Boudicca, l’ultima amazzone
Nella Britannia romana, una donna osò sfidare l’Impero

Nell’anno 61 dopo Cristo nel Norfolk, nella parte della Britannia non ancora raggiunta dalle legioni di Roma, il Re degli Iceni Prasutago, celebre per la sua lunga prosperità e per le sue ingenti ricchezze, veniva deposto in una fossa; era stato amico e alleato dei Romani e lasciava per testamento, alla sua morte, un Regno fiorente per metà all’Imperatore di Roma, in quel momento Cesare Nerone, e per l’altra metà alla moglie Boudicca e alle due figlie che lei gli aveva dato.

Dione Cassio ci ha lasciato un accurato ritratto di questa donna: di statura assai elevata e di aspetto truce, aveva un volto belluino incorniciato da una cascata di capelli foltissimi e di color giallo intenso che le scendevano fino alle natiche. Il suo sguardo era «fulmineo», la voce era aspra. Cingeva al collo una grande collana d’oro e vestiva sempre nel medesimo modo, in ogni occasione: una stola screziata di vari colori e stretta al seno da una cintura, sopra la quale era gettata una densa ed ampia clamide (a guisa di paludamento e di pallio) allacciata sugli omeri e annodata con una fibula. Una vera amazzone!

Fino a quel momento, gli Iceni non avevano dato grossi problemi a Roma, se si eccettuano le «solite» rivolte locali: poco influenzati dalla raffinata civiltà dei vicini Belgi e temendo il loro crescente potere, si erano sottomessi a Roma non appena avevano potuto farlo con sicurezza. Ciò era valso loro una relativa pace e una nominale libertà: quello che non sapevano era che i Regni retti da Re indigeni erano dai Romani considerati temporanei e dovevano essere trasformati, alla morte dei Sovrani del momento, in province imperiali; in più, il diritto romano non contemplava la possibilità di lasciare un popolo in eredità a una donna.

Da Camulodunum, duri ed esperti veterani si spinsero nel Norfolk, depredando il regno in lungo e in largo, quasi fosse preda di guerra. I nobili iceni e i parenti del Re vennero spogliati dei loro aviti possedimenti, cacciati dalle case ed espropriati dei campi, quando non addirittura messi in catene e tenuti in condizione di servi.

A Boudicca non toccò miglior sorte: la sua casa fu devastata dai servi del procuratore imperiale e lei stessa venne fustigata pubblicamente; le figlie furono rapite e violentate.

I coloni di Camulodunum si ritirarono carichi di bottino, fidando nell’impunità dato che il propretore Svetonio era lontano (guerreggiava sull’isola di Mona, per schiacciare i druidi che sobillavano i Britanni alla rivolta). Ma gli Iceni temevano che, agli oltraggi subiti, se ne aggiungessero altri, ben peggiori. Boudicca soffiò sulle braci, riattizzando il fuoco; salita su un tribunale fatto di zolle palustri, invitò il suo popolo alla rivolta: «Avete certo inteso quanto sia preferibile una libera povertà alle ricchezze che si posseggono nella servitù. [...] Non sarebbe forse meglio il venderci schiavi a qualcuno una sola volta, piuttosto che esser costretti ogni anno a redimerci sotto il vano nome di libertà? Quanto non sarebbe meglio l’essere uccisi e il perire, che il portare a spasso le nostre teste tributarie? [...] Siamo sprezzati e conculcati da coloro che non sanno far altro, se non aspirare avidamente al proprio guadagno. [...] Non dovete aver paura dei Romani: non sono più numerosi di noi, né più forti. Guardateli bene: si coprono di elmi, di corazze, di gambiere, si riparano dietro valli, mura, fosse, per non esser minimamente feriti da ostili incursioni. I Romani amano far uso di tutti questi presidi per paura, anziché intraprendere azioni contro il nemico speditamente, alla nostra maniera. D’altronde noi abbondiamo di tanta forza, che le nostre tende sono più sicure delle loro mura, i nostri scudi migliori di qualunque loro armatura. [...] Non ci sono pari nel sopportare la fame, la sete, il freddo, il caldo; sempre abbisognano di ombra, di coperture, di frumento macinato, di vino, di olio in tal misura che, se una sola di queste cose viene a mancare, subito periscono. Per noi, invece, qualunque erba o radice è cibo; qualunque succo è olio; qualunque acqua è vino; qualunque albero è casa».

