La guerra civile tra Cesare e Pompeo
Una lotta senza quartiere per il dominio di Roma

Nell’anno 60 avanti Cristo, tre erano gli uomini più potenti della Repubblica Romana: Pompeo, per la sua abilità di condottiero; Cesare, per il suo ingegno; Crasso, per la sua enorme ricchezza. Consci della loro potenza e dei problemi che sarebbero sorti se si fossero messi in contesa tra di loro, questi tre uomini decisero di stringere un accordo, passato alla storia col nome di «primo triumvirato», con l’intento di governare insieme la Repubblica. Ma un tale accordo non doveva avere vita lunga: morta la moglie di Pompeo e figlia di Cesare, ucciso a tradimento Crasso nella guerra contro i Parti, tra i due triumviri rimasti scoppiò ben presto un’accanita rivalità. La guerra civile che li oppose sconvolse lo Stato Romano per oltre un anno, dall’inizio del 49 alla metà del 48 avanti Cristo.


Le prime mosse di Cesare

La guerra civile fu diretta conseguenza della conquista della Gallia e della conseguente grande popolarità da cui era circondato Giulio Cesare. Questi, alla fine delle operazioni militari (51 avanti Cristo), si trovava inoltre a capo di un esercito numeroso, preparato in modo ottimo e di provata fedeltà, e poteva dirsi ormai l’uomo più potente di Roma. Il condottiero si preparava a tornare nella città capitolina per celebrare il trionfo e presentare la propria candidatura al consolato.

Geloso e forse anche intimorito della gloria e della potenza militare raggiunte da Cesare, Pompeo decise di eliminarlo. Già, mentre il suo «collega» si trovava impegnato nelle campagne galliche, era riuscito a farsi nominare dal Senato «console unico» con pieni poteri, ufficialmente per riportare l’ordine in una città sconvolta dalle lotte tra la plebe e gli aristocratici. Ma per avere partita vinta sul suo rivale, doveva privarlo delle sue devote legioni. Una parte delle truppe se le fece riconsegnare in quanto le aveva inviate «in prestito»; poi, in combutta col Senato, fece rimettere in vigore una vecchia legge, secondo la quale i candidati al consolato dovevano presentarsi a Roma dopo aver licenziato le proprie truppe. Subodorato l’inganno, Cesare fece sapere di essere disposto a smobilitare il suo esercito, a patto però che Pompeo licenziasse a sua volta le proprie numerose schiere stanziate in Spagna: in questo modo, l’avrebbe posto nella condizione di rivelare le sue vere intenzioni. Infatti, respingendo la proposta, Pompeo avrebbe dimostrato in modo inequivocabile che il suo unico intento era quello di uccidere Cesare per governare da solo la Repubblica Romana; inoltre, Cesare si poneva nella condizione di vittima delle macchinazioni dei suoi avversari. In questo caso, la guerra veniva presentata come causata unicamente da Pompeo e – soprattutto – dalla sua fazione. (Nei suoi scritti sulla guerra civile, Cesare ribadisce di aver tentato più volte di venire a patti con Pompeo, principalmente per evitare un bagno di sangue tra cittadini romani; questi approcci – falliti per l’opposizione dei luogotenenti pompeiani – sono ritenuti dalla maggior parte degli storici credibili sia per altre testimonianze che abbiamo, tra cui quelle di Cicerone, sia per il contegno mostrato da Cesare durante tutta la guerra nei confronti degli avversari sconfitti).

Come Cesare aveva previsto, il 1° gennaio dell’anno 49 avanti Cristo, il Senato – dietro consiglio di Pompeo – respinse le richieste di Giulio Cesare. In questo modo, non potevano più sussistere dubbi sul programma dei pompeiani.

Anche in questa occasione, Cesare agì con la rapidità che gli era propria: venuto a conoscenza della deliberazione del Senato, ordinò ai suoi soldati di varcare il Rubicone, un fiumiciattolo che segnava il confine tra la Gallia Cisalpina e l’Italia, e che nessun esercito romano in armi avrebbe potuto oltrepassare senza essere dichiarato nemico. La notte tra l’11 e il 12 gennaio del 49 avanti Cristo, Cesare diede l’avvio alla sua avanzata verso Roma spingendo il cavallo nel Rubicone e pronunciando la famosa frase «alea jacta esto» («il dado è tratto»): dato che la Repubblica, rappresentata da Pompeo, gli vietava di far valere i suoi diritti, lui era costretto a dichiararle guerra.

