L’affascinante mondo della gladiatura; le donne nell’anfiteatro di Pozzuoli
Non solo gli uomini, ma anche alcune donne gladiatrici si batterono nell’arena, con grande successo di pubblico

Il complesso mondo dei gladiatori non finisce mai di affascinare né di stupire e la visita all’anfiteatro di Pozzuoli mi permette di parlare di un altro aspetto della gladiatura: quello dedicato alle donne combattenti nell’arena.

Ebbene sì, le donne nell’arena non entravano solo come semplici spettatrici, come ammiratrici disposte a tutto pur di incontrare e di condividere momenti unici con i loro amati gladiatori, le donne combattevano nell’arena, sì, avete letto bene, il gentil sesso si allenava e si esibiva nell’arena come i colleghi uomini ed era molto apprezzato.

Benvenuti nella gladiatura tutta al femminile.


Il gentil sesso e la gladiatura nell’anfiteatro di Pozzuoli

Ebbene sì, le donne si allenavano, combattevano nell’arena ed erano idolatrate proprio come i loro colleghi uomini, ma non entrarono subito nei «munera gladiatoria» perché durante l’Età Repubblicana i ludi avevano ancora un carattere religioso e i combattimenti erano organizzati solo tra gli schiavi maschi, tutto però cambiò con Augusto.

Egli si rese conto che i ludi avevano perso molto della sacralità del rito, così decise di riorganizzarli e ridefinì le regole di combattimento per arginare anche il fenomeno ormai diffusissimo di usarli come strumenti politici e propagandistici.

Con Augusto le donne entrarono ufficialmente nell’arena, ma ogni Imperatore si comportò in modo ambiguo su tale fenomeno, oscillava tra il volersi mostrare garante e rispettoso della morale pubblica limitando il ruolo della donna nell’arena o nel teatro, e tra il desiderio di rivaleggiare con i predecessori entrando nella storia come l’ideatore e il finanziatore dei giochi più stupefacenti. Quest’ultimo desiderio ebbe spesso la meglio così ogni Imperatore cercò, spendendo tantissimo, di organizzare gli eventi più spettacolari di sempre, che prevedevano il far partecipare il più alto numero di scuole gladiatorie, di far combattere nani, mostrare nuove bestie feroci e sconosciute, di allestire ricostruzioni storiche in cui si raffigurava la vittoria di Roma sui nemici, condanne al supplizio sempre più cruenti e spettacolari, insomma cercava di mettere in scena sempre qualcosa di mai visto prima pur di sbalordire e ingraziarsi gli spettatori: le donne gladiatrici entrarono nell’arena proprio per meravigliare il pubblico.

Ciò fu permesso grazie alla presenza sempre più marcata della donna nel mondo dello spettacolo e al suo modo unico di entrare in scena, infatti a teatro recitava spesso nuda, nella gladiatura, invece, combatteva seminuda, indossava le armi di difesa e di offesa, ovviamente le metteva succinte, cosicché si creava l’evento nell’evento, i combattimenti tra le gladiatrici avvenivano sempre dopo quelli maschili; Nerone organizzò nell’anfiteatro di Pozzuoli, in occasione dei ludi in onore della madre, i combattimenti tra uomini e donne di rango equestre e senatorio sia contro le bestie, «venationes», che come gladiatori e gladiatrici, lo stesso fece l’Imperatore Domiziano che, per agevolare la vista dello spettacolo in notturna, fece illuminare con numerosissime torce l’anfiteatro puteolano, il pubblicò gioì, un po’ meno chi finanziava i giochi.

Le donne, quindi, combattevano sia tra loro che contro le bestie, come gli uomini, e piacevano moltissimo al pubblico tanto che non mancarono tentativi di arginare tale fenomeno, infatti l’Imperatore Settimio Severo, nel 200 dopo Cristo, promulgò un divieto per la donna di combattere nell’arena, divieto non del tutto rispettato. Non fu l’unico a cercare di ridimensionare tale fenomeno, diversi Imperatori cercarono di proibire che diventassero gladiatori e gladiatrici i rampolli e le fanciulle delle classi più agiate poiché alla fama, alla ricchezza e alla venerazione nell’arena si contrapponeva la dura legge e il duro rigore morale romano che etichettava come infamanti tutte quelle professioni legate al mondo dello spettacolo, una volta marchiati d’infamia si perdeva ogni diritto civile e sociale, in poche parole chi voleva entrare in questo duro mondo doveva abiurare la propria origine e rinunciare alla propria eredità, cosa non proprio gradita dalle illustri famiglie.