Questo il discorso che Boudicca fece dinanzi al suo popolo, secondo Dione Cassio, e noi non giureremmo sulla sua autenticità: Dione Cassio si dilettava d’imitare lo stile di Tucidide e degli storici greci e di frequente inventava di sana pianta intere orazioni.

Le reali cause della rivolta si possono riassumere nella violazione del sacro terreno di Mona e nello sterminio dei druidi, nelle recenti violenze dei veterani di Camulodunum, nelle estorsioni degli agenti romani e del procuratore Cato Deciano che governava in assenza del propretore Svetonio, negli arruolamenti forzati nell’esercito. Sul piano economico, Roma tentò d’imporre un pesantissimo tributo come ai tempi di Cesare, tributo che Claudio aveva condonato ai primi Britanni sottomessi perché accettassero di buon grado il suo trionfo. Inoltre il filosofo Seneca aveva prestato ai Britanni, con tasso d’interesse da usuraio, quattro milioni di sesterzi, denaro che ora esigeva tutto insieme e con gravissimi atti di violenza a scopo intimidatorio.

120.000 Iceni afferrarono le armi: un mare di metallo vibrante si mise in marcia sulla strada ben lastricata tesa come una freccia tra Venta Icenorum (l’odierna Caistor), capitale del Norfolk, e Londinium passando per Camulodunum, la più antica città dell’isola ora sede del governo della nuova provincia di Britannia. Ad essi si aggiunsero i Trinovanti, spodestati anch’essi dalle loro case: Camulodunum era stata infatti la capitale del loro regno. Altre genti, non ancora piegate alla schiavitù, ingrossarono le schiere di un già poderoso esercito. Tutti costoro avevano giurato, in intese segrete, di riconquistare la libertà ad ogni costo: o vincere o morire! Rinfocolava il loro odio l’innalzamento del grande tempio al divo Claudio, che incombeva come la cittadella di una dominazione perenne, nel quale i sacerdoti preposti al culto dovevano profondervi tutte le loro sostanze – che trapassavano così dai villaggi indigeni alle città romane. D’altronde non sembrava affatto difficile abbattere una colonia che non aveva mura, né fossato, né torri, né una qualsiasi barriera difensiva: l’arroganza dei Romani li aveva spinti a ricercare più il bello che il sicuro, convinti che i loro sudditi non avrebbero avuto l’ardire di alzare un solo dito.

Della tempesta che si stava addensando più a Nord, a Camulodunum ebbero, se non chiara percezione, almeno alcune avvisaglie, fatti inspiegabili che si susseguirono a ruota libera: la statua della Vittoria crollò, rovesciandosi all’indietro quasi arretrasse di fronte alla turba nemica, senza che alcuno l’avesse spinta o almeno sfiorata; donne invasate da furore profetico annunziarono con alte grida l’imminente rovina; urla straniere, un mormorio barbarico misto a risa atroci s’era udito, nottetempo, nella curia locale, senza che vi fosse colà alcuno che parlasse o gemesse; il teatro vuoto aveva echeggiato di tumulto e ululati, come se vi si fossero date convegno centinaia di fiere; nel Tamigi s’erano veduti resti di case, ed era apparsa l’immagine della colonia distrutta. Infine, l’oceano tra la Gallia e la Britannia sorse sanguinolento e, al ritrarsi della marea, furono visti corpi umani orrendamente mutilati.

La gente s’impaurì e, in assenza di Svetonio, chiese aiuto al suo sostituto, il procuratore Cato Deciano. Questi, sia che non ritenesse prudente sguarnire troppo la sua roccaforte sia, più probabilmente, che non credesse di trovarsi a fronteggiare che qualche banda sparuta di banditi e razziatori, non mandò che 200 uomini armati alla leggera di rinforzo a una minuscola guarnigione cittadina. Avvertendo però Petilio Ceriale, legato della IX legione Hispana, di mettersi in marcia alla volta della colonia con tutte le sue truppe, per prudenza.

