Giulio Cesare alla conquista della Gallia
Una delle più grandi imprese militari di tutti i tempi

Le campagne di Giulio Cesare in Gallia rimangono le imprese più conosciute tra tutte quelle che compì, e forse le imprese di carattere militare più ardite e con le conseguenze di durata più lunga tra tutte quelle conosciute nella Storia: la Francia odierna fu aperta da Cesare alla civiltà romana in modo così profondo, che vibra ancor oggi nella cultura e nello spirito francesi – non si può comprendere la Francia, se non si capisce il legame che l’ha unita a Roma, facendone una delle sue province più prospere. Cercheremo, in questo articolo, di delineare i fatti salienti della conquista della Gallia e di citarne le maggiori conseguenze e breve e a lungo termine.

All’inizio dell’anno 58 avanti Cristo, Caio Giulio Cesare lasciò Roma per raggiungere le due province di cui aveva ottenuto il governo proconsolare, ovvero la Gallia Cisalpina (corrispondente alla Pianura Padana) e quella Narbonese (l’odierna Provenza, in Francia). Da uomo geniale qual era, Cesare aveva intuito che la nomina a proconsole in quei territori gli avrebbe dato la possibilità di acquistarsi una gloria che ancora gli mancava: quella militare!

Quando Cesare prese il posto di governatore nelle province che gli erano state assegnate, in Gallia (una regione corrispondente alla Francia, al Belgio e a parte della Svizzera attuali, abitata da numerose popolazioni differenti per lingua, istituzioni e leggi) era terminata da poco una lunga e sanguinosa guerra tra gli Edui e i Sequani, due delle genti che abitavano la zona. Questi ultimi, per far fronte alle forze dei loro avversari, avevano chiesto aiuto a un abile condottiero straniero, Ariovisto, principe del popolo germanico degli Svevi; il risultato era che Ariovisto, dopo aver vinto gli Edui coi suoi 15.000 guerrieri, si era stanziato in Gallia da padrone, fondando nell’Alsazia un Regno Germanico; altri 120.000 Germani si erano uniti alle sue schiere. «Dalle sorgenti del Reno all’Oceano Atlantico» dice il Mommsen nella sua monumentale Storia di Roma «le tribù germaniche erano in movimento. Tutta la linea del Reno era minacciata».

I primi a fare le spese di questa nuova situazione furono gli Elvezi, una popolazione gallica stanziata fra il Lago di Costanza e il Giura Franco-Svizzero. Costretti da Ariovisto ad abbandonare le loro terre, gli Elvezi (in numero di 368.000) chiesero a Cesare il permesso di passare attraverso la Gallia Narbonese per andare in cerca di una nuova sede; ritenevano anche che il loro territorio fosse troppo piccolo in rapporto al loro numero e alla gloria della loro potenza militare. A una tale richiesta, Cesare rispose con un netto rifiuto: permettere l’esodo degli Elvezi avrebbe voluto dire agevolare Ariovisto nel primo passo del suo programma, che era la conquista dell’intera Gallia. Decise quindi di agire immediatamente, prima respingendo gli Elvezi, che avevano iniziato il loro spostamento in massa, e poi sistemando Ariovisto. A sue proprie spese e senza l’autorità che gli sarebbe dovuta venire dal Senato, Cesare arruolò ed equipaggiò quattro legioni straordinarie oltre alle quattro che già aveva. Mandò poi un perentorio invito ad Ariovisto perché venisse a discutere con lui la situazione; come si aspettava, Ariovisto – con tutta la tipica arroganza del Germano vincitore – rifiutò. Allora vennero da Cesare molte deputazioni di popolazioni galliche (non tutte legate da vincoli di amicizia o alleanza con Roma) a chiedergli protezione. Nei suoi scritti, a beneficio dei posteri e, più nell’immediato, dei suoi contemporanei (il Senato e il popolo di Roma), Cesare presenta quindi la guerra di Gallia come non voluta ma subita, dopo numerosi tentativi di conciliazione naufragati per le insidie e i continui tradimenti del nemico. Nonostante si tratti di pagine di «propaganda» (comunque, a un livello stilistico e letterario eccelso), non abbiamo prove per affermare che non corrispondano alla realtà, soprattutto considerato il carattere volubile dei Galli.