Le fonti storiche sulle gladiatrici

Nonostante sia un mondo ancora poco studiato, non mancano testimonianze archeologiche che provano la presenza delle gladiatrici nei combattimenti; da una iscrizione rinvenuta nel porto di Ostia del III secolo si capisce che il divieto delle donne di entrare nell’arena, di Settimio Severo, non era rispettato; sul bassorilievo del II secolo dopo Cristo proveniente da Alicarnasso, conservato al British di Londra, sono raffigurate due donne gladiatrici, Amazon e Achilia, pseudonimi da combattimento, raffigurate mentre combattono nell’arena. Tale bassorilievo voleva essere un omaggio alle due gladiatrici congedate dal «ludo», come testimonia la scritta «missae sunt», dove si erano distinte per bravura e coraggio.

Amazon e Achilia

Bassorilievo di Alicarnasso raffigurante Amazon e Achilia, due donne gladiatrici, II secolo dopo Cristo, British Museum, Londra (Inghilterra)

Da queste fonti sappiamo che l’abbigliamento delle gladiatrici era simile a quello degli uomini così come l’allenamento e la rigorosa vita nelle scuole gladiatorie, separate, ovviamente, da quelle maschili.


Il marchio d’infamia

Il mondo della gladiatura, e dello spettacolo in generale, faceva impazzire il Romano che lo vedeva come un mezzo veloce per la celebrità – le effigi dei gladiatori e delle gladiatrici più amati decoravano vari gadget di uso comune –, la gloria nel tempo e la ricchezza (i gladiatori non sempre morivano nell’arena, potevano morire dopo per le ferite riportate ma i lanisti e gli organizzatori non erano proprio favorevoli a perdere la loro fonte di guadagno e di consenso, chi moriva nell’arena in modo fantasioso e atroce era il semplice condannato a morte, non al gladio).

Ma a fare da contraltare a questa spropositata fama, al guadagno e alla gloria ci stava la denigrazione giuridica e sociale, e sì, per la legge romana tutte le figure che lavoravano nel mondo dello spettacolo come i gladiatori, gli aurighi, gli attori e tutti i protagonisti dei ludi erano collocati in una posizione socialmente inferiore, perdevano ogni diritto civile e non potevano intraprendere nessuna carriera pubblica. Ciò sarebbe normale visto che molti gladiatori erano schiavi, prigionieri di guerra o condannati al gladio, ma molti cittadini romani sceglievano volontariamente di far parte di questo spietato e crudele mondo dello spettacolo, molti provenivano sia da ceti umili sia dalle famiglie patrizie, tutti decidevano volontariamente di essere tacciati di infamia pur di intraprendere una carriera nel mondo del teatro o dell’arena.

Questi cittadini e cittadine romani volontariamente perdevano i loro diritti per diventare quasi degli schiavi e come tali si rimettevano totalmente alla volontà del lanista che poteva disporre di loro come più voleva, ovviamente non venivano trattati come gli altri schiavi, però il fatto che rinunciavano volontariamente a tutto pur di combattere nell’arena fa capire quanto questi spettacoli fossero importanti e amati dai Romani.

I gladiatori e le gladiatrici volontari venivano trattati diversamente, si addestravano negli «ergastula» e non nella palestra gladiatoria, ricevevano un allenamento più professionale da istruttori diversi rispetto agli altri, questi gladiatori venivano chiamati «auctorates» perché sceglievano l’«auctoramentum» cioè l’atto o suggello sacrale attraverso il quale si rimettevano totalmente al lanista, ciò garantiva loro un trattamento speciale, ma non uno sconto sulla dura e difficile «ars gladiatoria».

Gli «auctorates» venivano indicati sui calendari dei combattimenti con la sigla «liber-» («libero») accanto alla loro specializzazione, sempre su questi calendari si poteva trovare un’altra sigla, «libert-» («liberto») che stava a indicare un’altra figura gladiatoria, quella che noi oggi chiameremmo libero professionista, un gladiatore indipendente il quale decideva autonomamente di combattere poiché era libero da ogni rapporto con un lanista; queste nuove figure spiegano bene il complesso mondo della gladiatura dove oltre allo schiavo o al condannato al gladio senza diritto, troviamo chi sceglieva volontariamente di perdere ogni diritto pur di seguire il proprio «sogno» nell’arena.

