Le guerre galliche del III secolo avanti Cristo
Tra la Prima e la Seconda Guerra Punica, i Romani devono affrontare di nuovo il loro più spaventoso nemico

La fine delle ostilità tra Roma e Cartagine, al termine della Prima Guerra Punica, non significò la pace. Né per la città sulla costa tunisina, che dovette affrontare la rivolta dei mercenari rimasti senza paga, né per Roma.

Innanzitutto, ci fu da risolvere la «questione sarda»: infatti anche i mercenari cartaginesi dell’isola si erano ribellati, e le truppe inviate da Cartagine per domarli si erano unite ai rivoltosi. Quando in Africa le forze dei ribelli cominciarono a declinare, i mercenari cartaginesi di Sardegna invitarono i Romani a occupare l’isola. Il Senato rifiutò, così come restituì tutti i prigionieri cartaginesi ancora in suo possesso senza pretendere alcun indennizzo, proibì ai mercanti romani di rifornire i ribelli e respinse l’offerta di Utica di porsi sotto la sua protezione. Ma meno di due anni dopo, quando i mercenari di Sardegna, pressati dalle popolazioni sarde, invocarono nuovamente il suo intervento, Roma mandò un esercito a occupare l’isola. Cartagine tentò di precederla armando una flotta, e il Senato Romano le dichiarò guerra. Per evitare la guerra Cartagine rinunciò a rioccupare la Sardegna, lasciò ai Romani anche la Corsica (in quanto isole geograficamente «tra la Sicilia e l’Italia», e che Roma pretese in virtù delle clausole del trattato di pace con Cartagine stipulato al termine della Prima Guerra Punica) e corrispose un’indennità di 1.200 talenti.

Il fatto di aver reso il Tirreno un mare interamente romano e di aver reso vassalli i Liguri fu seguito da una spaventosa notizia: i Galli della Pianura Padana (Insubri, Taurisci e Boi), rinforzati da tribù germaniche di Gesati, avevano radunato un esercito di 50.000 fanti e 20.000 cavalieri col quale si preparavano a invadere l’Italia Centrale; Polibio li descrive «alti e belli, sempre smaniosi di guerre che combattevano nudi, salvo qualche collana e amuleto». Secondo gli storici moderni, questo tentativo d’invasione fu determinato da un lato dalla pressione esercitata dalle tribù dei Belgi che avevano attraversato il Reno prendendo piede nella terra che da loro prese il nome e sospingendo verso il meridione le popolazioni più antiche, dall’altro lato dalla distribuzione ai cittadini romani delle terre dei Senoni a Sud di Rimini. Per mio conto, considerando i costumi dei Galli, ritengo più probabile che si trattasse di un tentativo di razzia in grande stile senza alcuna velleità di occupazione territoriale, com’era avvenuto ai tempi di Brenno. Roma era in quel momento con un esercito a corto di uomini e una moneta svalutata dell’83%, ma senza dover fronteggiare alcuna rivolta dei popoli sottomessi. Di fronte a questo nuovo evento, la popolazione fu presa da sgomento e terrore, e molti cittadini, specialmente donne e anziani, lasciarono le loro case e portarono al sicuro i propri beni, lontano dalla città. Vennero consultati indovini e maghi, che predissero una nuova invasione della città e ordinarono, per scongiurarla, sacrifici feroci e assurdi: quattro vittime, due scelte fra i Galli e due scelte fra i Greci, furono sepolte vive nel Foro; era un antico rito di esorcizzazione di origine etrusca, per reprimere simbolicamente lo spirito degli invasori, ch’era caduto in disuso ormai da molto tempo, tanto che non se ne ricordava più l’originario significato. Tuttavia il Governo agì subito con decisione per affrontare il pericolo, ordinando la leva generale («tumultus») per tutti gli uomini atti a portare le armi, senza distinzione di classe, di età e di censo; non si voleva correre il rischio che si ripetesse il disastro occorso un secolo e mezzo prima.