Busto di Cesare

Busto di Cesare in uniforme militare

Le prime operazioni di guerra in Gallia

Nella primavera di quello stesso anno 58 avanti Cristo, gli Elvezi diedero fuoco a tutte le loro città e a tutti i loro villaggi, alle case private e a tutto il grano, a eccezione delle scorte che dovevano portare con sé, per essere più pronti ad affrontare tutti i pericoli, una volta privati della speranza di tornare in patria; a essi si aggregarono anche altre genti. Ma quando gli Elvezi tentarono di passare il Rodano, trovarono la riva sinistra del fiume difesa da una linea fortificata fatta costruire da Cesare dal Lago di Ginevra fino al Giura. Visto naufragare ogni tentativo di sfondarla, gli Elvezi cercarono una via alternativa per penetrare nella Gallia; dopo varie trattative ottennero dai Sequani il permesso di attraversare il loro territorio, l’attuale Francia Contea, evitando così la provincia romana. Cesare non li lasciò fare ma penetrò nel territorio gallico con le sue legioni, inseguendoli: era l’unico modo per prevenire Ariovisto nella conquista della Gallia.

Lo scontro decisivo tra i Romani e gli Elvezi avvenne a Bibracte (vicino alla moderna Autun), capitale del popolo degli Edui. Cesare fece allontanare il suo cavallo e i cavalli degli altri, per rendere il pericolo uguale per tutti e togliere a ognuno la speranza della fuga, spronò i soldati e attaccò; i Romani riuscirono a spezzare la falange nemica lanciando dall’alto i giavellotti, che si piegarono negli scudi gallici così che non era più possibile svellerli, poi sguainarono le spade e si gettarono in avanti. I nemici resistettero senza fuggire dall’una del pomeriggio fino al tramonto, ma nei pressi delle salmerie si lottò fino a notte inoltrata, perché gli Elvezi avevano disposto i carri come una trincea e dall’alto scagliavano frecce sui Romani che attaccavano; alla fine, i legionari di Cesare si impadronirono dell’accampamento e delle salmerie. Questa fu la prima vittoria importante di Cesare in Gallia: gli Elvezi furono costretti a ritornare nel loro Paese e ad accettare il protettorato di Roma. Tutti gli altri Galli mandarono emissari a ringraziare Cesare e a chiedere il suo aiuto per liberarli dai Germani.

Non appena ebbe liquidato gli Elvezi, Cesare inviò un’ambasceria ad Ariovisto intimandogli di non far più penetrare in Gallia genti germaniche e di impegnarsi a non dichiarare più guerra ad alcuna popolazione gallica. Per tutta risposta Ariovisto non solo si rifiutò di obbedire, ma si preparò immediatamente alla guerra. Era quello che Cesare voleva: mise subito in marcia le sue legioni. I due opposti eserciti si accamparono nei pressi di Besançon, a poca distanza l’uno dall’altro. Non appena ebbe fortificato il suo accampamento, Cesare decise di dare battaglia: con tutto il suo esercito avanzò fino agli acquartieramenti nemici. Il combattimento divampò violentissimo; i Germani fecero scendere in campo i cavalieri, ognuno dei quali era affiancato da un fante che lo soccorreva se veniva ferito o cadeva da cavallo, e lo seguiva tenendosi aggrappato alla criniera se bisognava muoversi velocemente. Al momento opportuno, il condottiero romano fece entrare in azione le truppe fresche che teneva di riserva. La «tattica delle riserve», ideata da Cesare e usata in varie occasioni, diede i suoi frutti: i Germani si volsero in fuga e furono incalzati fino al Reno; soltanto pochi riuscirono ad attraversare incolumi il fiume, e tra questi ci fu Ariovisto, che aveva trovato una piccola barca legata alla riva, ma che morirà poco dopo; tutti gli altri, raggiunti dalla cavalleria romana, furono uccisi, e tra questi le due mogli del Re e una delle due figlie, mentre l’altra fu catturata.

Alla fine di quel fatidico anno 58 avanti Cristo, Cesare aveva portato a termine due grandi imprese militari e aveva nelle sue mani tutta la Gallia Centrale; il suo nome cominciava a incutere paura nelle popolazioni galliche. Iniziò subito a riorganizzare il Paese sotto l’autorità romana col pretesto che in nessun altro modo avrebbe potuto difenderlo dai Germani, cosa che peraltro era palese dai recenti avvenimenti.

