La città di Spina
Una Venezia «ante litteram», sorta nelle vicinanze dell’odierna Comacchio

La città di Spina fu un importantissimo centro portuale e commerciale sito nella zona meridionale del delta del Po, presso il ramo denominato Spinete («Ostium Spineticum» di Plinio e da qui Spina) o Eridano, chiamato poi «Padus Vetus», alla confluenza di un corso d’acqua proveniente dagli Appennini, nelle vicinanze di dove si trova oggi Comacchio, sorta più tardi. Era un luogo ideale per il commercio, essendo in un crocevia fra l’entroterra padano, il dominio etrusco tirrenico e la sponda orientale dell’Adriatico. Secondo quanto affermato da Dionigi di Alicarnasso, studioso vissuto a Roma durante l’Impero di Augusto, fu fondata da un popolo greco, antenato di quello classico, cioè dal popolo dei Pelasgi. Questi erano finiti sulla costa occidentale dell’Adriatico, dove erano stati spinti dalle burrasche o per sfuggire agli attacchi degli Elleni. La tradizione vorrebbe che i fondatori di Spina fossero i discendenti degli Argonauti.

La nuova città non era gran che dal punto di vista architettonico. In effetti, gli abitanti, più che ad apprezzare il luogo per le sue inesistenti bellezze (ma in compenso sito ideale per contrarre la malaria dominante, favorita dalla presenza di un’infinità di raccolte di acqua a carattere acquitrinoso e stagnante), pensavano al sodo, cioè agli interessi commerciali che potevano derivare dall’incontro fra diverse etnie aventi prodotti ed esigenze diversi. Le abitazioni erano su palafitte, con palificate di fondazioni e pilastri e travi in legno, con pareti di tamponamento in paglia e fango; data la carenza di materiale lapideo, bisognava ricorrere a ciò che il luogo era in grado di fornire. Il pavimento era in terra battuta, con in un angolo il focolare, ed erano presenti canalette di scarico. Solamente più tardi, nel IV secolo avanti Cristo, la paglia e il fango che formavano i tetti furono sostituiti da tegole o coppi, mentre le strade erano pavimentate con ciottoli fluviali. Queste innovazioni probabilmente furono dovute alle consuetudini degli Etruschi, che le mettevano in atto nelle loro costruzioni.

Comunque, una volta avviata la città, i Pelasgi se ne tornarono a casa loro, lasciando qui, però, una guarnigione. Gli abitanti di Spina rimasero fedeli alle loro origini, restando collegati con il santuario apollineo di Delfi. Secondo altre fonti, Spina non sarebbe altro che uno degli insediamenti degli Etruschi nel Nord d’Italia. Per cui Spina, insieme con Felsina (menzionata da Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia, oggi Bologna) e Kàinua (l’abitato sorto presso il luogo in cui ora è Marzabotto, in provincia di Bologna, il cui nome potrebbe derivare dal greco e significare «Città nuova») testimoniava la presenza degli Etruschi nell’Italia Settentrionale.

La città di Spina, nata non molto dopo la fondazione di Felsina, fiorì a partire attorno al 530-540 avanti Cristo, diventando un importante scalo, a carattere lagunare, non essendo direttamente sulla costa, centro di collegamento tra Felsina e la Grecia antica, cioè l’Ellade, e di scambio di merci. Fu il periodo di massimo splendore e prosperità per i due centri etruschi. Non si coniava moneta, per cui si procedeva solamente con il baratto. Gli scambi riguardavano vino, olio, cereali, unguenti, vasi, anfore, ambra, marmi, rocce vulcaniche per fare macine, pietre per fare segnacoli, magnifiche ceramiche attiche, di cui sono stati trovati stupendi esemplari ateniesi, e tanto altro ancora; pare che i prosciutti emiliano-romagnoli già da allora fossero molto apprezzati, acquisendo quella fama di cui godono tuttora, tanto da diventare poi famosi in tutto il mondo.