Colto alla sprovvista, Pompeo non ebbe neppure il tempo di elaborare un piano d’azione: abbandonata Roma in fretta e furia, sebbene avesse tre legioni nella Penisola e Cesare solo una, si diresse verso Brindisi con la speranza di organizzare l’esercito e di prendere contatto con le sue truppe di Spagna.

Cesare lo prevenne: dopo una marcia trionfale tra gli applausi della gente e l’accorrere dei vecchi legionari a rinforzare le sue schiere, il 9 marzo si presentò alle porte di Brindisi con le sue forze. Pompeo decise allora di passare in Grecia, per radunare in Oriente le forze necessarie a far fronte al suo rivale. Cesare non lo inseguì subito: rimasto padrone di tutta l’Italia, si recò a Roma e si fece nominare dittatore. Era il 1° aprile dell’anno 49 avanti Cristo!

Le operazioni belliche in Spagna

Sebbene fosse stato costretto alla fuga, Pompeo non poteva dirsi vinto: disponeva di forze ingenti nella Penisola Iberica – ben sette legioni, le sue migliori – e poteva radunare un esercito numeroso in Oriente. Non solo, ma stava approntando un piano strategico ben congegnato: sferrare una duplice offensiva di accerchiamento dalla Grecia e, in contemporanea, dalla Spagna, per prendere in mezzo l’esercito nemico e stritolarlo.

Anche questa volta, Cesare agì d’anticipo: prima che Pompeo cominciasse a mettere in atto il suo piano, giunse nella Penisola Iberica per annientare le legioni avversarie. Prima di partire, aveva detto ai suoi soldati: «Vado a combattere un esercito senza capitano; poi tornerò a combattere un capitano senza esercito».

Fu una campagna difficile, combattuta in inferiorità numerica e con lo spettro della fame. Afranio e Petreio, i luogotenenti di Pompeo nel Paese, erano combattenti esperti. Ma Cesare aveva dalla sua due caratteristiche in più rispetto ai suoi avversari: la capacità di una brillante improvvisazione e il coraggio personale. Deviò il corso di un fiume per mezzo di parecchi fossati e così mutò un blocco in un controblocco, aspettando poi con calma che l’esercito nemico preso in trappola si arrendesse: quando i nemici, per bocca di Afranio, chiesero pietà, Cesare lasciò liberi i legionari pompeiani di tornare alle proprie case incolumi, rimborsando in denaro i beni che erano stati loro sottratti, e tutta la Spagna passò dalla sua parte. Solo Marsiglia, che gli si oppose, fu espugnata dopo un duro assedio.

La guerra di Spagna non era durata che 40 giorni: ai primi d’agosto del 49 avanti Cristo, le legioni pompeiane della Penisola Iberica si arrendevano a Cesare. A dicembre, Cesare era di ritorno a Roma.

Non andò bene, invece, la spedizione in Africa: Cesare aveva mandato Curione, un luogotenente impetuoso, a occupare la Sicilia, per assicurarsi il rifornimento di grano in Italia. I pompeiani si erano ritirati in Africa senza combattere, Curione li aveva inseguiti e si era trovato a dar battaglia ai Numidi, alleati di Pompeo, con schiere esigue, sfinite dalla marcia e prive di cavalleria. Morì sul campo, lamentando non la perdita della propria vita, ma il danno che aveva causato a Cesare. I resti del suo esercito si reimbarcarono per la Sicilia.


La campagna in Grecia

Nel frattempo Pompeo aveva ricevuto rinforzi dai territori orientali posti sotto il controllo di Roma o governati da Re legati a lui da vincoli di amicizia, radunando un esercito forte di 45.000 uomini, una flotta da guerra di 600 navi e un grandissimo numero di altre navi da carico; tra i suoi luogotenenti spiccavano alcuni ufficiali ch’erano stati di Cesare, tra cui Tito Labieno, il braccio destro di Cesare nelle campagne di Gallia. Con una flotta di queste proporzioni, Pompeo poteva controllare per intero sia il Mare Adriatico che lo Ionio, vanificando ogni tentativo di sbarco da parte delle legioni di Cesare.