Tutte queste notizie – più le prossime che diremo – le abbiamo apprese principalmente dallo stesso Cesare e dai suoi Commentarii de Bello Gallico (Commentari sulla Guerra Gallica): oltre a essere un Generale di primo piano, Cesare fu uno scrittore di capacità senza pari nel suo genere. Riusciva addirittura a dettare in cammino, durante i viaggi, quattro lettere per volta e tenere occupati anche sette segretari.

Ma una nuova minaccia stava maturando a Nord, in quella parte della Gallia detta Gallia Belgica, fra la Senna e il Reno, la cui popolazione – mista di Germani e di Galli – era la più agguerrita e potente perché lontanissima dalla civiltà con tutte le sue «mollezze» e sempre in guerra con i Germani d’oltre Reno. Di fronte a un «liberatore» che si atteggiava da padrone, non era difficile accorgersi di non aver riacquistato la libertà, ma di aver semplicemente scambiato il dominio di Ariovisto con il dominio di Cesare. I Belgi, forti delle loro tradizioni belliche e armati, oltre che di coraggio, della tracotanza tipica dei Galli, si diedero a cercare alleati e a organizzare un esercito per cacciare i Romani dalla Gallia. Nella primavera del 57 avanti Cristo, ben 300.000 uomini si misero in marcia per dar battaglia alle legioni. Cesare mantenne la calma e accampò il suo esercito su un altipiano tra Reims e Laon, praticamente inattaccabile perché era circondato da paludi; quando gli parve di aver studiato a fondo il piano di battaglia, sferrò l’attacco. La rapidità delle sue manovre e il valore dei suoi soldati ebbero ragione della grande superiorità numerica nemica: fu una vera carneficina.

Sbaragliati i Belgi, Cesare si trovò di fronte a una nuova lega di popolazioni promossa dai Nervii, anch’essi nella Gallia Belgica, decisi a non sottomettersi a Roma. Il condottiero romano agì con la consueta velocità, guidò le sue legioni ad attaccare uno dopo l’altro i nemici prima che riuscissero a unire le loro forze, e in questo modo estese il suo dominio sull’intera Gallia Belgica. In rapida successione, i Suessioni, gli Ambiani, i Nervii e gli Adnatici furono vinti, spogliati dei loro beni e venduti prigionieri ai mercanti di schiavi in Italia.

Nel frattempo, i luogotenenti di Cesare avevano portato la guerra anche più a Ovest, conquistando l’Armorica (l’attuale Bretagna), regione abitata dal bellicoso popolo dei Veneti. Non volendo rassegnarsi alla dominazione romana, nell’inverno del 56 avanti Cristo i Veneti diedero inizio a una rivolta trattenendo come ostaggi gli ufficiali romani incaricati di requisire frumento per l’esercito di Cesare. Il loro esempio fu subito imitato da molte altre popolazioni galliche. Giulio Cesare non perse tempo, stabilì di attaccare il nemico sia per terra che per mare. Affidò l’incarico di sferrare l’attacco sul mare al suo luogotenente Decimo Bruto; i Veneti diedero battaglia alla flotta romana certi della vittoria per il loro valore, per le loro navi dalle carene piatte e dalle prore alte adatte a quel tratto di mare infido e tempestoso, per la loro superiorità numerica: la loro presunzione costò la distruzione di quasi tutte le loro navi. Intanto, le legioni di Cesare avevano annientato anche il loro esercito sulla terraferma. Una volta domata la rivolta dei Veneti, Cesare si decise a completare la conquista della Gallia: in una serie di fortunate campagne, il suo luogotenente Publio Crasso s’impadronì dell’Aquitania, l’attuale Guascogna. Così, in poco più di due anni e con forze di gran lunga inferiori a quelle del nemico, Giulio Cesare si era impadronito di un territorio assai più vasto di quello italiano.

Poi mosse contro due tribù germaniche che – sotto la richiesta dei Galli – avevano oltrepassato il Reno, le sconfisse a Xanten uccidendo donne e bambini non meno che uomini, e in soli dieci giorni costruì un ponte di travi di legno sul fiume: un’opera di ingegneria senza precedenti, considerata la larghezza e la profondità del corso d’acqua non meno che la rapidità della corrente, per contrastare la quale le travi erano conficcate sul fondo del Reno non a perpendicolo, come le travi delle palafitte, ma oblique; a valle vennero aggiunti altri pali per resistere alla corrente impetuosa, e altre travi furono collocate non lontano dal ponte, per frenare eventuali tronchi o navi che i nemici avessero lanciato contro la costruzione per distruggerla. In anni recenti un gruppo di archeologi è riuscito a ricostruire, su un punto più stretto del Reno, un ponte come quello descritto da Cesare, a riprova della veridicità delle imprese riportate nei suoi libri. Dopo aver attraversato il fiume, suscitato timore ai Germani punendo i nemici e aiutando i popoli amici, ristabilito il Reno come frontiera sicura, Cesare rientrò in Gallia e distrusse il ponte; aveva trascorso al di là del fiume 18 giorni.

