Guerra Histrica
La penetrazione romana nell’Adriatico Nord-Orientale e l’assimilazione di popoli stanziali

Le complesse vicende di Venezia Giulia e Dalmazia costituiscono un buon motivo non soltanto storiografico, ma prima ancora politico e culturale, per risalire alle origini della presenza latina, su cui non mancano testimonianze particolarmente importanti e attendibili, tra cui emerge quella di Tito Livio[1], massimo storico della Roma precristiana dalle origini ad Augusto, primo Imperatore nonché suo contemporaneo. In effetti, le notizie che si apprendono dai testi di Livio sono una fonte prioritaria e per quanto possibile obiettiva pur nell’ambito di una diffusa «simpatia» per consoli e legioni, ma nello stesso tempo per le opere di colonizzazione e di civilizzazione conseguenti alle loro vittorie.

Le prime notizie di una significativa espansione romana nell’Alto Adriatico risalgono allo scorcio conclusivo del III secolo avanti Cristo quando si ebbero i primi confronti a carattere militare nella zona, segnatamente con gli Istri e i Liburni, che si erano insediati da tempo (rispettivamente in Istria Meridionale e nella zona del Quarnaro) a danno di precedenti popolazioni illiriche, sviluppando la civiltà dei castellieri, fondata su larghe autonomie ma nello stesso tempo su notevoli attività economiche fra cui la capacità di estrazione e lavorazione dei minerali, e quindi su elementi difensivi di rilievo altrettanto significativo. Già dal 220 avanti Cristo si erano avuti i primi scontri, motivati dalla necessità, che ebbero i Romani, di assicurare condizioni agevoli alla navigazione e ai traffici marittimi, tanto più che da diversi anni avevano già fondato le prime colonie adriatiche, a cominciare da quella di Corcyra Nigra, che in tempi molto successivi sarebbe diventata Curzola.

Poi, essendo impegnate sui fronti orientali, e in particolare nella Siria, dove si era ritirato il condottiero cartaginese Annibale, le forze di Roma «rimandarono la soluzione finale della questione istriana»[2] ma senza trascurare la razionalizzazione dei primi insediamenti, innanzi tutto con la fondazione di Aquileia, la cui rilevanza politica e civile si sarebbe protratta per circa un millennio e mezzo attraverso l’opera prioritaria dei suoi 58 Patriarchi, che governarono la città e il suo territorio per tutto il Medio Evo e oltre (558-1420).

Il «casus belli» della prima guerra «histrica» fu determinato proprio dal nuovo insediamento: in un primo momento gli Istri erano sembrati accettare il buon vicinato coi Romani, ma poi non tennero fede agli impegni assunti anche perché, avendo compreso meglio la politica di espansione della nuova potenza militare romana, tentarono di ostacolare la costruzione di Aquileia. Ne ebbe origine un conflitto molto aspro che si sarebbe protratto per oltre un biennio, fra il 178 e il 176 avanti Cristo, quando Claudio Pulcro, dopo essersi impadronito di Mutila e Faveria (quasi certamente le attuali Medulino e Castelnuovo) avrebbe conquistato Nesazio, il maggiore agglomerato degli Istri, alla fine di un lungo assedio diventato vincente con la deviazione del fiume che permetteva ai difensori di resistere più lungamente. Le vicissitudini di quella guerra hanno trovato una descrizione a tinte forti proprio nell’opera di Livio.

Nonostante le chiare dimostrazioni di supremazia bellica e strategica evidenziate dai Romani, i «barbari non si volsero a pensieri di pace» ma fecero strage delle donne e dei bambini gettandoli nel vuoto dalle mura dell’abitato onde sottrarli alla schiavitù, compiendo tale «strage nefanda» poco prima che i vincitori valicassero le mura ed entrassero nel castelliere, mentre Epulo, capo degli Istri, si trapassò il petto con la spada per non cadere prigioniero. A una sorte di orribile cattività andarono comunque incontro, sempre secondo Livio, ben 5.632 persone che furono ridotte in schiavitù e «vendute all’asta» mentre i promotori della guerra vennero fustigati e decapitati[3]. Quanto a Claudio Pulcro, Roma gli avrebbe decretato gli onori del trionfo, e lo storico Ostio, che fu anche poeta, gli dedicò il De Bello Histrico (di cui sono rimasti soltanto pochi frammenti).