A Camulodunum, dopo l’iniziale apprensione, tornò la calma: non erano forse sotto la protezione del tempio? Non erano essi stessi tutti soldati, veterani di mille battaglie? Che cos’avevano mai da temere? Non vi era bisogno di allontanare vecchi, donne e bambini, lasciando la difesa ai soli giovani; né di scavare fosse o costruire trinceramenti. Su queste assurde decisioni (o non-decisioni che dir si voglia), su quest’indolenza suicida influivano negativamente tutti coloro ch’erano segretamente complici della rivolta e che tentavano in ogni modo di far apparire insignificante il pericolo. E poiché è tipico dell’animo umano credere più facilmente a ciò che ci fa comodo piuttosto che alla verità, non venne approntato nessun sistema difensivo.

I Britanni attaccarono quando meno i Romani se l’aspettavano: in poche ore le strade della città si riempirono di cadaveri, uomini e donne agonizzanti in pozze di sangue. I barbari non fecero prigionieri, le loro spade s’alzarono e abbassarono a troncare arti, squarciare petti, spiccare teste. Il tempio, nel quale s’erano asserragliati i soldati, fu facilmente espugnato dopo due giorni di assedio e tutti i difensori passati a fil di spada: dell’intera popolazione della città, non si salvò neppure un bambino. Poi, non ancora ebbri di massacri, i Britanni si posero in cammino in direzione di Londinium.

Per quella stessa strada stavano marciando, in colonne ordinate, i soldati della IX legione sotto il comando di Petilio Ceriale; erano una discreta forza, 5.000 legionari addestrati alla guerra fin dalla fanciullezza. Accadde tutto d’un tratto: il terreno rimbombò e tremò, e l’intera orda dei Britanni irruppe dalle forre e dalle selve e si gettò sui Romani. Boudicca stessa combatteva dinanzi a tutti i suoi uomini, nuda sul suo carro, il selvaggio criname al vento come una scia di fuoco e il corpo cosparso di tintura blu-violacea: era l’immagine stessa di una Furia vendicatrice!

Petilio Ceriale, valutata la situazione, si diede alla fuga; la cavalleria lo seguì a rotta di collo. Gli uomini appiedati rimasero invece sul posto, circondati e assaliti da tutte le parti: finché sul campo calò un silenzio innaturale, il profondo silenzio dei sepolcreti per sempre abbandonati.

Cato Deciano aspettava nel suo palazzo di Londinium l’annuncio della vittoria romana: ricevette, invece, quello dello sterminio di un’intera legione e della vergognosa fuga di Ceriale. Atterrito dalla disfatta e dall’odio che ormai l’intera provincia covava verso di lui, si affrettò ad imbarcarsi per riparare in Gallia. Poche ore dopo, il propretore Svetonio riceveva un dispaccio col quale il procuratore gli comunicava che la… situazione… gli era sfuggita di mano.

Svetonio, sgusciato tra le maglie non ancora strette della rete di Boudicca, fece il suo ingresso a Londinium, città non ancora insignita del titolo di colonia ma già traboccante di grandi traffici di mercanti e di merci. Il propretore dovette presto disilludere chi pensava che avesse potuto ricacciare i barbari nel folto delle loro selve: ispezioni sul campo gli mostrarono che Londinium era tutt’altro che difendibile, soprattutto data l’esiguità delle sue forze e il modo clamoroso col quale era stata punita la temerarietà di Ceriale. Impossibile sceglierla come base delle operazioni militari: e si risolse a sacrificarla, pur di salvare l’intera provincia.