Il ponte di Cesare sul Reno

John Soane, Il ponte di Cesare sul Reno, 1814

Intanto, grazie al bottino delle conquiste inviato a Roma (col quale furono finanziati colleghi e amici, procurati lavori ai disoccupati, dati incarichi ai sostenitori e operate numerose opere pubbliche), Cesare si era fatto riassegnare per altri cinque anni il governatorato della Gallia, al termine del quale avrebbe potuto chiedere un secondo consolato. Dopodiché, si mise a cercare di persuadere i Galli che la pace sotto Roma fosse più dolce di una rissosa libertà; cosa che molti oggi sottoscriverebbero, ma che era totalmente estranea all’indole e alle tradizioni galliche. Il fuoco del riscatto dei Galli non si era spento del tutto: covava ancora sotto la cenere, aspettando solo un uomo che lo riattizzasse!


Le spedizioni in Britannia

Il primo a chiamare col nome di «Isole Pritanniche» (cioè «Britanniche») quelle che oggi sono l’Inghilterra e l’Irlanda, fu il Greco Pitea, che vi sbarcò nel 325 avanti Cristo. Da allora, e fino al Medioevo, la maggiore delle due, l’attuale Inghilterra, fu chiamata Britannia. Duemila anni prima di Gesù, quest’isola era abitata da una popolazione alla quale si è dato il nome di «iberica» perché pare sia sbarcata lì dalla Spagna. Tra il VI e il IV secolo avanti Cristo, numerose tribù di Galli riuscirono a metter piede nell’isola e a cacciarne gli Iberi. Questi nuovi arrivati, rozzi e bellicosi, si dedicarono alla caccia e all’allevamento del bestiame più che all’agricoltura; vivevano in grossi villaggi di capanne di legno e di fango seccato. Non ebbero mai un capo comune e si riunirono in preferenza in «clan», ossia in gruppi di più famiglie, che si combattevano fra loro. La classe sociale più elevata era costituita dai sacerdoti, detti anche «druidi» (dal greco «drùs», ossia «quercia») perché tenevano le loro assemblee e celebravano i riti religiosi nel folto delle foreste; oltre che sacerdoti, i druidi erano anche giudici, medici, indovini e si assumevano il compito di educare militarmente i giovani.

Agli inizi del I secolo avanti Cristo, la Britannia venne invasa da altre tribù, che avevano un maggior grado di civiltà e una migliore pratica della guerra: quelle dei Belgi. Furono molto più attivi e intelligenti dei loro predecessori: si dedicarono all’agricoltura e sfruttarono le ricche miniere di stagno dell’isola, dando ben presto inizio a un commercio molto attivo di questo metallo con gli abitanti della Gallia.

Quando, nel 55 avanti Cristo, Giulio Cesare ebbe sottomessa la Gallia, volle tentare un’impresa considerata al limite del possibile: guidare le sue legioni sul suolo britannico, più per punire i Britanni per l’aiuto che avevano dato ai Galli negli anni di guerra precedenti, che per porre le basi di una conquista duratura (nonostante corressero voci che sull’isola abbondassero oro e perle, e vi fossero depositi di ferro e di stagno).

Il mare che separava la Gallia dalla Britannia era infido per le maree fortissime e per le tempeste selvagge e frequenti. Ma Cesare era tipo da provare a percorrere anche quelle vie ignote e pericolose. Verso la fine di agosto del 55 avanti Cristo, tutto era pronto per lo sbarco: 12.000 uomini, imbarcati su 80 navi, salparono in piena notte dal porto di Boulogne alla volta della Britannia; dopo sette ore di navigazione, davanti agli occhi dei legionari si stagliarono i profili delle bianche scogliere di Dover.

