Tito: 40 anni dalla morte
Una lucida analisi delle scelte politiche del «satrapo di Belgrado», e degli onori che ancor oggi, impropriamente, gli vengono talvolta tributati all’estero

Non c’è molto da aggiungere a quanto è stato oggetto di studio e documentazione da parte della storiografia e della cronaca politica sulla figura del Maresciallo Tito e sulla sua guida della Jugoslavia dagli anni della guerra civile alla vigilia dello sfascio conclusivo, e soprattutto sull’ampio campionario di nequizie, non solo umane e civili, che distinsero la sua gestione del potere. Nondimeno, nel quarantennale della scomparsa (4 maggio 1980) è congruo fare il punto sul suo ruolo, con particolare riguardo ai rapporti con l’Italia; alla pulizia etnica ai danni del popolo giuliano, istriano e dalmata; e ai milioni di Vittime che furono il tragico prezzo pagato alla sua gestione del potere.

Nelle nuove Repubbliche ex Jugoslave il mito del Maresciallo si è progressivamente offuscato, e oggi resiste soltanto in una piccola schiera di fedelissimi, mentre sul suo sepolcro, come fu scritto da tempo, crescono le ortiche. Le lodi e gli onori da cui venne largamente gratificato in vita non hanno più eco, a cominciare da quelle per avere garantito l’unità statuale di un Paese diviso da sempre e governabile soltanto col pugno di ferro, per non dire di quelle riservate al suo ruolo di leader dei cosiddetti non allineati: 44 Paesi di vari continenti, fra cui la Jugoslavia era il solo appartenente all’Europa, cosa non meno «meritoria» dell’essere stata fondatrice del gruppo, ormai dimenticato e quasi ignorato anche dalla maggiore storiografia, se non altro alla luce di risultati praticamente nulli.

Ciò non significa che Tito non abbia soddisfatto le sue vanitose ambizioni con una gestione dello Stato fallimentare, ma estremamente abile (anche da parte dei suoi successori) nell’acquisire mezzi finanziari altrui, che vennero offerti dall’Occidente con un crescendo instancabile, alimentato dalle illusioni sorte a fronte del disimpegno jugoslavo dalla stretta osservanza cominformista e dai «giri di valzer» con Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania e via dicendo. Non a caso, gli ultimi anni di Tito e quelli immediatamente seguenti videro una lunga processione dei maggiori esponenti di questi Paesi che sarebbe proseguita anche «post mortem» del Maresciallo. Costoro fecero a gara nel portare a Belgrado il segno tangibile della loro fede nella cosiddetta autogestione, con tanto di finanziamenti a tassi minimi e di contributi a fondo perduto. L’Italia non fece eccezione, raggiungendo il massimo di una «cooperazione» quanto meno opinabile quando il Presidente della Repubblica Sandro Pertini si compiacque di baciare la bandiera con la stella rossa.

Alla morte di Tito il compianto dei potenti fu sostanzialmente universale, ma si estese a tutti i livelli, anche in Italia: basti pensare che il Comune di Firenze si fece promotore di una proposta volta a concedere il Premio «Giorgio La Pira» alla memoria del dittatore per il suo contributo alla pace fra i popoli, anche se venne fortunosamente ma meritoriamente disattesa. Ciò, senza dire che diverse Amministrazioni comunali fecero a gara nell’intitolare un luogo pubblico a Tito, al pari di quanto accadde per Palmiro Togliatti o per altri campioni del comunismo internazionale; ancora oggi, sono 11 le città italiane che si fregiano di questa particolare sensibilità storica, fra cui tre capoluoghi di provincia: Nuoro, Reggio Emilia e Parma (quest’ultima, per distinguersi al meglio, con due toponimi). La cosa diventa paradossale quando si pensi che nella ex Jugoslavia buona parte di analoghe intitolazioni è stata cancellata.

Molti anni prima, un giornalista coraggioso che rispondeva al nome di Silvano Drago, Direttore di «Difesa Adriatica», aveva definito Tito come «infoibatore e assassino» venendo denunciato per vilipendio dall’Ambasciata Jugoslava di Roma. Fu un’iniziativa importante sul piano mediatico, tanto più che in sede giudiziaria l’imputato venne assolto con formula piena (maggio 1961) perché aveva scritto il vero. Altri tempi, che poi sarebbero stati superati dall’apertura a sinistra, dalle convergenze parallele, dal compromesso storico e da altre amenità similari, fino al momento in cui il Presidente del Consiglio Bettino Craxi avrebbe dichiarato che la Jugoslavia è «partner di assoluta preferenza» (ottobre 1985). Ciò, nel momento in cui spedì a Belgrado il terrorista Abul Abbas sottraendolo al doveroso giudizio per avere dirottato una nave italiana e ucciso un passeggero invalido.