Ma non aveva calcolato la rapidità di movimento, il coraggio e l’astuzia del suo rivale: in pieno inverno, ossia nella stagione meno propizia per attraversare il mare, il 5 gennaio del 48 avanti Cristo, Cesare riuscì a far sbarcare 15.000 uomini nella rada di Paleste, una località a metà strada fra l’isola di Corcira (l’odierna Corfù) e Apollonia; tanto la traversata, svolta in piena notte, quanto lo sbarco passarono del tutto inosservati.

Quando questa notizia giunse alle orecchie di Pompeo, Cesare era già in marcia con i suoi uomini verso Durazzo. Nei primi giorni di luglio, dopo alcuni scontri infruttuosi, Cesare tentò un assalto in forze contro l’accampamento nemico. I suoi legionari, penetrati con impeto, si trovarono intrappolati tra fortificazioni troppo strette; il panico di trovarsi alla mercé del nemico provocò un fuggi fuggi generale, molti morirono calpestati dai loro stessi commilitoni.

Non era una vittoria schiacciante, oltretutto era stata ottenuta praticamente senza combattere, ma i pompeiani la lessero come decisiva. Dal canto suo, Giulio Cesare decise di ritirarsi nell’interno del Paese per riorganizzare l’esercito e per unirsi ai rinforzi che gli dovevano giungere dall’Italia per via di terra.

Ormai sicuro di avere in mano la vittoria, Pompeo inseguì il rivale per costringerlo a una nuova battaglia. E il 9 agosto, nei pressi di Farsalo, in Tessaglia, avvenne lo scontro decisivo. La vigilia era passata nell’accampamento di Pompeo in un accaparramento delle proprietà e delle ricchezze degli uomini che militavano tra le schiere di Cesare, come se il giorno dopo non si dovesse che schioccare le dita per una vittoria che tutti ritenevano già assegnata; Cicerone, che si era unito a loro, scrisse nelle sue lettere che «eccetto Pompeo, i pompeiani tutti conducevano la guerra con una tale rapacità e spirava nei loro discorsi una tale crudeltà, che io non potevo considerare senza orrore la prospettiva di una loro vittoria... Non c’era nulla di buono in loro, eccetto la causa per cui combattevano. Fu persino proposta una proscrizione non solo personale ma collettiva».

La mattina successiva, si trovarono da una parte Cesare con 22.000 fanti, 1.000 cavalieri e alcuni reparti ausiliari, dall’altra Pompeo con 45.000 fanti, 7.000 cavalieri e reparti ausiliari. Da condottiero geniale qual era, Cesare seppe prevedere le mosse del suo avversario: avendo intuito che Pompeo avrebbe puntato sulla grande superiorità della propria cavalleria, provvide a rendere nulla la sua azione. Costituì poco prima della battaglia sei coorti di riserva, affidando loro il compito di lanciarsi d’improvviso contro la cavalleria avversaria e di mirare senza pietà agli occhi dei cavalli e dei cavalieri. Come prevedeva, la carica della cavalleria pompeiana mise in rotta la sua; ma poi i cavalieri nemici, atterriti dalla nuova tattica d’assalto dei reparti cesariani, si diedero a una fuga precipitosa. Scoraggiati per la disfatta della cavalleria, i soldati di Pompeo perdettero man mano di vigore finché, sopraffatti dalle schiere nemiche, si dispersero. Cesare perse non più di 200 uomini, tra cui però 30 centurioni valorosi; i pompeiani morti furono circa 15.000, tra cui numerosi senatori, più di 24.000 si diedero prigionieri (ed ebbero salva la vita, a eccezione di quelli a cui Cesare aveva già perdonato una volta), gli altri passarono in parte a Cesare, in parte fuggirono verso gli ultimi focolai di resistenza pompeiana in Africa e in Spagna; a Cesare furono inoltre portate 180 insegne militari nemiche e nove aquile. Tra i superstiti Cesare trovò Marco Giunio Bruto, figlio di Servilia (una delle sue amanti) e – si diceva – figlio suo proprio, a cui fu felicissimo di far grazia della vita; Bruto intercedé per l’amico Cassio, che fu perdonato a sua volta. Iniziata all’alba, la battaglia si era conclusa entro mezzogiorno. L’esercito di Pompeo era rimasto completamente distrutto.

