La congiura contro Cesare
Un atto orrendo e moralmente inaccettabile, che si sarebbe ritorto contro coloro che lo compirono e contro la Repubblica che essi avrebbero voluto restaurare

Idi di marzo, anno 44 avanti Cristo.

Giulio Cesare, accompagnato dal figlio Bruto, si recò, quel giorno, in Senato per partecipare a una seduta. Non era stato dell’idea di uscire, ma venne convinto da un vecchio amico, Decio Bruto, al quale aveva concesso diversi favori: sarebbe stato scortese, gli disse Decio, non aggiornare la seduta di persona; Cesare non sapeva che quell’uomo lo stava tradendo.

Mentre il dittatore percorreva le vie di Roma, la folla gli si stringeva d’attorno e lo acclamava. Svetonio, Plutarco e Appiano raccontano vari particolari su quella giornata.

Cesare incontrò Spurinna, un indovino, che una volta gli aveva sussurrato di guardarsi dalle Idi di marzo.

«Le Idi di marzo sono già arrivate» gli fece notare Cesare con un sorriso.

«Ma non sono ancora passate» gli rispose Spurinna.

A un tratto gli si avvicinò un uomo che, porgendogli una pergamena, gli disse: «Leggila, e presto! Vi sono contenute notizie per te importantissime». Conteneva l’avvertimento che si stava tramando contro di lui una congiura mortale: tra la sessantina di congiurati, guidati da Bruto e da Cassio, c’erano Casca, Cinna, Trebonio, Metello Cimbro, Decio Bruto, Caio Ligario; tra loro pompeiani graziati, e anche personaggi intimi e largamente beneficati dallo stesso Cesare, quasi a rendere il crimine ancora più odioso.

Cesare però, stretto tra la folla, non ebbe tempo per svolgere il rotolo e leggerlo. Era, quella carta che gli veniva porta da uno sconosciuto, l’ultima possibilità di salvezza che il destino gli offriva.

Il dittatore giunse in Senato ed entrò nella Curia. Appena entrato, Metello, uno dei congiurati, gli si avvicinò con l’atto di consegnargli una supplica: era il gesto convenuto. Casca lo afferrò da dietro. «Ma questa è violenza!» esclamò Cesare, prima che il congiurato vibrasse il colpo. Ma gli tremavano le mani, e il pugnale ferì il dittatore al collo senza ucciderlo. Cesare gli afferrò il polso, lo disarmò, le ferì a sua volta al braccio, ringhiando: «Dannatissimo Casca, che cosa fai?» Tutti i congiurati gli piombarono allora addosso con i pugnali; tanta era la loro foga di colpirlo e la loro furia cieca, che nella ressa si ferirono l’un l’altro.

I Senatori presenti in Curia, presi dallo sgomento e dal terrore, fuggirono; solo due si slanciarono in avanti per soccorrere Cesare, ma non poterono far nulla contro uomini armati.

Attorniato dai suoi nemici, Cesare si difese come un leone, fino a quando non notò tra gli assalitori l’amatissimo Bruto: «Tu quoque, Brute, fili mi» («Tu pure, Bruto, figlio mio») ebbe appena il tempo di mormorare[1], prima di coprirsi il volto con la tunica e accasciarsi ai piedi della statua di Pompeo che lui stesso aveva fatto erigere in segno di omaggio verso l’avversario sconfitto. Era stato trafitto da 23 pugnalate.

Pochi giorni prima, durante una cena con amici (tra cui almeno alcuni congiurati), Cesare aveva chiesto a tutti quale credevano fosse la morte migliore; arrivato il suo turno, aveva risposto: «Una morte rapida». L’ultimo desiderio del più grande Romano di tutti i tempi era stato esaudito, anche se non come lui si sarebbe aspettato!

