Tito senza maschera
Caratteri massimalisti del comunismo jugoslavo

A 35 anni dalla scomparsa del dittatore jugoslavo, avvenuta nel maggio 1980, le interpretazioni politiche e storiografiche sull’esperienza ideologica di Tito e del suo regime tornano di attualità, anche alla luce dei tentativi croati e sloveni di perpetuarne il culto, soprattutto ad opera dei vecchi partigiani e dei loro epigoni[1].

In particolare, è stata riproposta la teoria secondo cui la frattura con l’Unione Sovietica ed il sistema del Cominform, consumatasi nel 1948 con l’avvento della «via jugoslava» al socialismo, l’alleanza dei cosiddetti Paesi «non allineati» guidati da Belgrado ed il velleitario sogno dell’autogestione, avrebbe indotto una dissociazione epocale dalle pregiudiziali veterocomuniste di Stalin e dei suoi corifei, permettendo di realizzare sia pure «in extremis» la vecchia utopia marxiana: tesi suggestiva ma infondata, perché la morte di Tito fu l’inizio della fine, al pari di quanto accadde, del resto, negli altri Paesi dell’Europa Orientale, concludendo la «lunga marcia verso il nulla» che secondo la pertinente definizione di Jean Revel aveva attraversato due secoli di storia[2].

Tito, in effetti, fu assai abile nel valorizzare in chiave strumentale un dissenso basato in buona misura su ambizioni personali, e non certo sulle improbabili pretese di difendere i «sacri principi» del marxismo-leninismo compromessi da Mosca. Ne seguirono numerosi viaggi a Belgrado dei massimi leader occidentali (compresi quelli italiani) con tanto di forti iniezioni finanziarie (il solo Governo Goria elargì 500 miliardi di lire), che peraltro non sarebbero servite a salvare il sistema finanziario jugoslavo e, più tardi, la stessa compagine statuale della Repubblica Federativa.

Oggi, l’estensione della ricerca in un’ottica meno vincolata a schemi precostituiti ha permesso di evidenziare come l’allontanamento di Tito dall’Unione Sovietica e dai suoi alleati, sia pure attraverso una serie di corsi e ricorsi che ne attestano il carattere permanentemente elastico, fosse stato di segno contrario a quello delle vulgate tradizionali. A ben vedere, il nazional-comunismo della ex Jugoslavia costituisce una deroga dagli ideali di riscatto universale perseguiti dalla predicazione marxista – e poi da quella leninista – attraverso una lunga serie di pervicaci utopie; ma aveva tratto spunto da un lungo impegno di Tito sul fronte dell’ortodossia rivoluzionaria e su quello della cosiddetta guerra di liberazione.

Non a caso, il futuro dittatore di Belgrado, già sospettato di deviazionismo ideologico sin dagli anni Trenta, quando era riuscito ad evitare le purghe moscovite grazie ad una capacità dialettica che gli avrebbe aperto le porte di maggiori fortune a venire, si fece premura di motivare le ragioni essenziali del suo disaccordo con Stalin e con gli altri leader del sistema cominformista, in un senso rigorosamente ed ortodossamente «proletario». Ciò, confermando le opzioni che durante la Seconda Guerra Mondiale lo avrebbero visto rifiutare le ipotesi di fronte popolare in collaborazione con le altre forze democratiche o presunte tali, e privilegiare la teoria secondo cui tutto il potere avrebbe dovuto essere appannaggio del solo comunismo.

Tito non fece mistero della continuità in dette pregiudiziali anche nel dopoguerra, quando criticò pesantemente i partiti comunisti di Francia e d’Italia per avere perduto le «occasioni storiche» di impadronirsi delle strutture statuali ed istituzionali scendendo a compromessi con le altre formazioni politiche uscite dalla Resistenza, invece di volgere a proprio esclusivo vantaggio i conati rivoluzionari che caratterizzarono la stagione politica di quei Paesi, se non altro fino al 1948. Si tratta di un atteggiamento meno pragmatico di quello staliniano, che in molte occasioni non fu alieno dal valutare in maniera più realistica le priorità: in altri termini, l’imperialismo del Cremlino ebbe talune connotazioni possibiliste, ben più di quanto sia lecito dire per quello di Belgrado.

Basti ricordare che già dal 1945, non appena terminata la guerra, non contento del possesso di Istria e Dalmazia già acquisito ben prima del trattato di pace, Tito fu costretto a rinunciare alle proprie mire su Trieste ed il Friuli, a fronte del compromesso intervenuto fra il Cremlino e gli Alleati Occidentali, che lasciarono campo libero all’espansionismo staliniano nei Paesi Baltici, in Finlandia ed in Polonia e bloccarono la «corsa» della Jugoslavia nei territori appartenenti all’Austria ed all’Italia, salvo cedere platealmente due anni dopo, in occasione del «diktat».