I Britanni erano già stati messi sull’avviso e attendevano armati sulla riva, spiando le mosse della flotta romana. Avevano l’abitudine di combattere su carri leggeri a due ruote, chiamati «èssedi»; smontavano dai carri soltanto quando dovevano lanciarsi all’assalto. Prima della battaglia si tingevano il corpo col guado, una sostanza vegetale che produceva un colore azzurro, dando loro un aspetto spaventoso. Non appena si accorsero che le navi nemiche avevano gettato le ancore un po’ al largo, non lasciarono neanche il tempo ai legionari di prepararsi per lo sbarco, ma si lanciarono in mare con carri e cavalli andando contro gli avversari scagliando pietre e giavellotti.

Ignorando la profondità dell’acqua e atterriti dall’attacco improvviso, i legionari romani non ebbero il coraggio di gettarsi in mare verso i nemici. Allora l’alfiere della decima legione, la più valorosa, raccolse tutto il suo coraggio e gridò: «Saltate in acqua, soldati, se non volete consegnare l’aquila al nemico. Io farò il mio dovere verso la Repubblica e verso il mio capitano!». Dette queste parole, si tuffò in acqua e, tenendo in alto il vessillo raffigurante un’aquila dalle ali spiegate, si diresse verso i nemici. Nessuno ebbe più un attimo di esitazione: in pochi momenti l’alfiere si ritrovò attorniato da centinaia e centinaia di soldati, decisi a lottare contro il nemico con tutte le loro forze.

Avvantaggiati dalla cavalleria, i guerrieri britanni infliggevano gravi perdite ai Romani, ma senza riuscire a provocarne il cedimento; dopo ore di combattimento accanito, i legionari riuscirono a mettere piede sulla costa e a schierarsi subito in ordine di battaglia. Superata la fase più critica dello scontro, l’attacco dei Britanni fu respinto senza difficoltà e ai guerrieri del Nord non rimase altra via che ritirarsi a precipizio all’interno dell’isola.

Dopo la sconfitta sulla costa, i Britanni chiesero a Cesare la pace. Ma ben presto, avendo notato che ai Romani mancavano viveri, cavalli e anche navi, perché molte di quelle che erano servite per lo sbarco erano state distrutte da una tempesta, decisero di riaprire le ostilità. Respinti più volte in accaniti combattimenti, i Britanni furono costretti a implorare di nuovo la pace. Ma Cesare aveva intanto capito che per sconfiggere quei guerrieri in modo definitivo ci voleva l’aiuto di un poderoso corpo di cavalleria. Così, ottenuto un certo numero di prigionieri, tornò in Gallia con la ferma intenzione di ritentare l’impresa l’anno seguente, questa volta con forze adeguate.

Nell’estate del 54 avanti Cristo, Cesare si diresse verso la Britannia con un esercito di 50.000 fanti e 2.000 cavalieri, imbarcato su 800 navi.

Come l’anno precedente, i Britanni erano schierati lungo la costa; quando, però, videro apparire un così gran numero di navi, furono presi dal panico e fuggirono nell’interno.

Si erano scelti un capo, Cassivellauno, che aveva stilato un piano di guerra molto intelligente: attirare l’esercito invasore al centro dell’isola, per poi accerchiarlo e distruggerlo. Ma ormai Cesare conosceva il modo di combattere dei suoi nemici: sapeva che, dopo essersi lanciati per primi all’assalto sui carri, sarebbero stati disorientati dalle rapide manovre delle legioni romane. Decise quindi di spingersi senza indugio verso l’interno.

La battaglia risolutiva si svolse sulle sponde del Tamigi. I Britanni, incitati da Cassivellauno, si difesero fino allo stremo; ma la cavalleria romana ebbe la meglio, guadò il fiume e investì il presidio nemico. Oltrepassato il Tamigi, l’avanzata delle legioni romane, compatte, procedette implacabile. Il campo trincerato di Cassivellauno era nascosto nel folto di una foresta e difeso da fosse e bastioni scoscesi: venne distrutto. Ormai l’esercito dei Britanni era pienamente sconfitto. Cassivellauno fu costretto a una pace a condizioni dure, a consegnare a Cesare un gran numero di ostaggi e a promettere il pagamento di un tributo annuale al popolo romano.

I Romani consideravano la Britannia l’«estremo lembo del mondo». A Cesare spettò il merito di aver condotto per la prima volta un esercito romano su quel territorio ignoto. Le due spedizioni del grande condottiero furono di certo un’impresa militare estremamente audace, ma non portarono alla conquista dell’isola: Cesare non poté trattenersi in Britannia perché già impegnato nella guerra contro i Galli e il Senato Romano non credette allora opportuno inviare delle legioni a presidiare quelle terre lontane. Solo un secolo dopo, nell’anno 43 dell’Era Volgare, l’Imperatore Claudio diede inizio alla conquista dell’isola; nel 120 dopo Cristo, sotto l’Imperatore Adriano, quasi tutta la Britannia faceva parte dell’Impero Romano, aprendosi a quella civiltà.