Nonostante l’infamia, cosa strana visto che nel mondo greco il teatro e lo sport erano nobili attività ben viste e praticate, la gladiatura fu una vera moda tra i membri del ceto senatorio ed equestre meno inclini alla formalità sociale, moda iniziata già sul finire dell’Età Repubblicana in seguito all’aumento delle rappresentazioni sceniche organizzate sia per la commemorazione di eventi politici che per quelli privati, moda che ogni Imperatore cercava sempre di arginare.


L’anfiteatro di Pozzuoli e gli spettacoli gladiatori: i sotterranei e la perfetta macchina organizzativa dello spettacolo

L’arena di Pozzuoli ha visto combattere numerosi gladiatrici e gladiatori di ogni ceto sociale, ha visto Imperatori fare a gara per allestire ludi sempre più strabilianti e violentemente audaci, è arrivato il momento di scoprire il terzo anfiteatro più grande costruito dai Romani, è arrivato il momento di visitare l’anfiteatro di Pozzuoli e i suoi suggestivi sotterranei.

L’anfiteatro Flavio di Pozzuoli è il terzo più grande del mondo romano – il primo è il Colosseo, il secondo è quello di Capua – ma a renderlo unico sono i suoi sotterranei, sono i più ampi e meglio conservati tra quelli sopravvissuti alla storia e all’uomo, così camminando tra i suoi ipogei uno può immaginarsi organizzatore dei giochi più affascinati e crudeli ideati dall’umanità, può immaginarsi circondato da belve feroci rinchiuse in gabbie, odori penetranti, il via vai degli addetti allo spettacolo, tutte attività svolte in corridoi semibui illuminati solo da botole e da una lunga apertura centrale, entrambe utilizzate per far salire sull’arena i gladiatori, le gladiatrici, le belve e tutte le scenografie.

Sotterranei delle gladiatrici

Particolare dei sotterranei delle gladiatrici, Pozzuoli (Italia); fotografia di Annalaura Uccella, 2017

Sotterranei dei gladiatori

Sotterranei dei gladiatori, Pozzuoli (Italia); fotografia di Annalaura Uccella, 2017

L’unicità di questi sotterranei, differenti da quelli del Colosseo e di Capua, sta nella scelta di costruire l’anfiteatro nell’unico spazio abbastanza pianeggiante presente tra la collina della Solfatara, l’abitato del Rione Terra e la parte terminante della Via Domitiana, importante arteria di comunicazione verso Roma. Tale scelta spinse a ricavare una serie di ambienti di servizio lungo le pareti perimetrali dei sotterranei e utilizzati sia per l’accatastamento dei materiali sia per contenere le gabbie delle fiere, mentre gli ambienti necessari per accogliere i gladiatori, i danzatori e gli attori, furono ricavati nella parte centrale dei sotterranei, per spostarsi da una parte all’altra si sfruttava un ambulacro ellittico perimetrale.

Non solo gli ambienti di servizio furono portati sottoterra ma anche le vie di accesso furono ridotte a due ripide rampe carreggiabili realizzate sugli assi maggiori, le quali, una volta coperte da tavolati di legno, venivano usate anche per far salire il pubblico verso le gradinate della cavea, quindi, una volta coperte, non si poteva più uscire dai sotterranei e ciò significava che tutto il necessario per gli spettacoli gladiatori doveva stare già nell’anfiteatro molto prima dell’inizio dello spettacolo, immaginate che cosa diventavano questi ambienti una volta chiusi gli accessi, un girone infernale con uomini, bestie affamate e caldo; accanto a queste due entrate principali, c’erano otto strette scalette alle estremità dell’arena che completavano l’accesso al piano ipogeo, ma erano prevalentemente di servizio.

Le uniche fonti di luce e di aria erano le numerose botole e una lunga apertura presente nel corridoio centrale che servivano a far salire dai sotterranei direttamente nell’arena i gladiatori, i teatranti, le belve e le scenografie attraverso un complesso sistema di argani e carrucole.

Dopo ogni spettacolo bisognava poi pulire l’arena e i suoi sotterranei, così sotto il piano di calpestio dell’ipogeo è stato fatto passare un ramo dell’acquedotto il quale, integrato a un complesso sistema di incanalamento delle acque piovane, permetteva di pulire in modo rapido sia gli spalti che i sotterranei, facendo defluire poi le acque al mare.

