Josip Broz Tito, il comunista più crudele di Stalin
Le vicende dell'uomo che diresse la storia jugoslava dalla Seconda Guerra Mondiale al 1980, anno della morte e dell'inizio del disfacimento della sua opera

Tito

Josip Broz Tito in uniforme, 1961

Gli Slavi Meridionali, che per un certo periodo vissero nello Stato unitario jugoslavo, costituivano una realtà complessa. Da un punto di vista strettamente linguistico, Croati, Serbi, Bosniaci e Montenegrini costituiscono qualcosa di omogeneo, diversi sono i Macedoni affini ai Bulgari e gli Sloveni affini agli Slovacchi. Più rilevanti sono le differenze religiose, essendo presenti Cattolici, ortodossi e musulmani, e nell’uso della scrittura, essendo presente sia l’alfabeto latino che quello cirillico. Sloveni e Croati, erano vissuti per un lungo periodo sotto l’Impero Asburgico, e in quanto prevalentemente Cattolici erano più orientati verso il mondo occidentale. Serbi e Macedoni erano invece vissuti sotto il più autoritario Stato Ottomano in un maggiore isolamento. Nell’Ottocento l’intera regione balcanica si affrancò dall’Impero Turco, ma a causa degli incerti confini etnico-linguistici, le dispute territoriali furono continue, e con esse un certo timore verso la supremazia della Serbia. Con i trattati successivi alla Prima Guerra Mondiale si formò lo Stato unitario jugoslavo sotto la dinastia serba di Karadordevic, ma la vita politica del Paese fu pesantemente tormentata dai contrasti fra Serbi e Croati, sebbene in alcuni momenti proprio la Corona cercasse di attenuare lo scontro. Dopo l’invasione italo-tedesca della Jugoslavia nel 1941, i massacri fra gruppi etnici divennero continui, in particolare da parte degli Ustascia, un movimento ultra nazionalista, filo fascista e successivamente filo nazista, che si ritiene abbia provocato la morte di 500.000 Serbi (incluso un certo numero di Ebrei e rom), l’espulsione di 250.000 non Croati e la conversione forzata al Cattolicesimo di un numero simile di Jugoslavi. Meno documentati sono i massacri compiuti dai Serbi, che ammonterebbero comunque a circa 100.000 persone. Interessante notare che meno di un quarto dei morti jugoslavi nel corso della Seconda Guerra Mondiale (1.400.000) sono da attribuire alla guerra di invasione italo-tedesca, la restante parte fu dovuta ai conflitti etnici e ai conflitti fra anticomunisti e titoini.

La Bosnia nel 1943 venne occupata dai comunisti titoini che progressivamente divennero la principale forza del Paese, per un certo periodo si contrapposero quindi tre grandi gruppi politici, gli Ustascia destinati rapidamente a scomparire, i cetnici (Serbi filo monarchici) e i comunisti di Tito. Le violenze subite dai cetnici spinsero questi verso un atteggiamento non belligerante verso i Tedeschi, gli Angloamericani si orientarono quindi verso il sostegno ai comunisti. Tale politica poteva apparire sotto il profilo politico poco congruente, del resto anche in Vietnam gli Americani avevano appoggiato i comunisti di Ho Chi Minh contro i Giapponesi. A Yalta comunque, gli Angloamericani tentarono di stabilire una convivenza fra comunisti e monarchici, ovviamente difficilissima da realizzare essendo i rapporti di forza ormai compromessi. Si è dibattuto se la liberazione della Jugoslavia sia avvenuta attraverso l’intervento dell’Armata Rossa o se sia stata un fenomeno dovuto unicamente alle forze jugoslave, gli storici propendono per una compartecipazione di entrambi.

Il Partito Comunista Jugoslavo, diversamente da altri movimenti simili negli altri Paesi dell’Est, aveva una sua base di consenso (12% circa nelle elezioni del 1920), ma si presentava orientato su posizioni decisamente estremiste. Nel 1921 organizzò un attentato (non riuscito) contro il Re e successivamente l’assassinio del Ministro degli Interni, il democratico Milorad Draskovic. Negli anni successivi il partito, fortemente gerarchicizzato come tutti i partiti comunisti dell’epoca, vide degli scontri interni fra sostenitori del primato contadino e primato operaio, sulla questione etnica, nonché fra puristi rivoluzionari e sostenitori di un’alleanza con i socialisti. In maniera piuttosto improvvisa si affermò nel 1928 il Croato Josip Broz, all’epoca sindacalista filo stalinista che aveva per diversi periodi soggiornato a Mosca. Il nuovo leader continuò la politica terrorista e la pratica della soppressione dei dissidenti interni, in particolare è da ricordare l’uccisione nel 1937 del segretario generale del KPJ Milan Gorkic su ordine di Mosca; nonostante le ingenti sovvenzioni economiche sovietiche il partito vide comunque in quegli anni ridurre sensibilmente la sua area di consenso. Su tali questioni, molto interessante appare il lavoro di William Klinger sulla storia dell’Ozna, che attraverso una ricca documentazione mette in luce anche i legami fra il Partito Comunista Italiano e quello jugoslavo.