Si mostrò irremovibile di fronte alle scene di disperato pianto di quanti imploravano la sua protezione e, tra la costernazione generale, diede ai suoi legionari il segnale della partenza, della ritirata (strategica): accolse però tra le file quanti vollero seguirlo, tutti coloro che si misero sotto la sua ala. Altri, molti altri, rimasero: quelli che non si sentivano adatti alla guerra, i vecchi e i malati, i bambini, chi era troppo debole per stare al passo, le donne, quelli ch’erano troppo attaccati al luogo per pensare di lasciarlo. C’erano tra loro anche Britanni di sangue puro che s’erano arricchiti e speravano, col richiamo all’appartenenza alla medesima gente, di salvare i propri beni e la loro stessa vita dalla furia di Boudicca…

La Regina arrivò come un turbine, alla testa del suo immenso esercito. E non fece alcuna distinzione tra Romani e Britanni: per lei eran tutti uguali, tutti ugualmente colpevoli.

L’intera popolazione venne sterminata: quasi fossero sicuri di dover, un giorno, pagare tutto, i barbari si abbandonarono ad un’orgia di massacri e impiccagioni, ad una frenesia di roghi e crocifissioni. Soprattutto le donne diventarono il bersaglio della loro libidine e della loro rabbia: fanciulle nobilissime ed onestissime subirono le torture più atroci, denudate e sospese a mezz’aria con le mammelle recise e cucite alle bocche, quasi fossero in atto di mangiarle; e poi trafitte, per tutta la lunghezza del corpo, da pali acutissimi. In mezzo a questa bolgia si celebravano riti sacri, si salmodiavano preghiere e invocazioni, si rendeva grazie nei templi degli dèi e specialmente in quello di Adraste, nome con cui i Britanni chiamavano la Vittoria e a cui rendevano i più solenni onori e le più assidue venerazioni.

I Britanni sapevano che non avrebbero mai potuto occupare le piazzeforti e i presidi armati: mancavano di armi adatte e di macchine d’assedio quali catapulte, arieti, torri mobili. Si gettarono invece sui magazzini e sui depositi militari, dove ricco era il bottino e malagevole la difesa.

Con una mossa a sorpresa, Boudicca si portò dinanzi al municipio di Verulamium, una delle prime città romane costruite in Britannia. Al suo apparire la città si arrese, sperando nell’impunità. Ed ebbe la medesima sorte, lo stesso strascico di assassinii ed uccisioni che avevano caratterizzato la presa di Londinium: in pochi giorni, il sangue di 70.000 persone, tra Romani e Britanni alleati o simpatizzanti per Roma, fu versato ad imbrattare il suolo inglese.

Svetonio si trovava in una situazione veramente «poco invidiabile»: metà Britannia era nelle mani di Boudicca, che spadroneggiava in lungo e in largo razziando ogni cosa; l’altra metà era virtualmente sua, ma non sapeva fino a che punto poteva fidarsi dei Britanni. Tentò di differire la battaglia, valutando il numero sterminato e la sterminata disperazione dei barbari contrapposti all’esiguità delle sue truppe. Alla fine, travagliato dalla mancanza di frumento, accerchiato e stimolato dai Britanni, impossibilitato a decidere altrimenti, fu forzato, contro il suo volere, ad accettar la pugna. Scelse almeno un luogo adatto alle scarse truppe che possedeva, una gola dall’accesso angusto, chiusa alle spalle da una selva, fronteggiata da una piana dove i nemici non avrebbero potuto tendergli agguati. Gli esploratori segnalarono che i Britanni erano proprio di fronte a lui, stavano rapidamente convergendo sul luogo.

Mappa Boudicca

Mappa degli spostamenti dei Britanni (in rosso) e dei Romani (in blu)

Svetonio cominciò a schierare le sue truppe in file serrate, secondo lo schema romano classico: i legionari pesantemente armati al centro, dove più cruento sarebbe stato lo scontro, la fanteria leggera tutt’intorno, a smorzare l’impatto, i cavalieri concentrati alle ali, pronti a spronare nel caso i nostri cedessero o ad inseguire il nemico in fuga. Il generale disponeva della XIV legione Gemina, integrata da un distaccamento di veterani richiamati dalla XX Valeria Victrix e dalle forze ausiliarie delle più vicine guarnigioni, 10.000 uomini in tutto.