Kylix attica a figure rosse da Spina

Kylix attica a figure rosse da Spina, Zeus rapisce Ganimede, attribuita al Pittore di Pentesilea, circa 470 avanti Cristo, Museo archeologico nazionale di Ferrara

(Italia)

La Penisola, purtroppo, è sempre stata territorio di scorrerie e conquiste. Nel IV secolo avanti Cristo, il Nord subì l’invasione di un popolo celtico, che distrusse tutto quanto gli Etruschi avevano costruito, Felsina compresa, con l’unica eccezione di Spina che, purtroppo, procedeva tristemente verso la decadenza, e si trovava in estrema difficoltà. Praticamente, aveva perduto la sua importanza commerciale, non solo perché era venuto a mancare il retroterra, ma anche la vicinanza al mare. Il villaggio spinetico era stato fondato a pochi chilometri dal mare, ma l’apporto solido dovuto al Po e ad altri corsi d’acqua che scorrevano più a Sud, lo allontanavano continuamente dalla costa; infatti, la distanza nel IV secolo avanti Cristo era sui 3 chilometri, mentre ai tempi di Augusto i chilometri erano già 16, facendo perdere a Spina l’appellativo di città a stretto contatto con il mare. In quei tempi, era diventata un semplice villaggio, di scarsa importanza.

A tutti i suoi guai molto probabilmente ha contribuito lo spostamento del Simete che, invece di continuare a scorrere verso Est, aveva iniziato a fluire verso Sud, in direzione della foce del Po di Primaro, e forse già allora era sulla via dell’interramento. Fra l’altro la città era stata messa in ginocchio dall’Impero Romano con balzelli e quant’altro. In questo disastroso scenario sopravvisse faticosamente fino al II secolo avanti Cristo, quando, stancatisi di avere sempre noie con i vicini e con coloro che spadroneggiavano, gli abitanti decisero di togliere il disturbo, piano piano abbandonando la città a se stessa, spostandosi verso Sud, nel Ravennate, seguendo i traffici che ivi stavano fiorendo. Infatti, l’Imperatore Ottaviano Augusto aveva scelto il porto di Classe, sul mare presso Ravenna, per stabilirvi la sede della «Classis Ravennatis», la sua seconda flotta militare, cioè quella del Mediterraneo Orientale; inoltre si stavano costruendo strade consolari, quali la Via Popilia, parzialmente coincidente con l’attuale Via Romea, e aprendo canali per la navigazione interna.

Spina, pertanto, senza più nessuno che la tenesse curata, e soggetta a tutti cambiamenti che continuamente colpivano il litorale marino, finì per essere definitivamente sommersa dal fango e fece perdere le sue tracce.

La città di Spina era veramente scomparsa; si aveva un’idea vaga di dove fosse stata, sicuramente fra le aree palustri e le dune che costellavano il delta del Po, ma dove esattamente? Le ricerche del sito in cui scavare ricordano le difficoltà incontrate da Heinrich Schliemann fino a quando, nel 1831, riuscì finalmente a individuare la località dove si trovavano le rovine di Troia. Anche in questo caso si trattò di un vero e proprio enigma, che si tentò di risolvere fin dal Medioevo: si sapeva che Spina era stata ricordata da studiosi greci e romani come un grande mercato marittimo, però nessun documento o ricordo tramandato di padre in figlio attraverso il tempo era disponibile. Era un po’ come Atlantide, però con la differenza sostanziale che qui si era veramente certi che Spina era esistita.

Nel 1922, erano state avviate le opere pubbliche che erano state progettate per bonificare le Valli di Comacchio e, durante gli scavi, cominciarono a venire alla luce bronzi e ceramiche di pregio: ci si rese immediatamente conto che si trattava di un sepolcreto etrusco. Questi ritrovamenti fecero intendere l’importanza dell’avvenimento, costringendo i tecnici a procedere a tutta una serie di varianti al progetto originale, per poter ottenere il duplice risultato di prosciugare e risanare il luogo e di portare a termine una ricerca archeologica che si dimostrò di valenza mondiale. Pertanto, sotto il controllo della Soprintendenza alle Antichità dell’Emilia Romagna, istituita nel 1924, si partì con modalità di intervento ben precise, procedendo in maniera sistematica, per raccogliere tutto il possibile e dando le giuste indicazioni temporali, che hanno consentito di ricostruire con la massima approssimazione possibile ciò che era stata la città etrusca, la sua vita, il suo splendore e, purtroppo, la sua ingloriosa fine, che l’ha portata a scomparire e a rimanere abbandonata a se stessa (ma mai dimenticata) in una massa di fango. Gli scavi e la bonifica continuarono fino al 1935.