L’opera di successiva pacificazione e di sostanziale cooperazione perseguita dai Romani anche attraverso i nuovi coloni, ebbe non poche difficoltà perché i superstiti, con il supporto di popoli contigui come i Giapidi, tentarono di riaprire le sorti del conflitto, fino a quando Caio Sempronio Tuditano li sconfisse definitivamente nel 129 avanti Cristo; pochi anni più tardi anche i Liburni ebbero la stessa sorte, a iniziativa del console Lucio Cecilio Metello, detto il Dalmatico. A seguito di tali vittorie, la presenza di Roma divenne definitiva: nel 90 sarebbe stata riconosciuta la dignità di provincia ad Aquileia, seguita nel 32 da quella di capitale della decima Regione Italica «Venetia et Histria» (assieme al diritto di cittadinanza). Nel 46 Giulio Cesare aveva dato luogo alla fondazione di Tergeste, popolandola con parecchie migliaia di coloni, per non dire di Ottaviano che nel 33 diede vita a Pietas Julia, l’odierna Pola. L’impronta latina assunse una sorta di «opinio necessitatis» a cui Livio aveva contribuito in misura importante[4] e che sarebbe durata nei secoli, anche quando l’Impero Romano fu travolto e poi cancellato dalle nuove invasioni barbariche (accadde nel 476 dopo Cristo con Romolo Augustolo), e più tardi, quando sopravvennero quelle degli Avari e degli Slavi: tutte destinate a essere assimilate dalla civiltà latina, e poi da quella della Serenissima, sua naturale erede.

Sta di fatto che la cultura dell’Alto Adriatico si è costantemente riferita a quelle occidentali, sin dai primordi. Le stesse scorrerie dei barbari provenienti da Oriente e i successivi insediamenti stanziali di nuovi popoli «non lasciarono traccia apprezzabile nelle arti e nei costumi per il semplice fatto che esprimevano realtà culturalmente subordinate, e in quanto tali propense – vorremmo dire per legge di natura – a recepire l’elemento subordinante e a evolversi verso il modello di vita che avevano trovato sul posto e che risultava senza dubbio migliore del proprio»[5].

Ciò non significa che l’arrivo delle armi romane e la successiva colonizzazione non abbiano trovato difficoltà oggettive per la forte opposizione dei popoli già presenti sul territorio, che avevano perduto l’originario carattere nomade, diversamente da quanto sarebbe accaduto qualche secolo dopo per Unni, Vandali e Visigoti. Al contrario, gli Istri avevano sviluppato un’organizzazione stanziale che si distingueva per capacità difensive superiori alla media dell’epoca e per un discreto supporto delle attività primarie, del commercio e della navigazione.

Nei dovuti limiti, questi caratteri erano destinati a fondersi con quelli dei Romani, non senza conseguenze nella formazione dei futuri abitanti dell’Alto Adriatico, consapevoli della propria dignità di cittadini della Repubblica e poi dell’Impero, ma in qualche misura partecipi del senso di ulteriore appartenenza al contesto municipale del territorio e della consapevolezza di doverlo e poterlo difendere da ogni prevaricazione: in chiave più moderna, ne sarebbe derivato un contributo non marginale ai valori della comunità, dapprima locale, e poi di più ampio impatto. In ultima analisi, un osmosi potenzialmente fertile in un’ottica certamente non trasformista, ma «fonte di sviluppo, di confronto, e in definitiva, di tolleranza».


Note

1 Tito Livio (Padova, 59 avanti Cristo-17 dopo Cristo) visse per lungo tempo a Roma, dove ebbe un ottimo rapporto con Augusto, sebbene fosse nota la sua simpatia per Pompeo all’epoca della guerra civile. Dopo studi retorici e filosofici, e dotato di eloquenza straordinaria al pari di Cicerone (come da giudizio di Seneca) intorno al 25 avanti Cristo diede inizio alla grande opera che gli avrebbe dato fama imperitura e a cui si dedicò per il resto della sua vita: la storia di Roma da Romolo alle origini dell’Impero.