Ultimo atto: Vercingetorige

Nei primi mesi dell’anno 52 avanti Cristo, Giulio Cesare fu costretto a lasciare in tutta fretta l’Italia per tornare in Gallia. L’anno precedente aveva schiacciato gli Eburoni e gli ultimi popoli gallici in armi, e marciato di nuovo in Germania. Ma il fuoco sotto la cenere di cui abbiamo detto più sopra aveva trovato un uomo capace di riaccenderlo e dargli nuovo vigore: Vercingetorige, figlio di Celtillo, Re dell’Arvernia, terra gallica di montagne ricche d’oro e di argento.

Le vittorie di Cesare, fulminee e strepitose, avevano suscitato il terrore in tutti i popoli gallici, costretti a sottomettersi a Roma ma non del tutto rassegnati ad accettare il dominio altrui. Vercingetorige, il cui sangue ribolliva nelle vene all’idea di rinunciare alla lotta, si era posto un obiettivo grandioso: incitare tutte le popolazioni della Gallia alla ribellione contro i Romani e guidarle nella lotta di liberazione.

Così, per mesi e mesi, Vercingetorige – superando l’opposizione dei nobili che tenevano il governo – aveva percorso la Gallia per convincere i capitribù a incitare i loro sudditi alla riscossa. «Meglio cadere tutti morti sul campo di battaglia, piuttosto che rinunciare alla libertà»: era questo il motto che voleva fosse ripetuto fra tutte le genti.

Il suo appello non era rimasto inascoltato: tutte le tribù stanziate tra la Loira e la Garonna lo avevano accettato come loro capo e moltissimi giovani avevano cominciato ad affluire in Arvernia per arruolarsi nell’esercito del giovane Sovrano; tanto numerose erano state le adesioni alla sua causa, che aveva potuto organizzare esercito bene armato e con leve regolari. Le colline brillavano per il riflesso del sole sulle spade e risuonavano del clangore del battito delle lame sugli scudi gallici.

Ma all’inizio di quel fatidico anno 52 avanti Cristo, prima che le schiere nemiche fossero riuscite a radunarsi tutte insieme, Giulio Cesare decise di prendere l’iniziativa. La situazione era critica: le sue legioni erano lontane, al Nord della Gallia, e tutti i territori che lo separavano dalle sue truppe erano in mano ai ribelli. Condusse un piccolo distaccamento attraverso le Cevenne coperte di neve contro l’Arvernia. Vercingetorige accorse per difendere la sua terra, Cesare lasciò Decimo Bruto al comando e con pochi cavalieri cavalcò travestito attraverso tutta la Gallia, dal Sud al Nord, raggiunse il grosso del suo esercito e subito lo portò all’attacco.

Il primo scontro tra Cesare e Vercingetorige avvenne sotto le mura di Avarico, l’attuale Bourges; contro il parere di Vercingetorige, gli abitanti tentarono di difendere la loro città, confidando che le paludi e le palizzate di legno avrebbero fiaccato la carica dei legionari. Ma, sotto l’impeto della cavalleria romana, Vercingetorige decise di ripiegare verso la capitale dell’Arvernia, Gergovia (oggi, Clermont-Ferrand). I legionari si lanciarono all’attacco con un impeto formidabile, occupando tre accampamenti nemici, ma poi non prestarono ascolto alla tromba che segnalava di ripiegare e si trovarono accalcati contro le mura della città; la cavalleria gallica li assalì falciandoli come spighe di grano maturo. Gli Edui tradirono l’alleanza con Cesare per unirsi a Vercingetorige, occuparono la base e i depositi romani a Soissons e si prepararono a ricacciare le legioni romane nella Gallia Narbonese. Fu un avvenimento veramente eccezionale, soprattutto sul piano psicologico, perché Cesare – le cui perdite erano state in fondo modeste, meno di 700 uomini – aveva perso tra i Galli la sua fama d’invincibile.

