Lotte sociali nella Roma Repubblicana: patrizi e plebei
Nel II secolo avanti Cristo, i fratelli Gracchi tentarono una riforma agraria in favore della plebe; entrambi finirono male

Le vittorie su Cartaginesi e Macedoni avevano dischiuso a Roma le porte per diventare potenza egemonica nel Mediterraneo, ricca e temuta: la modesta città di pastori e agricoltori si era trasformata nella splendida capitale di un vastissimo territorio ed era ormai la più grande città del mondo occidentale. Ma non era stata solamente Roma a mutare, anche i Romani erano cambiati: i cittadini della Città Eterna, soprattutto dopo la conquista della Grecia – terra di antica civiltà – avevano imparato ad apprezzare modi raffinati di vita. Il vivere severo e parsimonioso di un tempo si era cambiato in un’esistenza oziosa e fastosa. Le conquiste e le ricchezze ottenute con le guerre non erano andate però a vantaggio di tutto il popolo: soltanto pochi ne avevano tratto vantaggio e questi erano precisamente i nobili, detti allora «ottimati» o «patrizi». Erano infatti soltanto i patrizi che riuscivano a raggiungere le più alte cariche dello Stato e il comando degli eserciti: ciò permetteva loro di accaparrarsi enormi ricchezze; con il denaro guadagnato nelle guerre, i patrizi compravano dei terreni, nel Lazio o in altre province. Questi nobili erano soliti trascorrere giornate all’insegna della tranquillità: si alzavano il mattino presto, si abbigliavano e si recavano nel vestibolo, una stanza dove stavano ad attenderli i «clienti», che erano cittadini devoti alla famiglia di un certo patrizio al quale prestavano dei piccoli servigi e gli tenevano compagnia, ricevendo in cambio un obolo quotidiano. Seguito dai suoi clienti, il patrizio usciva di casa per recarsi a far visite o per passeggiare; quasi sempre si dirigeva al Foro, dove poteva discutere un poco di politica e ascoltare gli oratori o i pubblici lettori. A mezzogiorno il patrizio rientrava in casa per consumare una colazione leggera, alla quale seguiva un breve riposo. Andava quindi al bagno nella piscina pubblica e, verso le tre del pomeriggio, era di nuovo in casa per il pasto principale della giornata. Dopo il pranzo, il patrizio si fermava a tavola per conversare con gli ospiti o per giocare a dadi. Usciva poi per l’ultima passeggiata o per recarsi al «campo di Marte» per gli esercizi ginnici o agli spettacoli nei teatri o nei circhi. Alla sera c’era un altro pasto, che spesso si prolungava fino a notte fonda.

Questo per quanto riguardava i patrizi. I restanti cittadini di Roma, cioè i plebei, partecipavano alle guerre come semplici soldati e guadagnavano poco o nulla combattendo. Quando poi tornavano alle loro case, trovavano i campi incolti e inariditi: per riprendere a lavorarli e a seminarli erano spesso costretti a far debiti, cosicché in molti casi preferivano venderli ai patrizi che diventavano, in tal modo, padroni di vaste proprietà terriere (latifondi). Una simile situazione portava i patrizi a diventare sempre più ricchi e i plebei sempre più miserabili: cominciò a diffondersi allora il fenomeno dell’urbanesimo, cioè il trasferimento di migliaia di contadini nella città. In tal modo, Roma si ingrandiva sempre più, ma non in modo ordinato: accanto agli splendidi monumenti e alle dimore sontuose dei patrizi si andavano estendendo i quartieri popolari, nei quali dimoravano i plebei. Questi abitavano in case comuni, alte quattro o cinque piani e a volte di più; il loro alloggio consisteva spesso in un solo locale arredato in modo assai modesto: pagliericci per dormire, mensole per le stoviglie, una tavola e alcuni sgabelli. Gli abiti si riducevano di norma a un semplice mantello senza maniche, di lana o di pelle, oppure alla «lacerna», una specie di tunica con cappuccio; ai piedi calzavano sandali con la suola di cuoio o zoccoli. Alcuni si dedicavano a qualche lavoro di artigianato o servivano nelle botteghe, ma la stragrande maggioranza conduceva una vita oziosa e passava la massima parte della giornata a vagabondare per le strade o a giocare a dadi nelle osterie. I plebei possedevano pochissimo denaro, ma in compenso la vita a Roma aveva un costo molto basso e spesso i patrizi facevano distribuzioni gratuite di grano, non tanto per alleviare la miseria del popolo ma per accaparrarsene le simpatie e averne il voto, soprattutto alla vigilia delle elezioni; non c’era una seria volontà di trovare una soluzione per offrire una vita dignitosa a una classe sociale ormai del tutto parassitaria.

Erano avvenute lotte sociali contro le prevaricazioni dei patrizi sui plebei. La più famosa è quella che durò quasi due secoli ed ebbe l’episodio culminante nella cosiddetta «secessione sull’Aventino», quando i plebei decisero di astenersi da ogni lavoro: sarà da questa lotta che otterranno la possibilità di eleggersi dei capi, i tribuni della plebe. Le leggi avevano dei limiti, come dimostra la vicenda del patrizio Appio Claudio che si invaghì di una bella popolana, Virginia, promessa sposa al giovane Icilio; per averla, si procurò dei falsi testimoni che sostennero che la ragazza era figlia di una sua schiava e quindi gli apparteneva; il padre della sventurata, quando vide che gliela stavano portando via, chiese di poterla abbracciare per l’ultima volta e le affondò uno stilo nel cuore, per difendere l’onore della famiglia; il popolo si recò a chiedere protezione all’esercito e Appio Claudio, incarcerato, si tolse la vita. Anche le donne parteciparono alle lotte sociali: la prima rivolta di donne avvenne dopo la Seconda Guerra Punica, quando un corteo tutto al femminile chiese l’abrogazione di una legge che proibiva gli ornamenti d’oro, i begli abiti e le carrozze – era la prima affermazione dei diritti delle donne. Nonostante questi fermenti sociali, la situazione rimaneva tendenzialmente immutata.

Nel II secolo avanti Cristo vi fu chi propose una riforma per cambiare in modo radicale le cose: questi furono i fratelli Gracchi!

I fratelli Tiberio e Caio Gracco erano due dei dodici figli di Tiberio Sempronio Gracco e di Cornelia, la figlia più giovane di Scipione l’Africano. Tiberio Sempronio Gracco era stato console e uno degli uomini più potenti di Roma: la sua autorità si fondava sia sul prestigio per le imprese militari che lo avevano visto protagonista, sia sui «clienti» che aveva acquisito in Italia e nelle province; il suo comportamento tanto con gli alleati quanto con i nemici era sempre stato prudente e conciliante, ben diverso da quello arrogante e prepotente di altri Romani. Cornelia era una donna di carattere che conservò per tutta la vita la severa dignità di una nobile matrona romana (tanto da respingere, una volta rimasta vedova, la proposta di matrimonio del Re Tolomeo VIII); era molto colta e riceveva i migliori intellettuali della capitale, tanto che il suo era considerato un «salotto» progressista. Nutriva forti ambizioni per i figli, anche se probabilmente non ebbe influenze sulla loro attività politica. Su di lei si ricorda un aneddoto: un giorno andò a trovarla una donna ricca e vanitosa; questa le mostrò i vari e preziosi anelli, collane e bracciali che le aveva comprato il marito e poi, sapendo bene che Cornelia non ne aveva, per canzonarla le chiese di mostrarle i suoi gioielli; la donna non si scompose, fece chiamare i figli Tiberio e Caio e, additandoli, disse: «Signora, ammiro i suoi monili, ma questi sono i miei gioielli!».

Possiamo immaginare come crebbero i figli con tali esempi. Per istinto e per nobiltà di sentimenti, oltre che per ambizione personale, i Gracchi decisero di dedicare la loro vita a risollevare le sorti della plebe: con loro si chiuse un’epoca della storia romana reazionaria ma stabile, regolata dalla supremazia assoluta del Senato, ed ebbe inizio un secolo di violenti contrasti e di rivoluzioni.

Tiberio Gracco, il maggiore dei due fratelli, venne eletto tribuno della plebe nell’anno 133 prima di Cristo. Di ritorno dalla Spagna aveva osservato lo stato di abbandono delle proprietà terriere e l’aumento del lavoro servile, e aveva lamentato lo scadimento della mano d’opera romana. Appena ottenuta la carica di tribuno, propose una legge agraria che si proponeva l’obiettivo di rimediare alla troppo netta divisione delle classi sociali e delle ricchezze dei Romani.

La legge agraria di Tiberio Gracco prevedeva:

1) l’applicazione di un’antica legge di Roma secondo la quale nessun cittadino romano poteva possedere più di 500 iugeri di terra (pari a circa 125 ettari odierni). Lo iugero corrispondeva a quanto si presumeva che un paio di buoi potessero arare in un giorno;

2) la divisione delle terre espropriate in seguito a questa prima disposizione in lotti di 30 iugeri ciascuno e la distribuzione di questi lotti ai plebei;

3) l’impegno, da parte di coloro che avevano ottenuto queste terre, a coltivarle e a versare un piccolo contributo allo Stato;

4) l’impossibilità di vendere questi terreni.

La legge di Tiberio era una legge intelligente, che avrebbe potuto migliorare le condizioni materiali di tanta parte del popolo romano e assicurare forse, per lunghi anni, pace e benessere alla Repubblica. Ma Marco Ottavio, l’altro tribuno della plebe, la ritenne troppo radicale e rifiutò di accettarla ponendo il veto. Tiberio rispose deponendo dalla carica il collega – violando così la Costituzione – e facendo approvare la legge. Poi, scavalcando l’autorità del Senato, dispose che i beni lasciati in eredità a Roma da Attalo III, Re di Pergamo, fossero utilizzati per finanziare i nuovi assegnatari delle terre in Italia; le assegnazioni furono sottoposte al controllo di una commissione con pieni poteri inizialmente diretta da lui, dal fratello e dal suocero, che riuscì temporaneamente ad arrestare il processo di disgregazione della classe contadina.

Il Senato insorse e accusò Tiberio di voler abbattere la libertà e aspirare a diventare padrone assoluto di Roma. Durante un tumulto, Tiberio Gracco e i suoi seguaci furono linciati in Campidoglio dagli uomini di Scipione Nasica e i loro cadaveri vennero gettati nel Tevere. La legge per la quale si era battuto Tiberio fu presto dimenticata. Quanto a Scipione Nasica, nonostante il suo gesto fosse giustificato dai conservatori come un tirannicidio necessario, l’ira della folla lo costrinse a lasciare Roma e a rifugiarsi a Pergamo, dove morì.

Ma rimaneva l’altro fratello, Caio Gracco, una delle poche autentiche figure di statisti della storia romana repubblicana, onesto quanto il primo ma più intelligente. Dieci anni dopo si ritrovò a ricoprire la stessa carica di Tiberio e decise di vendicare il fratello e continuarne il programma politico applicando la legge che aveva proposto e portando a termine la riforma agraria. Non solo: propose di concedere la cittadinanza romana a tutti gli abitanti della penisola italiana ed estendere, di conseguenza, la riforma agraria a tutta l’Italia (una riforma necessaria ma impopolare). Sapeva di poter fare affidamento sugli ex sostenitori del fratello, ma sapeva anche che era necessario che si procurasse una vasta base elettorale: per questo fece molte proposte che miravano a ottenere l’aiuto del proletariato urbano e del ricco ceto equestre, come elargizioni semigratuite di grano e la possibilità per i cavalieri di entrare tra i giudici dei tribunali.

Le proposte di Caio Gracco vennero respinte: oltre a rappresentare una sfida palese all’autorità del Senato, esse ferivano l’orgoglio dei Romani (anche tra i suoi sostenitori) che non volevano essere messi alla pari delle altre popolazioni della Penisola, che avevano sottomesso. La classe senatoria ebbe buon gioco a opporgli il tribuno Marco Livio Druso, che neutralizzò il favore popolare che Gracco si era procacciato mediante la proposta di allettanti alternative, ad esempio la fondazione di grosse colonie (mai attuata).

Nel 121 avanti Cristo, Caio Gracco non fu rieletto. Privo della carica e quindi dell’inviolabilità personale, dovette circondarsi di una guardia del corpo. Dopo numerosi e violenti incidenti, il console Lucio Opimio ricevette l’ordine di sopprimere l’ex tribuno e i suoi sostenitori come nemici dello Stato. L’oratoria appassionata e demagogica di Caio Gracco e la compiaciuta ostentazione del suo potere personale e clientelare avevano destato nella classe dirigente il tradizionale timore del pericolo della tirannia, o almeno così si disse. Caio Gracco si rifugiò sull’Aventino; assediato, riuscì a fuggire protetto dai suoi fedeli; ma sul Gianicolo vide svanire ogni speranza di salvezza. Per non cadere nelle mani dei suoi avversari, ordinò a un suo schiavo di ucciderlo; questi, dopo averlo pugnalato, si suicidò. Opimio scampò all’ira del popolo e sfuggì all’incriminazione per aver assassinato dei cittadini romani, ma in seguito fu processato per corruzione, condannato ed esiliato.

Con la morte dei Gracchi, la questione sociale di Roma rimaneva senza una soluzione, anche se molte delle loro idee sopravvissero: il solco tra patrizi e plebei, tra chi deteneva il potere e chi lo subiva, diveniva sempre più profondo, e avrebbe presto portato alle stragi delle guerre civili e poi all’instaurazione dell’Impero. La Repubblica era sempre più incapace di governare, con le sue strutture da città-stato, un territorio più vasto man mano che nuovi popoli venivano assoggettati. Il sangue dei Gracchi era il primo segnale dei conati che cominciavano a scuotere lo Stato Romano. Non sarebbe stato l’ultimo.

(giugno 2020)

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