Popolazioni della Gallia Cisalpina

Popolazioni celtiche, liguri e venete della Gallia Cisalpina

Il terrore che i Galli ispiravano a tutte le popolazioni della Penisola facilitò al Governo di Roma l’opera per garantirsi la loro alleanza; anzi, a essa aderirono anche popolazioni galliche dell’Italia Transpadana, quali i Cenomani del Bresciano e i Veneti. In questo modo fu possibile apprestare parecchi eserciti, per un totale di 200.000 uomini, un quarto dei quali erano Romani. Vennero anche chiamate d’urgenza due legioni che si trovavano in Sardegna agli ordini del console Attilio Regolo, figlio di quel Regolo che aveva trovato un’eroica morte nella guerra contro Cartagine.

Mentre i Romani si preparavano alla difesa, il Generale Cartaginese Amilcare occupava nuovi territori in Spagna per impadronirsi delle miniere d’argento e di ferro che vi erano, e avere un trampolino di lancio per invadere l’Italia; il genero Asdrubale fondò sulla costa la città di Cartagena. In quel momento sarebbe stata letale una ripresa delle ostilità anche da parte dei Cartaginesi, così la Curia Romana concluse un trattato per cui Asdrubale si impegnava a non portare eserciti a Oriente dell’Ebro, e i Romani non li avrebbero trasportati a Occidente... ma avevano già stipulato, all’insaputa dei Cartaginesi, un trattato di alleanza con Sagunto, città spagnola nella zona d’influenza punica.

Nell’anno 225 avanti Cristo, cominciò la marcia dell’invasione gallica.

Le orde galliche invasero e depredarono le terre dell’Etruria senza incontrare alcuna resistenza. Proseguendo la loro disordinata avanzata attraverso la Toscana, giunsero nei pressi di Chiusi e puntarono, come un secolo e mezzo prima, su Roma. Intanto l’esercito romano, al comando del console Emilio Papo, risaliva verso il Nord e una sera, al tramonto, le due forze avverse si avvistarono. Entrambe le schiere di armati si accamparono a non grande distanza l’una dall’altra, in attesa del mattino; negli accampamenti vennero accesi i fuochi e disposte lungo il perimetro le sentinelle.

Alle prime luci del mattino, i Romani si accorsero che la cavalleria nemica si stava allontanando sulla strada per Fiesole. I Galli parevano in ritirata; le legioni si schierarono in colonna e iniziarono subito l’inseguimento. Era una trappola: i legionari si trovarono all’improvviso di fronte i nemici che li attaccavano con astuzia e irruenza. Non indossavano corazze, ma avevano gli elmi ornati con corna o con ali, e brandivano pesanti spadoni dalla lunga lama; i loro capi apparivano riccamente ornati con «torques» (collane) e bracciali d’oro. I Romani persero 6.000 uomini e furono costretti alla fuga.

Elmo cerimoniale celta

Elmo cerimoniale celta, IV-III secolo avanti Cristo, Museo di Angoulême (Francia)

E qui i Galli commisero un errore che si sarebbe rivelato fatale: stanchi della battaglia, anziché inseguire i vinti preferirono riposare e festeggiare la vittoria. Quella pausa diede modo ai Romani di riorganizzarsi. Frattanto sbarcava a Pisa il console Attilio Regolo proveniente col suo esercito, come ricordato più sopra, dalla Sardegna; si mise in cammino alla volta di Roma ma, saputo dello scontro avvenuto, proseguì a marce forzare per portare aiuto ai suoi. Gli eserciti si incontrarono presso il capo Telamone (oggi Talamone), a Sud di Grosseto. Questa volta i Galli si trovarono stretti tra due fuochi: da una parte le legioni di Attilio, dall’altra quelle di Emilio Papo. L’esercito gallo fu costretto a schierarsi su due fronti: si ebbero così due eserciti galli contro due eserciti romani, e due battaglie simultanee.

Gli Insubri e i Boi indossavano dei pantaloni e dei lucenti mantelli, mentre i Gesati avevano evitato di indossare indumenti sia per orgoglio e fiducia in se stessi sia pensando che così sarebbero risultati più efficienti, visto che il terreno era coperto di rovi che potevano impigliarsi nei loro vestiti e impedire l’uso delle loro armi. Il primo urto avvenne tra i cavalieri; il console Attilio, pur combattendo con estremo coraggio, fu catturato ed ebbe mozzata la testa dai nemici, che ne fecero un trofeo come era nei loro usi, forse per antichi rituali di culto dei crani. La cavalleria romana, dopo una lotta senza sosta, alla fine prevalse sul nemico e riuscì a occupare la collina per la quale aveva combattuto. Avanzarono poi le fanterie. I Galli delle prime linee, mostrando i loro corpi atletici quasi completamente nudi, si lanciarono subito all’assalto lanciando grida animalesche e il loro caratteristico grido di guerra; alcuni suonavano a perdifiato tube e buccine, strumenti a canna lunga dal suono cupo. I Romani cominciarono a saettare i loro giavellotti sui Galli nudi, costringendoli o ad avventarsi sul nemico con rabbia impotente, o a ritirarsi verso le file dei loro compagni, provocarono un grande disordine. Poi si sviluppò il combattimento corpo a corpo nel quale i Galli riuscivano a mantenere la posizione grazie a una forza pari al loro coraggio.