Dopo questa sconfitta disastrosa, Pompeo decise di giocare l’ultima carta che gli rimaneva: chiedere aiuto al Re d’Egitto Tolomeo XIV Dioniso, al padre del quale aveva reso grandi servigi. Ma nessuno si appoggia a un perdente, soprattutto se il vincitore è già sulle sue tracce. I Ministri di Tolomeo (ancora troppo giovane per governare) gli fecero ampie promesse, cosicché Pompeo si diresse fiducioso in Africa. Qui si doveva compiere il suo destino, perché i reggenti d’Egitto, pensando in questo modo di ingraziarsi Cesare, avevano stabilito di ucciderlo. Così, mentre Pompeo stava raggiungendo la costa su una scialuppa, alcuni sicari lo finirono a pugnalate: era il 28 settembre dell’anno 48 avanti Cristo. A Cesare, sbarcato in Egitto tre giorni dopo, i Ministri del Faraone presentarono la testa recisa del nemico. Ma Cesare inorridì a quella vista e pianse di dolore: sebbene fosse un accanito rivale di Pompeo, non aveva mai desiderato la sua morte!


Le ultime battaglie

Quando giunse in Egitto, Cesare si trovò a dover affrontare nuovi problemi: la Monarchia assolutistica che dominava l’ultimo Regno nato da Alessandro Magno che si affacciasse sul Mar Mediterraneo era da tempo minata da debolezze strutturali, da complicazioni di politica estera e da una serie di lotte per la successione, intrighi di Corte e gravi e dispendiosi contrasti, a volte cruenti. Secondo un’antica usanza, Tolomeo e la sorella Cleopatra avrebbero dovuto regnare insieme, in realtà si contendevano il trono. La donna, costretta alla fuga e al nascondimento, avvicinò Cesare con uno stratagemma rimasto nella leggenda: si fece portare alla reggia avvolta in un tappeto.

Cesare aveva 52 anni, Cleopatra 21: parlava sei lingue, possedeva una spiccata intelligenza politica e pochissimi scrupoli, oltre a una grande capacità di seduzione. Tolomeo cercò di contrastarlo sobillando la piazza; il popolo insorse. Cesare arrestò il sobillatore, ma fu costretto a rinchiudersi coi suoi pochi uomini dentro le triplici mura del palazzo reale. Per impedire che i nemici s’impadronissero della sua flotta, la fece dare alle fiamme; dalle navi il fuoco si propagò ad alcuni edifici adiacenti al porto, fra i quali la famosa biblioteca di Alessandria, che bruciò completamente coi suoi 400.000 volumi.

Cesare cercò di trattare, propose a Tolomeo di dividere il trono con Cleopatra, ma quello non accettò. Finalmente, da Roma arrivò un esercito di soccorso. Gli Egizi furono sconfitti nella battaglia del Nilo e lo stesso Tolomeo vi trovò la morte, annegato nel fiume mentre tentava la fuga.

Cleopatra rimase Regina della sua gente sposando l’altro fratello, Tolomeo XIV Filopatore. Cesare rimase nove mesi presso di lei, e dalla loro unione nacque un figlio, Cesarione. Fu un periodo pacifico, durante il quale Cesare percorse il Nilo sul panfilo di Cleopatra, grande e lussuoso, arredato in modo splendido e ornato da affreschi magnifici; sarebbe arrivato fino in Etiopia, se i suoi soldati non si fossero rifiutati di proseguire oltre. Poi il Generale Romano dovette marciare contro l’Asia, dove Farnace II (figlio di Mitridate, Re del Ponto) stava seminando discordia estendendo il proprio dominio su parte dell’Armenia e della Cappadocia e tentando di imporsi in Bitinia.

La campagna durò cinque giorni. Il 2 agosto del 47 avanti Cristo Cesare si scontrò con Farnace a Zela, e con pochissime truppe riuscì ad annientare un esercito enormemente superiore. Diede a Roma l’annuncio della vittoria con un messaggio che nella sua concisione sembrava ricalcare il rapido decorso degli eventi bellici: «Veni, vidi, vici» («Venni, vidi, vinsi»).