La morte di Cesare

Vincenzo Camuccini, La morte di Cesare, tra il 1804 e il 1805, Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea, Roma (Italia)

Questi, in breve, i fatti; ma dobbiamo chiederci perché quei nobili Senatori Romani uccisero Cesare. Il grande Generale Romano, rientrato in città dopo aver sottomesso metà dell’Europa, era riuscito ad accentrare in sé tutti i poteri di governo. Aveva ricevuto il titolo di «dittatore a vita» e si era dimostrato un geniale uomo di Stato, ordinando molti lavori pubblici e dando occupazione a tanta gente, dando libertà di coscienza e di culto religioso, proteggendo i Giudei, riducendo le tasse, riformando il calendario, dando il governo delle province a uomini di provata capacità che in ogni momento erano passibili di richiamo a suo arbitrio, concedendo la cittadinanza romana a tutti gli Italiani e preparandosi a estenderla a tutti i maschi adulti dell’Impero; aveva progettato imprese più grandiose delle precedenti, in ambito sia civile che militare, tra cui la guerra contro i Parti per vendicare Crasso e rendere la Parzia una nuova provincia romana. Aveva perdonato a tutti i suoi nemici, trattandoli anzi con generosità: aveva bruciato, senza leggerla, la corrispondenza che aveva trovato nelle tende di Scipione e di Pompeo, per non avere la tentazione di usarla contro i suoi ultimi avversari; aveva mandato la figlia e i nipoti del suo nemico, fatti prigionieri, a Sesto Pompeo che era ancora in armi contro di lui; aveva fatto rialzare le statue di Pompeo che erano state abbattute, affidato governatorati di province a Bruto e a Cassio e alte cariche ad altri uomini del loro partito; a Cicerone aveva concesso il perdono, offerto onori e accordato tutto quanto quegli gli aveva chiesto per sé e per gli amici pompeiani, tanto che l’oratore gli aveva promesso solennemente, a nome di tutto il Senato, «che avrebbero vegliato sulla sua incolumità e opposto i loro stessi corpi a qualunque attacco a lui diretto» (vedi Cicerone, Pro Marcello, 6-10). Ma aveva anche riempito Roma di statue che lo rappresentavano e dimesso dall’ufficio i tribuni che avevano rimosso dalla sua statua sul Campidoglio – accanto alle statue degli antichi Re di Roma – il diadema regale che vi avevano posto i suoi amici; il quinto mese dell’anno, «Iulius» («Luglio») era intitolato a lui; sulle monete, audacia questa senza precedenti, Cesare aveva fatto imprimere il suo volto. Di fatto egli era diventato un Sovrano assoluto; la sua ambizione era, forse, proprio quella di instaurare in Roma una Monarchia universale, che governasse nella «pax romana» quell’Impero che egli aveva contribuito a fondare. Cesare, unendo genio, capacità e mitezza, si era dimostrato – come lo definì Will Durant – «uno dei più abili, coraggiosi e illuminati uomini di tutti i tristi annali della politica» (Will Durant, Cesare e Cristo, Arnoldo Mondadori Editore, Verona 1957, pagina 252).

Cesare sapeva che ai Romani la parola «Re» era molto odiosa e non volle mai farsi chiamare con questo appellativo. Più volte aveva mostrato di rifiutare, con un gesto sdegnoso, la corona di Re che gli era stata offerta in pubblico.

Ma questo non mutava la sostanza dei fatti. I giovani patrizi lo avevano capito: le istituzioni democratiche che dovevano governare la Repubblica Romana venivano man mano private di ogni potere; tutto era nelle mani di Cesare. L’amministrazione era affidata a lui; i magistrati erano da lui nominati e a lui solo rispondevano. Il Senato non osava respingere le proposte che Cesare gli sottoponeva. La democrazia stava naufragando: per cercare di arrestare il corso degli eventi, quei giovani Senatori congiurarono contro Cesare e deliberarono di ucciderlo. Nessuno di loro aveva subito torti da Cesare, ma solo benefici; essi denunciavano la distruzione della libertà che pure aveva riempito di denaro le loro borse e di soddisfazioni le loro vite, e non volevano ammettere che la restaurazione dell’ordine dopo i lunghi decenni delle guerre civili imponesse una limitazione alla loro libertà. Probabilmente provavano invidia per Cesare, rancore perché non erano ciò che era lui; ma è più probabile che il movente primo del complotto sia stata un’esasperata e fanatica opposizione a ogni forma di governo assoluto e personale in conformità a principi profondamente radicati nella mentalità della classe romana più tradizionalista (Cicerone aveva scritto, nella Repubblica, II, 3, che la libertà consisteva «non nell’avere un padrone giusto, ma nel non averne alcuno»). Questo spiegherebbe anche la presenza di Bruto tra loro.