Giova rammentare che Tito era stato molto abile quando riuscì a farsi riconoscere dagli Alleati Occidentali quale unica espressione della nuova Jugoslavia (1944) e a irretire lo stesso Winston Churchill che avrebbe riconosciuto l’errore quando fu troppo tardi per porvi rimedio: in effetti, il Governo Monarchico della vecchia Jugoslavia era in esilio proprio a Londra ma venne abbandonato al suo destino, tanto più che Gran Bretagna e Stati Uniti non potevano prescindere dal ruolo decisivo dell’Unione Sovietica, prima protettrice di Tito. In quell’occasione, Draza Mihajlovic, massimo esponente dell’opposizione, disse che in Jugoslavia regnava il terrore comunista, ma la sua voce non ebbe ascolto.

Il Maresciallo non avrebbe avuto bisogno di analoghe abilità diplomatiche quando si trattò di mettere in pratica il suo disegno di pulizia etnica e politica. Del resto, nei confronti degli Italiani aveva già cominciato l’opera – in maniera indiscriminata – a far tempo dalla «prima ondata» delle persecuzioni e delle uccisioni, immediatamente conseguente all’armistizio dell’8 settembre 1943, per non dire di quelle successive, in specie a guerra finita, destinate a protrarsi nel lungo termine, e ormai documentate con dovizia di particolari spesso agghiaccianti dalla storiografia e soprattutto dalla memorialistica. Fra i tanti delitti contro l’umanità basti rammentare la strage di Vergarolla, avvenuta a 16 mesi dalla fine del conflitto (agosto 1946) quando almeno 110 Vittime innocenti caddero per mano dell’OZNA nell’ambito delle direttive che uomini di primo piano quali Edvard Kardelj e Milovan Gilas affermarono – anni dopo – di avere ricevuto dal vertice di Belgrado. Fu un genocidio, come da dottrina giuridica largamente condivisa, sia nell’ottica dei 20.000 Martiri Italiani, sia in quella dei 350.000 Esuli.

In molti casi fu un’autentica mattanza, come nel caso dell’Armata Cosacca, i cui superstiti vennero prontamente restituiti per essere sterminati assieme alle famiglie dai plotoni d’esecuzione o nelle acque della Sava; o come nel caso delle opposizioni interne, a cominciare da quella cetnica: lo stesso Mihajlovic venne fucilato dopo un processo farsa. In genere, infoibamenti, annegamenti, impiccagioni, lapidazioni e altre esecuzioni sommarie erano prassi immediata, al pari delle evirazioni, dell’enucleazione degli occhi e di altre «raffinate» torture preventive, ma in alcuni casi emblematici si volle ricorrere a una surreale procedura giudiziaria, tra cui si possono ricordare a titolo di esempio quelle riservate a Stefano Petris, Eroe dell’ultima difesa di Cherso, fucilato a Fiume nel dicembre 1945, o a Vincenzo Serrentino, ultimo Prefetto di Zara italiana, che ebbe la stessa sorte nel febbraio 1947.

Come si diceva in premessa, sono trascorsi 40 anni dalla morte di Tito, e le ultime luci della ribalta si vanno spegnendo anche per il satrapo di Belgrado, lasciando spazio a un giudizio che, per quanto possibile, deve essere conforme ai canoni fondamentali di una storiografia oggettiva che non lasci spazio ai sentimenti e obbedisca alla ragione, alle testimonianze e ai documenti. Ebbene, nonostante il perenne fluire della storia, quel giudizio va assumendo un carattere etico e politico sempre più definito e definitivo: qui basti ricordare quello poetico, ma coinvolgente – e spesso pertinente – di Thomas Gray, secondo cui «i sentieri della gloria conducono solo alla tomba». Nel caso di Tito, col contorno delle ortiche.

(agosto 2020)

Tag: Carlo Cesare Montani, Maresciallo Tito, Giorgio La Pira, Sandro Pertini, Palmiro Togliatti, Silvano Drago, Bettino Craxi, Abul Abbas, Winston Churchill, Draza Mihajlovic, Edvard Kardelj, Milovan Gilas, Stefano Petris, Vincenzo Serrentino, Thomas Gray, Movimento dei Paesi non allineati, strage di Vergarolla, OZNA, delitti contro l’umanità, Tito.