Desideroso di sfruttare il successo e il momento favorevole, Vercingetorige decise di non dare tregua al nemico; ma, ancora una volta, la cavalleria romana nei pressi di Digione mise in rotta l’esercito gallico, costringendolo a cercare riparo nella fortezza di Alesia (Alise-Sainte Reine). La città sorgeva sulla cima di un colle molto elevato, tanto che l’unico modo per espugnarla era l’assedio. Cesare approntò una linea di fortificazione tutt’intorno alla città costituita da tre fosse (di cui una riempita d’acqua), da un terrapieno e da un vallo con parapetto e merli; lungo tutto il perimetro delle difese innalzò torrette distanti 24 metri l’una dall’altra. Poi scavò altre fosse coperte di vimini e riempite di pali acutissimi, per trafiggere chi vi fosse finito dentro. Terminate queste opere, costruì una linea difensiva dello stesso genere contro un nemico proveniente dalle spalle. Queste fortificazioni rimangono una pietra miliare nella storia militare fino a oggi.

Vercingetorige si preparò alla riscossa. Aveva 80.000 soldati, mentre Cesare era riuscito a disporne 50.000 – tra Romani e alleati – intorno alla città. Ma il capo gallico poteva avere di più. Di notte, mentre le opere di fortificazione dei Romani erano ancora in corso, mandò la propria cavalleria a chiedere aiuti alle popolazioni vicine. Col passare dei giorni e la diminuzione delle scorte di viveri, Vercingetorige decise di liberarsi di tutti quelli che non erano atti alle armi: i vecchi, le donne e i bambini vennero cacciati fuori dalle mura della città. Con l’aggravarsi ulteriore della situazione, i maggiorenti di Alesia proposero la resa, ma Vercingetorige non cedette: confidava sempre nell’aiuto delle popolazioni vicine.

Proprio quando gli assediati stavano per essere ridotti alla fame, un poderoso esercito giunse ad Alesia per accerchiare i legionari romani: 240.000 fanti e 8.000 cavalieri, guidati da quattro esperti condottieri.

Nella fortezza, Vercingetorige incitò i suoi alla lotta e assicurò di avere ormai nelle mani la vittoria. Al suono cupo delle «carnix», le trombe da guerra galliche, gli assediati e le truppe giunte in loro aiuto sferrarono l’attacco in contemporanea. Cesare dispose l’esercito lungo entrambe le linee fortificate. I Galli, convinti della loro superiorità e vedendo i Romani pressati dalla loro massa, si incitavano l’un l’altro con grida e urla. Per quattro giorni e notti la lotta divampò violentissima e disperata.

Alla testa dei suoi uomini Vercingetorige attaccava, indietreggiava, contrattaccava, tentando in tutti i modi di aprirsi un varco. Invano, perché i Romani non erano disposti a cedere. Anzi, la cavalleria romana riuscì a spezzare l’accerchiamento e cominciò ad aggirare alle spalle l’esercito gallico. Lentamente, i Galli cominciarono a retrocedere. Quando apparve Giulio Cesare in persona alla testa di truppe fresche, l’intero esercito nemico – privo di vettovaglie e di disciplina – fu preso dal terrore e fuggì a precipizio, frazionandosi in una miriade di piccole bande. I campi si ricoprirono di cadaveri. 74 insegne militari nemiche furono portate a Cesare. All’ombra dei bastioni di Alesia, i Romani non avevano vinto una battaglia: avevano vinto l’intera guerra!

Nella sua opera Vita di Cesare (capitolo 15), Plutarco scrisse che con la guerra di Gallia Cesare si dimostrò superiore ai più ammirati e grandi condottieri del passato e del presente, «per i luoghi impervi ove combatté, […] per i territori estesi che conquistò, […] per il numero e la forza dei nemici che vinse, […] per la ferocia e la perfidia delle Nazioni che civilizzò, […] per la bontà e la mansuetudine che dimostrò verso i prigionieri, […] per i regali e i favori che fece a chi combatté con lui; […] per il numero delle battaglie che disputò e dei nemici che uccise. In meno di dieci anni, quanto durarono le sue guerre in Gallia, prese d’assalto più di 800 città, soggiogò 300 Nazioni, scese in battaglia, separatamente, con tre milioni di uomini, ne uccise in combattimento un milione e ne fece prigionieri altrettanti».

Pur nella sconfitta, Vercingetorige si dimostrò fiero e coraggioso: ai suoi uomini dichiarò che, non essendo riuscito a liberare il Paese dal dominio straniero, era pronto a sacrificarsi, dandosi prigioniero a Cesare e prendendo su se stesso tutta la responsabilità della ribellione.