Ma perché fu così complicato trovare la posizione di Spina nel delta del Po? Le difficoltà sono da attribuire al comportamento del territorio deltizio, mai stabile, soggetto alle continue variazioni dovute alle alluvioni fluviali, allo spostamento della linea di costa verso Est a causa dell’ampliamento del territorio per la sedimentazione degli apporti lapidei portati in sospensione dalle acque e il relativo costipamento, alla formazione di bacini paludosi. Praticamente, un territorio completamente diverso da quello in cui Spina era stata fondata. Per queste ragioni, gli studiosi che, nel corso dei secoli fino ai primi decenni del Novecento, si interessarono seriamente per scoprire l’esatta ubicazione della città etrusca (fra i quali si possono ricordare il già menzionato Dionigi di Alicarnasso, Plinio il Vecchio e Boccaccio, tanto per citarne alcuni), non riuscirono nel loro intento. Si rimase solamente nel campo delle ipotesi. Può essere che il sito si trovi alla foce del Po di Primaro? Può darsi. O al confine con le Valli più a Sud, nella zona di San Biagio d’Argenta? Forse. E se fosse proprio dove attualmente si trova la città di Comacchio? Perché no? Insomma, si trattò di un tira e molla che non portò da nessuna parte. Fra tutte le ipotesi fatte, basate su vari ragionamenti, tuttavia, ce ne fu una che centrò il problema: fu espressa da un medico di Bologna, Gian Francesco Bonaveri che, in base al casuale ritrovamento di oggetti antichi che ogni tanto affioravano, ritenne probabile che il sito fosse in una valle sita a Occidente di Comacchio, nella Valle Trebba, per la precisione. Purtroppo, però, egli non ebbe la possibilità di vedere che i suoi ragionamenti e le sue intuizioni l’avevano portato alla soluzione corretta del problema: infatti si era alla fine del Settecento, mentre tutto rimase nell’incertezza fino al 1922.

Il complesso delle campagne di scavo portò alla scoperta dell’area della necropoli che, con gli sterri successivi, si dimostrò essere quella settentrionale, con la presenza di più di 1.200 tombe.

Gli scavi furono ripresi nel 1953 nella Valle Pega, sempre per bonificare la zona, e alla Soprintendenza si aggregò il direttore del Museo Archeologico di Ferrara, Nereo Alfieri, archeologo di chiara fama (mio mentore quando, tanti anni fa, seguii il corso per guida turistica della città). Nei tre anni che seguirono, le tombe scoperte furono 3.000; sempre della necropoli si trattava. Poi, con lo spostamento dei lavori nella Valle del Mezzano, nel territorio oggi di Ostellato, nel 1956 si ebbe finalmente l’individuazione dell’area in cui era l’abitato. Fu grazie alla felice intuizione del citato Alfieri, che decise di utilizzare la fotografia aerea. I lavori continuarono fino al 1964, mentre altre tombe furono rinvenute. Successivamente, furono ripresi diverse volte a fasi alterne e completati.

Così, quasi tutto quanto si riesce a comprendere di Spina si deduce dall’abbondanza delle tombe ritrovate – più di 4.000 –, per la maggior parte riguardanti inumazioni singole (monosome), mentre le altre sono il resto di cremazioni, con arredi funerari ricchi e sfarzosi, testimoni di prosperità e ricchezza, il che significa che, per un certo periodo, la città ebbe dalla sua una fiorente fortuna. I corredi funerari sono principalmente composti da utensili da cucina, stoviglie, oggetti d’arredo (sgabelli, candelabri, eccetera), oggetti riguardanti la cura personale, quali contenitori di unguenti, essenze, gioielli. Interessante il ritrovamento di vasellame per il vino, con dimensioni tali da far dubitare che potesse essere realmente usato, per cui sicuramente era solo per uso funerario.

La scoperta della necropoli di Spina, seguita da quella dall’abitato, è stata veramente di importanza globale, anche perché il giallo non sembrava offrire possibili soluzioni.

I reperti di Spina sono conservati a Ferrara nel Museo Archeologico Nazionale e a Comacchio nel Museo del Delta Antico.

(luglio 2020)

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