La città di Puteoli, essendo una Colonia Flavia Augusta, poté realizzare con fondi pubblici questo maestoso e imponente anfiteatro, desiderio appoggiato anche dall’Imperatore Vespasiano che volle premiare Puteoli e la flotta di stanza a Miseno per averlo sostenuto durante la guerra civile contro Vitellio. Per realizzarlo si affidò agli stessi costruttori che Vespasiano volle per il Colosseo. Fu terminato nella seconda metà del I secolo dopo Cristo ma subito si presentarono problemi strutturali e fu necessario un nuovo intervento nella seconda metà del II secolo, fu costruito totalmente in laterizi e tufo, «opus reticulatum», tipica tecnica costruttiva dell’Età Favia.

Fu più volte restaurato già in epoca romana fino al IV secolo dopo Cristo, cioè fino a quando tutti gli anfiteatri dell’Impero smisero di funzionare, iniziò anche per l’anfiteatro Flavio di Pozzuoli il declino, iniziò la sua spoliazione dai materiali più preziosi e il suo riuso in modo bizzarro e originale: l’arena, che prima ospitava i combattimenti gladiatori, si trasformò in un bel vigneto, parte della «cavea» fu utilizzata come abitazione o come ambienti con diverse funzioni, stessa fine toccò agli ambienti esterni del porticato riusati come abitazioni o come botteghe, i sotterranei, invece, furono utilizzati come immondezzaio e furono buttate lì colonne, capitelli, alcune statue, eccetera, che hanno avuto la fortuna di non finire in calce e giungere a noi salve e oggi esposte nel museo dell’area flegrea di Bacoli.

L’anfiteatro rimase sempre ben visibile ai Puteolani ma i suoi sotterranei no e furono riscoperti nel 1839 grazie alle varie campagne di scavo promosse dai Borbone. Tali scavi ripresero con più vigore tra il 1955 e il 1977, l’anfiteatro fu poi restaurato, in modo molto pesante, con l’intento di riusarlo come avviene per l’arena di Verona; altri restauri sono stati fatti negli ultimi anni, volti a liberare la struttura dai precedenti lavori che erano stati eseguiti rispettando una diversa filosofia di restauro, molto invasivo.


I Romani cresciuti a «panem et circenses» e l’anfiteatro di Pozzuoli

L’anfiteatro di Pozzuoli diede fama ai gladiatori, ricchezza ai lanisti e agli organizzatori di tali ludi, ma proprio per arginare il potere che derivava da questi spettacoli furono scritte numerose leggi che regolamentavano ogni minimo aspetto di questa imponente e crudele macchina da consenso. Andiamo a scoprire come i Romani vivevano questo affascinate mondo.

La maestosità dell’anfiteatro di Pozzuoli e la scelta di costruirlo vicino all’abitato, tanto da riadattare la sua architettura a uno spazio più limitato rispetto alle altre costruzioni simili e coeve, fa capire benissimo quanto i Romani amassero questo tipo di spettacolo, ma per evitare che tale complessa macchina si inceppasse sul più bello furono scritte numerose leggi, le «leges gladiatorieae», il cui intento era quello di regolamentare tutto, dai posti a sedere alla successione degli spettacoli, mentre le coreografie, le scenografie e i costumi di scena, anche quelli indossati dai gladiatori, venivano affidati a organi preposti che li sceglievano e li realizzavano, in questi staff organizzativi non mancavano i medici che intervenivano per curare i feriti da combattimento.

Per legge iniziarono a essere drasticamente limitati e autorizzati solo con appositi permessi i «munera gladiatoria» privati – considerati straordinari – e organizzati solo in determinate circostanze, come un funerale o una campagna elettorale o per disposizione testamentaria di membri particolarmente importanti della società; arginarono lo strapotere degli impresari e dei lanisti, questi ultimi non esitavano a chiedere esorbitanti somme per far scendere nell’arena i loro atleti più gettonati, così come non esitavano a chiedere all’«editor» un esoso rimborso, composto dal prezzo dell’ingaggio più il valore del gladiatore, in caso in cui uno dei loro venisse pesantemente ferito o morisse durante il combattimento. I prezzi raggiunsero cifre esorbitanti, tanto che Marco Aurelio cercò di calmierarli e di arginare l’avidità dei lanisti i quali, seppur disprezzati socialmente, continuarono ad accumulare ingenti fortune. Tali leggi stabilirono anche il numero massimo di gladiatori per ogni scuola gladiatoria, per evitare che il lanista si creasse un esercito personale ben addestrato.