Mantenne la promessa: rivestito della sua migliore armatura e in sella a un cavallo bardato in modo splendido, Vercingetorige uscì dalle mura di Alesia. Giunto di fronte a Cesare, si slacciò l’armatura e la gettò via; poi, lanciando uno sguardo orgoglioso al condottiero romano, cadde in ginocchio, in segno di sottomissione.

La resa di Vercingetorige

Lionel-Noël Royer, La resa di Vercingetorige, 1899, Museo Crozatier, Le Puy-en-Velay (Francia)

Giulio Cesare si mostrò clemente verso i nemici, risparmiando la città, anche se tutti i soldati furono dati come schiavi ai legionari; ma diede ordine che Vercingetorige fosse messo in catene. Nel 46 avanti Cristo, quando celebrò in Roma il trionfo per le vittorie ottenute in Gallia, il capo dei Galli dovette seguire in catene il carro del trionfatore. Ma i Romani avevano riservato per lui una punizione ancora più dura: dopo sei anni di prigionia, Vercingetorige venne decapitato.


Le conseguenze della conquista della Gallia

La conquista della Gallia ebbe conseguenze, sia immediate che durature, che probabilmente neppure Cesare avrebbe pensato, e che proseguono ancor oggi in tutta l’Europa Occidentale – e, potremmo dire, in tutto il mondo, tramite i viaggi di esplorazione e colonizzazione fatti dalle Nazioni Europee dal Rinascimento in poi. Innanzitutto, venne ad aggiungersi al territorio romano un Paese due volte più grande dell’Italia, che aprì le porte e i mercati di cinque milioni di uomini al commercio romano; la conquista impedì l’unione che stava avvenendo tra i Galli e i Germani, salvò l’Italia e il Mediterraneo intero per quattro secoli dall’invasione barbarica e sollevò Cesare dall’orlo della rovina politica a un livello senza precedenti di gloria, di ricchezza e di potere. L’asse espansionistico di Roma si spostò dall’Oriente all’Occidente avviando la romanizzazione delle ricche terre tra i Pirenei, l’oceano e il Reno. Vi fu ancora un anno di rivolte sporadiche, che il Generale adirato sedò con una severità che non gli era propria, poi tutta la Gallia accettò di sottomettersi a Roma; Cesare ridiventò il generoso conquistatore, e trattò i popoli vinti con una tale mitezza, che nella successiva guerra civile tra Cesare e Pompeo – quando le legioni romane si sarebbero trovate nell’impossibilità di intervenire – i Galli non fecero nulla per liberarsi dal giogo.

Per oltre 300 anni la Gallia rimase provincia romana, prosperò sotto la pace romana, imparò e trasformò la lingua e divenne il mezzo attraverso il quale l’antichità classica si diffuse nel Nord dell’Europa. Cesare non aveva semplicemente salvato l’Italia, conquistato una provincia e forgiato un esercito: era stato il creatore della futura civiltà francese e del suo carattere latino. Tutto ciò che di grande e duraturo la Francia ha potuto fare nei secoli futuri, lo deve – in misura diretta o indiretta – essenzialmente a Giulio Cesare.

Roma, che aveva conosciuto Cesare solo come un prodigo, un libertino, un uomo politico, un riformatore e uno scrittore di qualche libello partigiano, scoprì in lui un instancabile amministratore, un Generale pieno di risorse e un grande storico. Di lui, disse Cicerone – che pure lo avversava politicamente – che «non i baluardi alpini e neppure il Reno rapinante e straripante, ma gli eserciti e il comando di Cesare considero nostro scudo e nostra barriera contro l’invasione dei Galli e le barbare tribù germaniche. A lui noi dobbiamo, anche se si spianassero le montagne e inaridissero i fiumi, il vantaggio di poter egualmente serbare la nostra Italia difesa, non da barriere naturali, ma dalle imprese e dalle vittorie di Cesare».

Potremmo concludere con le parole di un grande storico tedesco, il già citato Mommsen: «Se c’è un ponte che collega la gloria passata della Grecia e di Roma con le più superbe costruzioni della storia moderna, se l’Europa Occidentale è romana e se l’Europa Germanica è classica... tutto questo è opera di Cesare: e mentre l’opera del suo grande predecessore in Oriente [Alessandro Magno] è stata quasi interamente annientata dalle bufere del Medioevo, ciò che Cesare costruì ha superato i millenni, che pure hanno travolto religioni e Stati».

(novembre 2020)

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