Due grossi assembramenti di pompeiani si erano intanto ricostituiti in Africa e in Spagna. In Africa avevano l’alleanza di Giuba – il Re di Numidia già responsabile della morte di Curione –, che disponeva di una numerosa cavalleria; Cesare aspettò che arrivassero dei rinforzi e diede battaglia a Tapso (battaglia a cui non partecipò di persona, dato che ebbe un attacco di epilessia, malattia di cui soffriva). Gli elefanti dei pompeiani furono coperti da una vera e propria pioggia di proiettili, caddero in preda al panico a causa del sibilo delle catapulte e dei rimbalzi delle pietre e dei proiettili di piombo, fecero marcia indietro e schiacciarono i soldati che erano schierati dietro di loro in file compatte. I veterani di Cesare si gettarono sui nemici massacrandoli tutti, per sfogare gli strapazzi e le sofferenze di una guerra che sembrava non aver mai fine, forse anche per la generosità e la clemenza dimostrata da Cesare verso i nemici. L’esercito pompeiano lasciò sul campo, morti, 50.000 uomini; Giuba e Catone si uccisero in Utica. La Numidia scomparve per sempre: una parte divenne una provincia romana, l’Africa Nova, destinata a divenire granaio di Roma, il resto della regione venne ceduto alla Mauritania.

L’anno dopo, a Munda, Cesare saldò i conti anche coi pompeiani di Spagna, tra i quali si erano rifugiati Labieno e i figli di Pompeo, Gneo e Sesto Pompeo: anche qui Cesare riuscì a galvanizzare i suoi in difficoltà afferrando uno scudo e spingendosi a piedi, da solo, sotto una grandine di proiettili, dinanzi alle fortificazioni del campo nemico. I suoi ripresero slancio più per la vergogna di abbandonarlo alla mercé degli avversari che per coraggio. I pompeiani furono massacrati, Labieno rimase morto sul campo, Gneo Pompeo fu catturato mentre fuggiva e venne decapitato; Sesto Pompeo si diede a pirateggiare nel Mediterraneo dalla sua base in Sicilia, finché fu sconfitto da Ottaviano (36 avanti Cristo) e morì, in quello stesso anno o nel successivo.

Quella di Munda fu l’ultima battaglia che Cesare combatté: al rientro a Roma celebrò quattro trionfi, uno più splendido dell’altro, per le vittorie sui Galli, sull’Egitto, sul Ponto (Farnace) e sull’Africa (Giuba), e non per la vittoria su Pompeo e sui suoi eserciti. I cortei trionfali cominciavano al Campo Marzio, costeggiavano il Circo Flaminio, attraversavano il Velabro, quindi la Via Sacra e il Foro, per concludersi al tempio di Giove Ottimo Massimo; per le strade gremite di spettatori passavano per prime lunghe colonne con trofei e tesori preziosi, poi seguivano i prigionieri e infine, dietro i littori coi loro fasci di alloro, veniva Cesare su un carro trainato da quattro cavalli bianchi, vestito con una toga purpurea, una corona d’alloro in capo, uno scettro con l’aquila nella mano, il volto dipinto di minio perché doveva rappresentare Giove; uno schiavo teneva sospesa sul suo capo una corona d’oro proveniente dal tempio della divinità suprema e gli ripeteva all’orecchio le parole: «Ricorda che sei un uomo»; in coda c’erano i soldati, che – secondo un’antica consuetudine – cantavano in coro canzoni di scherno sul loro Generale, soprattutto vantando le sue conquiste amorose; seguiva il sacrificio di tori bianchi e la corona d’alloro riposta in grembo alla statua di Giove, nel suo tempio. Per il popolo, Cesare organizzò giochi gladiatori grandiosi con elefanti e persino con flotte navali, un grande banchetto su 22.000 tavole, rappresentazioni teatrali in tutte le lingue che venivano parlate in città; per proteggere dal sole gli spettatori coprì tutto il Foro Romano e la Via Sacra fino alla sua abitazione, e anche la salita al Campidoglio, con un sistema di tendaggi di seta. Il popolo intero, al termine dell’ultimo dei quattro giorni dei trionfi, lo accompagnò nel cammino verso casa, mentre elefanti che portavano candelabri con fiaccole ardenti facevano ala al corteo: una conclusione sensazionale e solenne. All’apice della sua potenza, Cesare poteva ora dedicarsi a rimettere a posto la situazione a Roma.

(dicembre 2020)

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