Bruto aveva fama di essere l’uomo più virtuoso di Roma. Si diceva che fosse figlio di Giulio Cesare perché Servilia lo aveva messo al mondo al tempo in cui era stata amante di Cesare: quest’ultimo lo credeva e amava Bruto con tutto se stesso – un amore mal riposto. Si vociferava che Bruto discendesse da quel Bruto che aveva cacciato i Re da Roma 464 anni prima; sua madre era sorellastra di Scipione e sua moglie Porzia era figlia di Catone e vedova di Bibulo, nemico di Cesare (Porzia riuscì a farsi mettere al corrente della congiura conficcandosi un pugnale nella coscia e mostrando così al marito che nessuna tortura fisica avrebbe potuto farla parlare contro la sua volontà). Bruto era sempre stato cupo e taciturno, come se covasse dentro di sé una rabbia segreta, e si comportava in modo superbo; era coltissimo in cose greche e devoto cultore di filosofia, a tal punto da comporre persino un trattato sulla virtù; prestava denaro a tassi da usuraio, andava con le armi a riscuotere gli interessi se qualcuno tardava a pagare, ma aveva governato la Gallia Cisalpina con integrità e competenza, e tornato a Roma era stato nominato da Cesare pretore urbano (anno 45 avanti Cristo). Cassio, uomo malaticcio, pallido e magro (che era stato ricolmato di onori da Cesare e aveva due fratelli militanti sotto le sue insegne), aveva faticato a convincerlo a unirsi al gruppo di congiurati: tra loro c’erano molti Senatori, alcuni cavalieri, alcuni Generali cesariani rimasti insoddisfatti dei bottini e delle cariche acquisiti, ma uno solo di rango consolare; Bruto era necessario soprattutto per dare lustro alla cospirazione. E Bruto si lasciò convincere perché si mormorava che presto Cesare sarebbe stato incoronato Re, facendo crollare ogni speranza di restaurare la Repubblica, e perché la filosofia stoica che seguiva, come del resto l’opinione comune dei Greci e dei Romani, approvava il tirannicidio (i congiurati, infatti, consideravano Cesare alla stregua di un tiranno); «i nostri antenati» aveva scritto Bruto a un amico «pensavano che noi non dovessimo sopportare un tiranno, neanche se era il nostro stesso padre» (la lettera, citata in Boissier, Cicéron et ses amis, Parigi 1932, pagina 334, è comunque ritenuta dubbia). Se anche Bruto fu animato da sincero desiderio di libertà, è difficile scusarlo dall’avere alzato la mano contro il padre, che oltretutto – dopo la sconfitta di Pompeo nella guerra civile – gli aveva fatto grazia della vita (e anche a Cassio, dietro la richiesta di Bruto): tanto è vero che Dante colloca Bruto e Cassio nell’Inferno più profondo, tra i traditori dei benefattori, maciullati dalle bocche laterali di Lucifero (nella bocca centrale vi è Giuda, il traditore di Cristo).

Cesare si fidava di Bruto e, se pure ebbe sentore che qualcosa si stava tramando contro di lui, nella sua presunzione non vi diede alcun peso. Aveva anche licenziato la sua guardia del corpo formata da 2.000 Ispanici. Così, quelle fatali Idi di marzo del 44 avanti Cristo, si compì il suo destino.

Ma la sua uccisione non risolse la situazione politica di Roma: non passarono che 14 anni, ed ecco che Ottaviano diveniva unico padrone dello Stato. Della Repubblica non sarebbe rimasto che il nome.

Le istituzioni democratiche erano ormai deboli e corrotte, in mano a uomini incapaci di governare un Impero: i tempi erano maturi per una Monarchia e l’attentato delle Idi di marzo (15 del mese) non avrebbe potuto mutare il corso della Storia.


Nota

1 Svetonio riferisce invece la frase «Kai su teknòn» («Anche tu, figlio»), detta in greco, la lingua usata in quel tempo dall’élite romana. In seguito, lo stesso Svetonio affermerà che in quel momento Cesare emise solo un gemito, senza riuscire a profferire parola.

(gennaio 2021)

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