I Britanni accorsero in una moltitudine baldanzosa, in un miscuglio di orde appiedate e bande di cavalieri, formando una massa mai vista prima, sicuri della vittoria e spavaldi al punto di portare seco le spose come testimoni della loro gloria e del loro valore. Collocate sui carri, si disposero, spettatrici, lungo tutto il margine esterno della pianura. Boudicca stessa apparve sul suo cocchio, indomita ed altera. Quanti fossero esattamente i Britanni, nessuno lo può sapere con esattezza; Dione Cassio parla di 230.000 uomini, ma può darsi che sia un’esagerazione: certo è che i barbari erano almeno dieci volte superiori ai Romani.

Passando in rassegna i suoi, la Regina cominciò a schierare le varie tribù, stringendo le figlie contro il suo petto, lì sul carro. Non era insolito, ricordava Boudicca, che i Britanni combattessero sotto la guida di una donna; ma ora lei, discendente da nobili antenati, non intendeva rifarsi della perdita del regno e delle ricchezze, bensì, come una donna qualunque, vendicare la perdita della libertà, riscattare il proprio corpo fustigato e l’onore violato delle due figlie. Le voglie dei Romani si erano ormai spinte così avanti da non lasciare inviolati i corpi, senza riguardo per la vecchiaia o la verginità: un obbrobrio agli occhi degli stessi dèi! Ma c’erano adesso i numi della giusta vendetta: caduta era la legione che aveva osato dare battaglia; gli altri stavano nascosti negli accampamenti e spiavano il modo di fuggire. E questi Romani, che non sopportavano nemmeno il fragore e le grida di tante migliaia di uomini, come potevano reggerne l’assalto e la mischia? Se valutavano il numero dei guerrieri in campo e le ragioni della guerra, non c’erano dubbi: dovevano, in quella battaglia, o vincere o morire. Questa era la scelta compiuta da una donna: tenessero pure alla loro vita, gli altri, e vivessero come schiavi!

Svetonio calcolò con freddezza la situazione: non voleva arrischiarsi a stendere contro i nemici la sua falange, anche perché – pur disponendo i legionari ad uno ad uno in un’unica schiera – non poteva uguagliare in lunghezza il fronte nemico, tanto i suoi erano inferiori di numero; nemmeno era pensabile combattere coi suoi soldati stretti in un unico drappello, per non correre il rischio che fosse circondato e fatto a pezzi. Si risolse quindi a dividere le sue truppe in tre corpi, affinché potessero battersi simultaneamente in più luoghi; e addensò le une alle altre le singole schiere, perché non fossero spezzate facilmente. Mentre istruiva i legionari e li collocava nei posti loro assegnati, passando di corpo in corpo, di schiera in schiera, esortava: «Coraggio, miei commilitoni; coraggio, Romani; mostrate a queste pesti quanto noi, anche nell’avversa fortuna, siamo ad essi superiori. Sarebbe vergognoso perdere ora, ignominiosamente, ciò che pochi anni fa avevate acquistato col vostro valore. Più volte voi stessi, mentre eravate in minor numero di quanti non siate ora, avete vinto nemici assai più numerosi, come pure fecero i vostri padri. [...] Questo è il momento, miei commilitoni, in cui sono da mostrare la vostra risoluzione, la vostra audacia; se vi ergerete forti in questo giorno, potrete recuperare anche le cose perdute; date questa sola battaglia, e il nostro dominio sarà saldamente stabilito, soggiogherete tutta la provincia ribelle. [...] Sarà molto meglio per noi morire combattendo coraggiosamente, piuttosto che, catturati, essere inchiodati su una croce, o vedere le nostre viscere strappate e lacerate, o essere trapassati con pali infuocati e con acqua bollente essere arsi fino alla morte [...]. Per tutto ciò, o noi prevarremo, o – se incontreremo qui la morte – avremo la Britannia intera come chiarissimo monumento: se pure gli altri Romani la perdessero tutta, noi la conserveremo perpetuamente con le nostre spoglie».