Non è tutto. Durante la gloriosa Rivoluzione Ungherese del 1956 fu proprio Tito a disporre che Imre Nagy e gli altri patrioti rifugiatisi insieme a lui nell’ambasciata jugoslava di Budapest venissero restituiti al Governo di Janos Kadar protetto dai carri armati sovietici, ed avviati al tragico destino di un processo «popolare» la cui sentenza era scritta a priori. In quella circostanza, il Maresciallo si rese complice di un delitto contro l’umanità, se non anche di un vero e proprio genocidio (non fu certo la prima volta), dimostrando che il dissenso del 1948 non era proprio granitico, ma che poteva contare, non appena fosse necessario, su eccezioni mutuate dalla logica del potere e dell’interesse politico: guai, al solo pensare che gli ideali per cui si immolarono i giovani ungheresi potessero diffondersi anche in Jugoslavia!

Come è stato opportunamente evidenziato, la cosiddetta «rottura» con Stalin aveva trovato motivazioni scatenanti nelle vicende albanesi e nell’intervento sovietico che ostava in maniera evidente ai programmi «imperialisti» di Tito, perseguiti senza successo ma non certo per mancanza d’impegno politico e militare, anche nei supporti offerti al comunismo in terra di Grecia e di Spagna nel corso del dopoguerra, e prima ancora, in quelli messi a disposizione dei confratelli bulgari e del Partito Comunista Italiano, la cui centrale operativa era stata trasferita, sin dai primi tempi del conflitto, dalla Francia alla Jugoslavia, dove operarono, fra gli altri, Umberto Massola e Rigoletto Martini[3].

In buona sostanza, quando si parla di Tito come di un campione del non allineamento, se non anche di una «democrazia popolare» dal volto umano, si aderisce ad una vulgata molto approssimativa, o meglio, sostanzialmente infondata; nella fattispecie, con l’aggravante di compiere una falsificazione programmata, al pari di quelle secondo cui i misfatti delle foibe e dei massacri compiuti durante e dopo la guerra a danno degli Italiani e di tutti gli oppositori al verbo comunista sarebbero stati una «giustificata» reazione ad antiche e più recenti persecuzioni.

L’eroico Vescovo di Trieste e Capodistria, Monsignor Antonio Santin, commentando il genocidio compiuto dai partigiani in Venezia Giulia e Dalmazia (1943-1947), volle sottolineare che le vie dell’iniquità non sono eterne; oggi si potrebbe aggiungere, con le parole di Thomas Gray, che i sentieri della gloria conducono solo alla tomba. Nel caso del «liberatore» jugoslavo si tratta di affermazioni da condividere a più forte ragione, visto che la Repubblica Federativa è caduta come un castello di carte, e che la residua fama postuma di Giuseppe Broz, detto Tito, sopravvive soltanto nel ricordo dei suoi seguaci e nei loro molteplici delitti.


Note

1 È significativo che la proposta di espungere i riferimenti a Tito dalla toponomastica croata abbia trovato forti opposizioni negli ambienti del reducismo partigiano, ivi compresi quelli istriani. Del resto, anche in Italia non mancano gli esempi di luoghi pubblici tuttora intitolati al defunto Maresciallo, nonostante le pesanti responsabilità partigiane nel genocidio delle foibe: al momento, le Amministrazioni Comunali interessate sono undici, fra cui tre capoluoghi di provincia (Nuoro, Parma e Reggio Emilia).

2 L’argomento è stato recentemente riproposto, sin quasi nel titolo, ed in forma sistematica, da Giovanni Sartori, La corsa verso il nulla: dieci lezioni sulla nostra società in pericolo, Edizioni Mondadori, Milano 2015. In tale opera, il celebre politologo, Emerito della Facoltà «Cesare Alfieri» di Firenze e della Columbia University di New York, analizza in modo specifico il paralogismo semantico, oltre che socio-economico, su cui è fondata la rivoluzione comunista.

3 William Klinger, Tito (1892-1980), in «Quaderni del Centro di Ricerche Storiche di Rovigno», volume XXXI, Rovigno 2010, pagine 361-407, con citazioni prioritarie da Ivo Banac, With Stalin against Tito, New York 1988, e dall’Opera Omnia dello stesso Tito (in 30 volumi, Edizioni Kommunist, Belgrado 1977-1989). Vale la pena di rammentare che il giovane storico di Fiume ha perso recentemente la vita in un attentato dalle matrici oscure, di cui è rimasto vittima a New York.

(novembre 2015)

Tag: Carlo Cesare Montani, Europa, Tito, Novecento, comunismo jugoslavo, Unione Sovietica, Cominform, Jean Revel, marxismo-leninismo, Imre Nagy, Umberto Massola, Rigoletto Martini, Antonio Santin, Thomas Gray, Ivo Banac.