2 Dario Alberi, Istria: storia, arte, cultura, Casa Editrice Lint, seconda edizione, San Dorligo della Valle 2005, pagina 14. La monumentale opera di circa 2.000 pagine, unitamente al successivo volume dedicato alla Dalmazia, è da ritenersi una «summa» di straordinaria rilevanza per l’informazione su fatti, uomini e cose, sia degli aggregati urbani, sia degli insediamenti più piccoli. È utile aggiungere che si è avvalsa di fonti ufficiali, a cominciare da quelle latine.

3 Tito Livio, Storie: Libri XLI-XLV e frammenti, a cura di Giovanni Pascucci, Unione Tipografico-Editrice Torinese/UTET, Torino 1971, pagine 132-137 (testo latino con traduzione italiana a fronte). La descrizione dei fatti, sebbene effettuata da uno storico di parte, conserva sempre un’impronta abbastanza oggettiva, a esempio nell’accenno ai mezzi meccanici adottati dagli assedianti e alle condizioni di sostanziale inferiorità degli assediati; manca – caso mai – un reale approfondimento delle rispettive motivazioni, ma bisogna tener presente che Livio scriveva in età augustea, nella tranquilla consapevolezza di una Roma assurta davvero a «caput mundi» e della sua missione civilizzatrice, se non altro sul piano giuridico, mentre la «rivoluzione» cristiana era di là da venire.

4 Livio ha manifestato stupore nel constatare come gli Istri (e non solo) avessero preferito resistere militarmente piuttosto che accettare la sottomissione, e con essa, una cooperazione suscettibile di risultati almeno parzialmente positivi anche per loro: ciò, senza rendersi conto che – come Machiavelli avrebbe detto dopo quindici secoli – nella sua concezione i barbari erano sempre «oggetto» di storia, mentre i Romani, che potevano perdere qualche battaglia come a Canne ma vincevano tutte le guerre, erano preposti a «fare» la storia. Oltre un secolo dopo, quando Roma aveva già visto dodici Imperatori sul trono, un altro grande storico latino – quale fu Tacito – avrebbe avvertito, diversamente da Livio, la componente fatalistica che presiede parecchie vicende umane, avrebbe compreso i rischi che si profilavano all’orizzonte pur dando atto delle capacità individuali di eliderli, e avrebbe avvertito che per essere fedeli al vero si deve parlare di chiunque «senza amore e senza odio». La storia, per Tacito, corrisponde alla necessità che gli «uomini» ricordino per agire al meglio, laddove alle «femmine» è consentito piangere (con l’implicito riconoscimento di una diversa sensibilità). Nella mente e nel cuore di Livio, invece, la storia ha lo scopo primario di onorare la regina del mondo: Roma.

5 Carlo Cesare Montani, Venezia Giulia e Dalmazia: Sommario storico, terza edizione ampliata e riveduta, con traduzione inglese a fronte, Edizione ADES/Regione Friuli Venezia Giulia, Trieste 2002, pagina 21. L’opera, come si legge nella prefazione del Presidente dell’ADES (Associazione Discendenti degli Esuli) Pietro Luigi Crasti, ha avuto lo scopo di «contribuire a una conoscenza più ampia della storia di Venezia Giulia, Istria e Dalmazia, e soprattutto dei valori umani e civili affermati nel corso dei secoli dalle loro genti».

(novembre 2019)

Tag: Carlo Cesare Montani, guerra histrica, l’Istria e Roma, Aquileia, Curzola, Pola, Tito Livio, Ottaviano Augusto, Annibale, Claudio Pulcro, Epulo, Ostio, Caio Sempronio Tuditano, Lucio Cecilio Metello, Giulio Cesare, i Romani in Istria, Romolo Augustolo, Gneo Pompeo, Marco Tullio Cicerone, Lucio Anneo Seneca, Romolo, Giovanni Pascucci, Niccolò Machiavelli, Pietro Luigi Crasti, civilizzazione romana dell’Istria, ADES.