Il propretore, fiducioso nel valore dei suoi, alternava incitamenti e preghiere a non lasciarsi suggestionare dal baccano dei barbari e da minacce senza efficacia: si scorgevano infatti, fra le loro fila, più donne che guerrieri. Non abituati a una vera guerra e male armati, avrebbero certamente ceduto non appena avessero riconosciuto, loro che già tante sconfitte avevano subito, il ferro e il valore dei vincitori. Anche fra molte legioni, sono sempre pochi quelli che segnano l’esito di una battaglia: sarebbe tornato a loro gloria l’aver conquistato, in così pochi, la fama di un intero esercito. Non dovevano far altro che rimanere compatti, lanciare i giavellotti e procedere, con scudo e spada, ad abbattere e massacrare il nemico, senza pensare alla preda: a vittoria ottenuta, tutto sarebbe finito nelle loro mani.

Un grande entusiasmo seguì le parole del comandante: i vecchi soldati, veterani di tante battaglie, incoccarono i dardi e imbracciarono gli scudi, con tale foga e sicurezza che Svetonio, nel dare il segnale d’attacco, fu certo del successo. Svetonio mosse ad un sol tempo tutte le insegne: i legionari si slanciarono in avanti con tutto il loro vigore, veterani ed ausiliari uscirono dal riparo della gola buttandosi in avanti in forma di cuneo. Il clangore delle spade che si scontravano e sprizzavano scintille graffiò i timpani, le lame stridettero, premettero sugli scudi, cercarono un varco nelle armature. Rapido e guizzante, il corto gladio latino colpì di punta e di taglio, s’infilò sotto la guardia del Britanno a spargergli i visceri sul terreno. I nemici arretrarono, ma erano troppo numerosi e premuti da quelli che sopraggiungevano di corsa. Circondati, i Romani si trovarono a dover combattere contemporaneamente da tutte le parti, fanti, cavalieri ed arcieri frammisti in un unico calderone ribollente di furia.

La cavalleria romana caricò a lancia in resta, travolgendo chiunque opponesse resistenza. Per varie ore, sotto un sole indifferente, la danza delle spade cantò il suo inno di morte: da entrambe le parti si combatté con pari vigore ed audacia. Finché i Britanni, stremati e privi d’ogni speranza, si diedero ad una fuga tanto precipitosa quanto difficoltosa, perché avevano disposto i carri all’intorno, sbarrando ogni via d’uscita, certi che a loro non sarebbe servita. I Romani li raggiunsero, li trafissero insieme alle loro donne, rovesciarono sui loro corpi i cavalli scalcianti nell’agonia. I morti si ammucchiarono sul campo di battaglia, presso i carri, al limitare della selva: molti gettarono le armi, si arresero, furono messi in ceppi. La gloria di quel giorno, dice Tacito, fu splendida, all’altezza delle vittorie di un tempo: quasi 80.000 Britanni rimasero uccisi, mentre i Romani ebbero circa 400 morti e un numero pressoché uguale di feriti.

Boudicca non era più in grado di guidare ciò che restava del suo popolo: il dolore per la sconfitta era in lei più atroce di una ferita mortale. Non aveva più la forza di lottare. Prese una manciata di bacche selvatiche, la diede alle figlie; altre bacche le inghiottì lei. Il veleno agì presto.

Così morì Boudicca, dinanzi ai suoi guerrieri. Tutti la compiansero, le tributarono solenni onoranze funebri e, dicono le leggende, le diedero una magnifica sepoltura. Una tradizione vuole la tomba di Boudicca in piena Londra, alla stazione di King’s Cross, nel luogo esatto dove cadde: precisamente, sotto il binario numero nove!

Con Boudicca, si spegneva la più vivida scintilla dell’irredentismo britanno: alla civiltà celta si stava sostituendo pian piano la civiltà romana, che avrebbe portato nell’isola un’epoca di pace e prosperità che non avrà paragoni fino all’inizio della Rivoluzione Industriale!

(giugno 2006)

Tag: Simone Valtorta, Boudicca, Iceni, Dione Cassio, Britannia, Svetonio, Tacito, Impero Romano.