mitridate non si rassegna alla sconfitta e dopo due mesi invade la Beozia, una regione della Grecia, con i suoi soldati più agguerriti e disciplinati.

Romani e Mitridatici si affrontano nuovamente nell’aperta pianura di Orcomeno, tutta uguale e senza un albero, nei pressi della palude limacciosa dove si perde il fiume Mela.

L’inizio dello scontro è sfavorevole ai Romani. Silla riesce a fatica ad arrestare i legionari che stanno per volgere in fuga. Ristabilisce l’ordine, smorza l’impeto degli avversari e nel contrattacco li travolge, prende d’assalto l’accampamento nemico e lo occupa senza incontrare alcuna resistenza. Le paludi rigurgitano del sangue dei caduti, lo stagno si riempie di cadaveri. Narra Plutarco che, ancora 200 anni dopo la battaglia, chi fosse passato accanto alla palude di Orcomeno avrebbe potuto trovare ancora, immersi nel fango, archi, elmetti, frammenti di corazze di ferro e daghe pontiche.

Dopo questa nuova sconfitta, Mitridate è costretto a chiedere la resa. Il Re e Silla si incontrano a Dardano di Troade per stipulare la pace. Per impressionare il suo avversario, il Sovrano del Ponto si presenta con un seguito di 20.000 fanti, 6.000 cavalli e un grosso nucleo di carri falcati. Silla, per nulla intimorito, ha con sé solo quattro coorti e 200 cavalli. Nel trattato di pace dell’85 avanti Cristo, Mitridate è costretto a consegnare 2.000 talenti, 70 navi e 500 arcieri, e si impegna inoltre a sgombrare tutte le terre occupate.

Ci sono parecchie vicende «oscure» sulla conduzione di questa guerra, come il fatto che Silla abbia rifiutato di cedere il comando al Console Lucio Valerio Flacco nell’86 avanti Cristo, così come di aver vanificato i successi militari contro Mitridate di Caio Flavio Fimbria, uccisore e successore di Flacco: attaccato da Silla, Fimbria si suicidò. La rinuncia a combattere il più temibile nemico di Roma per aver mano libera nell’eliminazione di Fimbria ha richiesto molte e accurate spiegazioni nelle memorie di Silla, un documento scritto per essere pubblicato e che aggiunge interessanti e vividi particolari alle fonti storiche del periodo.


La dittatura di Silla

Carico di bottino e di onori, Silla fa ritorno a Roma due anni dopo, e qui lo attendono gravi notizie: durante la sua assenza il partito di Mario, con l’aiuto di Cinna e dei veterani fedeli al loro comandante, ha preso il sopravvento ed è salito al potere, uccidendo o scacciando tutti gli amici di Silla; anche la casa di Silla è stata distrutta. Mario è stato eletto Console per la settima volta, ma dopo pochi giorni è morto di malattia, all’età di 70 anni, lasciando il Governo nelle mani dei suoi fedeli.