I ricchi romani e il mondo dell’arena

Come ho accennato più sopra, nonostante la passione dei Romani verso questo mondo, chi intraprendeva la carriera dello spettacolo o dell’arena veniva bollato come infame e poco importava se era un libero cittadino o un nobile, ma quest’ultimo riuscì a trovare una geniale soluzione per evitare tale marchio, iniziò a sfruttare a proprio vantaggio la consuetudine sociale che permetteva di esibirsi in pubblico a patto di farlo gratuitamente e solo in occasioni particolari, così facendo il nobile romano riuscì a godere della fama, della gloria data dal teatro e dall’arena senza perdere, però, l’onore.

Mosaico con un pugile

Mosaico raggigurante un pugile, MANN, Napoli (Italia); fotografia di Annalaura Uccella, 2017

Il compenso economico rimaneva una prerogativa dei ceti più umili che potevano perdere la faccia e l’onore.

I «munera gladiatoria» venivano promossi dall’Imperatore o dal magistrato, i quali partecipavano a ogni fase organizzativa dei giochi, ma il vero responsabile era l’«editor» del «munus» il quale si occupava in concreto degli aspetti legali, finanziari, della scaletta del programma contattando direttamente i vari i lanisti e le varie compagnie teatrali, del materiale necessario per gli spettacoli, eccetera.

Tale incarico era prestigioso e anche se le spese erano per buona parte a carico dello Stato, non mancava il personale contributo del magistrato o dell’«editor» del «munus», ciò portava non solo a un coinvolgimento in prima persona ma anche a una fama popolare che, se veniva sfruttata, poteva portare a rapide ascese politiche, ed è proprio per evitare tale strapotere politico che agli organizzatori dei giochi fu proibito candidarsi a qualsiasi carica pubblica nei due anni successivi ai ludi da loro organizzati; al forte disprezzo riversato sul lanista, sull’impresario teatrale eccetera, si affiancava l’ascesa politica e civile dell’organizzatore dei ludi, privilegio concesso solo ai membri nobili e della cavalleria romana, questa contraddizione è solo una delle tante presenti nella società romana.

Ai ludi si collegavano i culti di diverse divinità anche se piano piano il lato sacrale di questi spettacoli, presente nella fase arcaica, lasciò il posto alla celebrazione politica e personale dell’organizzatore e poi dell’Imperatore.

Non mancarono ludi legati a ricorrenze religiose come i Ludi Votivi o Straordinari affiancati da quelli Ordinari o «Solemnes», cioè celebrati regolarmente e stabiliti da rituali religiosi ma sempre con una forte connotazione di politica auto celebrativa.

Indipendentemente dalla ricorrenza per cui venivano organizzati, essi dovevano essere pubblicizzati e per farlo si usavano i classici manifesti e volantini – i «libelli munerarii» – su cui erano scritti i nomi degli organizzatori, il programma d’esibizione dei gladiatori e i loro nomi, tutti i vari spettacoli e si specificava se erano presenti i «velari» – le coperture con veli dell’arena –, le vaporizzazioni profumate – le «sparsiones» – o se venivano lanciati dei buoni che permettevano l’acquisto di vestiti, schiavi, ingressi ai lupanari, eccetera.

Venivano affissi nei luoghi più frequentati della città e si differenziavano dagli altri per la scelta di usare lettere nere o rosse su calce bianca, alcuni esempi sono stati ritrovati sui muri di Pompei.

A partire dall’Età Medio-Repubblicana e fino alla fine dell’Impero, IV secolo dopo Cristo, tali spettacoli – i ludi gladiatori, «circenses», commedie e tragedie, spettacoli dei mimi e pantomimi – furono le manifestazioni di intrattenimento pubblico più amate da tutti i Romani, poi con il Cristianesimo e in seguito ai rapidi cambiamenti politici iniziò il loro lungo e inesorabile declino che portò alla fine della gladiatura, ma l’intrattenimento sociale ci sarà sempre e durante il Medioevo si assisterà alla diffusione delle giostre medievali, ma questa è un’altra storia.

Articolo in media partnership con polveredilapislazzuli.blogspot.it
(giugno 2019)

Tag: Annalaura Uccella, gladiatori, anfiteatro di Pozzuoli, ludi gladiatori, Amazon e Achilia, gladiatrici, la gladiatura.