La cavalleria romana giunse sul fianco dei Galli e fece a pezzi la fanteria, mentre la cavalleria fu messa in fuga. Circondati da ogni parte, gli uomini del Nord non avevano via di scampo, se non quella di morire o di arrendersi: il valore dei Romani e la loro maggiore disciplina ebbero ragione di un nemico vigoroso e numericamente superiore. Fu una carneficina: 40.000 Galli caddero sul campo e 10.000 furono fatti prigionieri; dei Re che li comandavano uno, Concolitano, fu catturato, l’altro, Aneroesto, si uccise sul campo insieme ai suoi fedeli. Secondo Polibio, per l’audacia e l’accanimento con cui si combatté e per il numero dei combattenti, questa guerra non cedette a nessun’altra nella storia.

Nonostante la completa vittoria, ai Romani fu chiaro che, fintanto che non avessero sottomesso tutta la vallata del Po, il pericolo di nuove invasioni sussisteva sempre. Così, nel 223 avanti Cristo, sotto il comando del nuovo console Caio Flaminio, le legioni passarono il Po nei pressi della sua confluenza con l’Adda ed entrarono nel territorio degli Insubri (i Boi della zona di Bologna erano entrati in alleanza con Roma l’anno precedente). Questi vennero completamente battuti sul fiume Chiese, perdendo forse 50.000 uomini. Nel 222 avanti Cristo i consoli romani Cornelio Scipione e Claudio Marcello ripresero le operazioni militari contro gli Insubri e i Cesati: lo scontro decisivo avvenne a Sud del Po, a Clastidium (Casteggio); artefice delle vittoria romana fu Marcello che, pur con i suoi 46 anni (non più giovane), affrontò e abbatté in duello personale il Re dei Cesati Viridomaro, di cui offrì le armi a Giove. I Romani occuparono poi Mediolanum (Milano), la città più importante del nemico, e gli Insubri si arresero.

Così tutta l’Italia ch’era stata dei Galli cadde sotto la dominazione di Roma: si trattava di una delle più ricche e feconde contrade d’Italia, popolosa e con antiche tradizioni di civiltà (specialmente veneta ed etrusca). La costruzione della Via Flaminia da Roma a Rimini e la fondazione di due colonie latine, una a Piacenza e una a Cremona, favorivano quei collegamenti – economici, certo, ma anche, di riflesso, politici e di pensiero – tra il mondo mediterraneo e l’Europa Settentrionale che sussistono ancora, e nell’immediato servivano a tener d’occhio i Galli da una parte e i Liguri dall’altra. Ma l’opera di civilizzazione romana si svolgerà in modo molto lento, tanto che solo 150 anni dopo verrà estesa su questa terra e le sue genti la piena cittadinanza romana e sarà incorporata all’Italia.

Ancora nel 201 e nel 195 avanti Cristo i Galli che occupavano l’attuale Francia varcarono i confini delle Alpi portando distruzioni e stragi. Solo con la conquista della Gallia a opera di Giulio Cesare (58-51 avanti Cristo) il pericolo gallico ebbe definitivamente termine.

(gennaio 2020)

Tag: Simone Valtorta, guerre galliche, Via Flaminia, Giulio Cesare, III secolo avanti Cristo, storia dell’antica Roma, Insubri, Taurisci, Boi, Gesati, Cenomani, Veneti, Galli della Pianura Padana, Attilio Regolo, Amilcare, Asdrubale, Sagunto, Emilio Papo, battaglia di Capo Telamone, Concolitano, Aneroesto, Caio Flaminio, Viridomaro, Cornelio Scipione, Claudio Marcello, guerre di Roma contro i Galli.