Silla non si perde d’animo, con la collaborazione degli uomini più in vista (come Gneo Pompeo, Metello Pio e Crasso) sconfigge senza troppa fatica le forze rivali guidate da Norbano, Carbone e Mario il Giovane. Viene eletto dittatore a vita con il compito di rivedere la Costituzione e decide, questa volta, di far piazza pulita di tutti i Mariani, per non aver più nulla a temere in futuro. Le sue vendette si trasformano subito in veri massacri, centinaia di cittadini vengono uccisi per le strade della capitale. Egli stesso prepara gli elenchi dei nomi di coloro che devono essere uccisi: questi elenchi, detti «liste di proscrizione», ogni giorno vengono esposti in pubblico nel Foro, e chiunque – anche uno schiavo – può impunemente farsi esecutore della sentenza, ottenendo oltretutto un premio di due talenti; invece, chi ospita in casa un proscritto, anche se parente, è proscritto a sua volta. I figli e i nipoti dei proscritti sono privati dei diritti politici e tutte le loro proprietà vengono confiscate. Ci vanno di mezzo anche quelli che non c’entrano per niente, basta che siano ricchi; molte persone sono uccise a causa di inimicizie private, senza aver avuto nulla a che fare con Silla. Gli abitanti di Preneste, che hanno dato aiuto a Mario il Giovane, sono sgozzati dal primo all’ultimo, in numero di 12.000. Si arriva addirittura al paradosso di Lucio Catilina che ammazza suo fratello sebbene non sia proscritto e, recatosi da Silla, ottiene che il morto venga proscritto come se fosse ancora in vita. Le proscrizioni non interessano soltanto Roma, ma ne avvengono in ogni città d’Italia, così che non rimane tempio di dèi, focolare d’ospite o casa paterna che non siano insozzati dal sangue degli uccisi: ci sono mariti sgozzati nelle braccia delle mogli, figli massacrati nelle braccia delle madri. Tre anni dura la dittatura di Silla: in questo lasso di tempo, il dittatore toglie alla plebe tutti i vantaggi che erano stati concessi dai Gracchi e da Mario e rimette il Senato completamente nelle mani degli aristocratici. Inoltre si fa votare dal popolo l’immunità per quanto è accaduto in passato, si fa attribuire per il futuro il potere di mandare a morte dei cittadini, di confiscare beni privati, di fondare colonie, di costruire o distruggere città, di togliere o attribuire Regni a suo piacimento. Governa in modo altezzoso e dispotico, assegna i territori di popoli interi o il godimento delle rendite di una città ad alcune donne per la loro avvenenza, a cantanti, a mimi, a schiavi liberati; impone divorzi e matrimoni a donne con uomini che a esse ripugnano, anche se sono sue parenti e già incinte del legittimo marito; offre banchetti sontuosi al popolo, con vini invecchiati di 40 anni e oltre, e vivande buttate nel Tevere perché sovrabbondanti rispetto al bisogno. I suoi metodi rivoluzionari e incostituzionali sono usati per sostenere l’antico regime tradizionale e non solo per ambizione personale, ma inevitabilmente finiscono per costituire un precedente e un esempio per gli ambiziosi che aspireranno al potere assoluto.

Nel 79 avanti Cristo, Silla si ritira di propria volontà in una sua villa a Cuma in compagnia di Valeria, la giovane moglie conosciuta a uno spettacolo di gladiatori quand’era già separata dal marito; tiene presso di sé attrici, suonatrici di liuto, gente di teatro e soprattutto Metrobio, un attore che sostiene parti femminili, non più giovane, per il quale Silla prova un’irrefrenabile passione amorosa. Qui, bevendo in loro compagnia tutto il giorno, sdraiato su un divano, nel giro di pochi mesi, muore, forse di cancro. Plutarco ne attribuisce la causa a un’ulcera all’intestino che gli ha guastato le carni, che si sono trasformate tutte in pidocchi. Fino agli ultimi giorni non tralascia di trattare gli affari pubblici e quando gli dicono che un magistrato, Granio, attende la sua morte per non pagare un debito che ha con lo Stato, Silla lo manda a chiamare nella sua stanza e lo fa strangolare dalle sue guardie; ma per il troppo gridare e per l’eccitazione l’ascesso all’intestino si spezza, vomita una grande quantità di sangue e la mattina dopo spira. Ha disposto che sulla sua tomba sia incisa l’epigrafe: «Nessun amico mi ha reso servizio, nessun nemico mi ha recato offesa che io non abbia ripagato in pieno». È vero!

Silla lascia due bambini piccoli, figli della prima moglie Metella, mentre Valeria dà alla luce una bambinetta a cui viene dato il nome di Postuma. Nonostante l’opposizione di molte persone, Silla ottiene una sepoltura onorata nel Campo di Marte; le donne offrono per i suoi funerali tanti aromi da riempire 210 lettighe e da plasmare una statua assai grande di Silla stesso, e un’altra che raffigura un littore, tutta d’incenso costosissimo e di cinnamomo.

Le riforme politiche di Silla, come quelle di Mario, hanno breve durata. Ormai è chiaro che il Senato, in sé, non ha più alcun potere e non è più in grado di difendere Roma dalle ambizioni dei suoi Generali. La città è destinata a passare da una dittatura all’altra fin quando non sopravverrà a sostituirsi alla libertà democratica l’instaurazione dell’Impero.

(agosto 2020)

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