Nel corso dell’occupazione italo-tedesca, i gruppi partigiani titoini occuparono diversi territori dove si stabilirono delle istituzioni nominalmente espressione della volontà della popolazione locale, ma nelle quali i cittadini erano soggetti a una disciplina rigidissima con la eliminazione fisica di chiunque non l’accettasse, mentre i contadini ritenuti ricchi vennero considerati alla stregua dei kulaki russi. I terribili scontri etnici di cui abbiamo detto, spinsero comunque i bosniaci ad accettare la protezione dei comunisti, come in Russia nel periodo peggiore dell’attacco tedesco, in alcuni periodi venne messa da parte la questione ideologica e la punizione dei nemici del popolo, per mettere in risalto la lotta dei popoli jugoslavi uniti contro gli invasori.

La questione etnica risultò sicuramente rilevante. Già nel 1943 i comunisti jugoslavi tentarono di sottomettere i gruppi comunisti locali, italiani, greci, bulgari e albanesi anticipando in qualche modo le successive mire annessionistiche su territori di questi Paesi. Venne creato un sistema di potere «concentrico», il Fronte Popolare che raccoglieva i partiti anti fascisti con scarsa autonomia, il Partito Comunista Jugoslavo e l’Ozna, un selezionato apparato che comprendeva una polizia politica che controllava rigidamente il tutto.

Nell’estate del ’44 la Serbia venne definitivamente liberata (o occupata, secondo i punti di vista) dalle milizie titoine, iniziarono immediatamente le schedature di massa, le persecuzioni politiche e quelle contro gli appartenenti alla classe borghese nonché delle minoranze tedesche, ungheresi e albanesi sebbene queste ultime non avessero compiuto alcun atto ostile contro il Paese Jugoslavo. Nella sola Serbia il numero delle vittime è calcolato fra 30.000 e 150.000. Risulta fosse metodico il ricorso alla tortura degli arrestati, mentre i Sovietici si impegnavano anch’essi in un’opera di repressione parallela contro chiunque potesse essere considerato ostile. Nei mesi successivi alla fine del Conflitto (maggio-agosto ’45) a Zagabria vennero uccisi 15.000 oppositori, la maggior parte anti fascisti ritenuti filo occidentali fra i quali gli esponenti del partito contadino croato orientato a sinistra. Sempre secondo gli studi di Klinger, anche in Kosovo e Macedonia i massacri dei comunisti provocarono migliaia di vittime. Qualcosa del genere avvenne anche negli altri Paesi dell’Est occupati dai Sovietici, in particolare in Polonia dove i capi della Resistenza vennero arrestati e giustiziati prima della fine del Conflitto.

Ampiamente documentati sono i massacri di Croati, Sloveni e cetnici (collaborazionisti o sospettati tali) arresisi in Austria a Bleiburg agli Inglesi e immediatamente riconsegnati agli inseguitori comunisti. I prigionieri furono costretti a marce forzate a rientrare in patria. Fosse comuni furono ritrovate in Austria e Slovenia, dove si ritiene vennero uccisi 50.000 militari e 30.000 civili, molti dei quali torturati. Altri importanti massacri si ebbero a Backa nella Vojvodina (Banato), regione a Nord della Serbia abitata in maggioranza da Ungheresi con importanti minoranze tedesche e serbe. Negli ultimi mesi del Conflitto circa la metà di questi fuggirono dalla regione, per gli altri si aprì un periodo terribile. Le popolazioni di interi villaggi vennero massacrate, mentre la quasi totalità della restante popolazione tedesca finì nei campi di lavoro forzato. Le stime delle vittime fra i tre gruppi etnici vanno da 60.000 a 170.000. Ai massacri e agli stupri di massa seguì nel periodo successivo la pulizia etnica della regione con espulsioni di massa. Tali eventi hanno trovato successivamente conferma nella documentazione raccolta dalla Commissione di Stato di Belgrado sulle fosse comuni nel 2009.

Le stesse fonti jugoslave non celavano la loro azione. Dal 1945 al 1951, 3.777.776 cittadini jugoslavi (più di un quarto dell’intera popolazione jugoslava) transitarono nelle carceri del Paese, e 568.000 furono quelli eliminati fisicamente. Lo studioso americano Rudholph Rummel ritiene che oltre 1.072.000 Jugoslavi siano stati uccisi tra il 1944 ed il 1987, fra i quali molti esponenti del clero e numerosi internati nei campi di concentramento a causa di sevizie. Particolarmente colpita fu la comunità italiana, a guerra finita venne occupata Trieste per oltre un mese, si ritiene che circa 10.000 furono gli Italiani uccisi nelle foibe o morti nei campi di concentramento. Molti dei giustiziati non erano fascisti ma persone estranee alla politica, in genere appartenenti alla classe media o anche anti fascisti che non intendevano tradire il loro Paese. