Le Leggi delle Dodici Tavole
Il primo codice scritto di leggi dell’antica Roma propone un modello di Stato laico e più avanzato degli Stati vicini

Se consideriamo gli apporti che la civiltà romana ha dato alla più ampia civiltà del mondo (perlomeno del mondo «occidentale»), il maggior contributo è stato sul versante del diritto, ovvero della legge. Il principio latino del «neminem ledere» («non danneggiare nessuno») è considerato il fondamento e lo spartiacque per stabilire che cosa sia lecito e che cosa non lo sia: è permesso, nei modelli di comportamento, fare tutto ciò che non reca danno ad altri, sul piano fisico o morale; da qui deriva anche il principio che «la mia libertà termina dove inizia la libertà dell’altro». Un’altra regola di fondamentale importanza è che «la legge è uguale per tutti»; spesso viene addirittura scritta sulle pareti dei tribunali, perché i giudici l’abbiano sempre presente.

Naturalmente, non è stato sempre così: come tutte le istituzioni umane, anche la legge dell’antica Roma ha avuto una graduale evoluzione e, all’inizio, non prescriveva la parità tra gli uomini. Ci arrivò in modo graduale, col trascorrere del tempo. Una delle tappe fondamentali di questo progresso, la prima in ordine cronologico, fu la sua sistemazione in un codice scritto, organico e a disposizione di tutti. Furono le cosiddette «Dodici Tavole».

La legge romana più antica era un miscuglio di tradizioni orali, di editti regi e di prescrizioni sacerdotali. Il «mos majorum», vale a dire il «costume degli antenati», rimase – sino alla fine della Roma pagana – esempio di moralità e fonte di diritto: le leggende che si narravano dei cittadini della prima Repubblica e dei suoi eroi avevano intento edificante e aiutavano gli educatori a improntare a fierezza stoica il carattere dei giovani. Per il resto l’antica legge romana era più che altro norma emanata dai sacerdoti, una branca della religione, circondata di sacre sanzioni e riti solenni: era al tempo stesso prescrizione giuridica ed espressione di giustizia, e contemplava non solo i rapporti fra uomo e uomo, ma anche quelli fra uomo e divinità. Il delitto era l’infrazione di questi rapporti, ovvero della «pax deorum», e la legge e la sanzione erano fissate per mantenere o ristabilire quei rapporti e quella pace. Erano i sacerdoti a prescrivere ciò che era lecito e ciò che non lo era, in quali giorni si potevano aprire i tribunali o radunare le assemblee, solo loro conoscevano le formule segrete senza le quali molto difficilmente un atto assumeva valore legale. Ovviamente essi tendevano a favorire i patrizi, a essere indulgenti verso di loro e severi nei confronti dei plebei, privi di ricchezze o amicizie influenti.

Per mettere fine a questa situazione, nel 462 avanti Cristo il tribuno della plebe Terentillo Arsa avanzò la richiesta che fosse compilato un codice scritto di tutte le leggi, da far osservare a ogni cittadino, patrizio o plebeo. Per dieci anni il Senato, che allora era ancora formato esclusivamente da patrizi, ostacolò questa proposta: solo nel 451, di fronte alla minaccia di una rivolta popolare, fu costretto ad accondiscendere.

I Comizi Centuriati scelsero dieci illustri cittadini, che furono detti «Decemviri» (da «decem», «dieci» e «vir», «cittadino»): ad essi fu affidato l’incarico di preparare il codice delle leggi. La loro carica ebbe la durata di un solo anno, nel corso del quale venne sospesa ogni altra magistratura; sembra che si sia mandata anche una commissione in Grecia, per informarsi sulle istituzioni delle città di quel Paese e per studiare le leggi che il grande statista greco Solone aveva dato ad Atene. Allo scadere dell’anno, i Decemviri avevano ultimato la loro opera: le leggi furono sottoposte all’approvazione del popolo, poi incise su dieci tavole di bronzo ed esposte nel Foro, perché ognuno potesse conoscerle; sono uno dei più antichi documenti della lingua latina. Nell’anno seguente un secondo decemvirato preparò altre due tavole di leggi che andavano ad aggiungersi alle prime: si ebbe così il codice delle Dodici Tavole! Purtroppo, oggi non ne rimangono che sparsi frammenti, sufficienti comunque a mostrarci uno dei codici più severi della Storia ma animato da uno spirito di equanimità maggiore rispetto alle norme del mondo antico (anche se alcune prescrizioni ripugnano a noi uomini del XXI secolo).

Qui di seguito riportiamo le parti autentiche delle leggi, ottenute attraverso i frammenti pervenuti fino a noi:

Tavola 1: «Se uno è chiamato in giudizio, ci vada. Se non ci va, colui che lo chiama in giudizio prenda dei testimoni e poi ve lo conduca per forza.

Se il convenuto indugia o cerca di fuggire, gli ponga le mani addosso.

Se il convenuto è impedito da un male o dalla vecchiaia, colui che lo chiama gli dia un giumento.

Se ambo i contestatori sono presenti, il tramonto sarà il limite ultimo del processo».

Tavola 2: «Colui al quale sia mancato il testimonio, vada girando davanti alla sua casa chiamandolo ad alta voce per tre giorni di mercato».

Tavola 3: «Per un debito del quale è stata fatta confessione e per il quale il giudizio è pronunciato, vi saranno i 30 giorni di tempo fissati dalla legge per saldare il debito. Passati i 30 giorni, il creditore arresti il debitore e lo conduca in giudizio.

Se il debitore non paga e nessuno in giudizio si fa garante per lui, il creditore lo conduca con sé e lo leghi con corregge o con catene del peso di 15 libbre almeno, o d’un peso anche maggiore, se vorrà.

Nei tre mercati successivi venga condotto, ogni volta, nel comizio davanti al pretore. Nel terzo mercato venga fatto a pezzi, oppure mandato di là dal Tevere, in Paese straniero, per essere venduto».

Tavola 4: «Sia subito ucciso un fanciullo di grave deformità.

Se il padre ha venduto per tre volte il figlio, questi è libero dalla patria potestà».

Tavola 5: «Sia giusto che un padre lasci i suoi beni e i suoi schiavi a chi vuole.

Se uno muore senza testamento, e non si fa avanti il suo erede, il più prossimo congiunto in linea paterna abbia tutta quanta l’eredità.

Se neppure il congiunto compare, abbiano l’eredità quelli della sua “gens”.

La presente legge interdice al matto l’amministrazione dei propri beni e prescrive che sia posto sotto la cura dei congiunti o dei membri della sua “gens”».

Tavola 6: «Quando uno farà un impegno o concluderà una vendita, questi atti abbiano la loro efficacia se siano stati espressi con forme solenni.

Non si può togliere una (tua) trave congiunta a una casa (di un altro) o i (tuoi) pali dalle vigne (di un altro), ma neppure l’altro ne diventa proprietario».

Tavola 7: «La larghezza delle vie sia di otto piedi, se la via è diritta. Mettano in ordine la strada: se non l’avranno acciottolata, si facciano passare i giumenti dalla parte che si vuole.

Se un rivo d’acqua, condotto per canale pubblico, nuocerà a un privato, questi avrà un’azione per il risarcimento dei danni».

Tavola 8: «Se qualcuno pubblica un libello che diffama o reca vergogna ad alcuno, sia condannato alla pena capitale.

Se uno rompe a un altro un arto e non viene con lui a un accordo, abbia la pena del taglione.

Se uno fa ingiuria a un altro, la pena è di 25 assi.

Chi, di notte, nascostamente, pascola o taglia le biade nel campo altrui, se è maggiorenne commette un delitto capitale: venga appiccato e poi sacrificato a Cerere. Se è minorenne, deve essere bastonato e paghi il doppio del danno prodotto.

Non si presti denaro con un interesse maggiore dell’8%.

Chi avrà dato falsa testimonianza sia gettato dalla rupe Tarpea».

Tavola 9: «Sia punito con la morte chi ha istigato il nemico contro la Patria o ha consegnato un cittadino al nemico.

È vietato che si uccida qualunque uomo che non sia stato prima condannato».

Tavola 10: «Non si seppellisca né si bruci nessun morto nella città.

È proibito l’oro nelle sepolture. Colui i cui denti sono legati con oro, potrà essere seppellito o bruciato con l’oro».

Tavola 11: «Non vi saranno matrimoni fra membri del patriziato e plebei». (Questa legge, umiliante per la parte plebea della popolazione, venne in seguito abrogata).

Tavola 12: «Se uno schiavo commette un furto o arreca qualche danno, sarà ceduto in compenso dei danni».

Le Dodici Tavole determinarono una duplice rivoluzione nel campo del diritto: la pubblicazione e la laicizzazione della legge romana. Esse segnarono il passaggio dalla tradizione orale alla legge scritta, e furono il risultato di un grado più alto di cultura e di spirito democratico; il monopolio sacerdotale fu indebolito quando il segretario di Appio Claudio il Cieco pubblicò il calendario dei giorni in cui era lecito rendere giustizia e il formulario della procedura legale da utilizzare (304 avanti Cristo), e ancor più quando Corucanio, nel 280 avanti Cristo, iniziò il primo insegnamento pubblico della legge romana: da allora l’uomo di legge prese il posto del sacerdote nella vita e nella mentalità romana.

Le Dodici Tavole diventarono la base dell’educazione: fino ai tempi di Cicerone tutti gli scolari dovevano impararle a memoria, e senza dubbio esse ebbero una grande parte nel rendere lo spirito romano severo, amante dell’ordine, aperto alle questioni legali e giuridiche. Emendate e completate continuamente dalla legislazione, dagli editti pretorii, dai «senatus consulta» e dai decreti imperiali, le Dodici Tavole rimasero per nove secoli il codice fondamentale di Roma.

(settembre 2019)

Tag: Simone Valtorta, Leggi delle Dodici Tavole, antica Roma, neminem ledere, mos majorum, pax deorum, Corucanio, la legge è uguale per tutti, Terentillo Arsa, Comizi Centuriati, Decemviri, Dodici Tavole, Appio Claudio il Cieco, leggi dell’antica Roma.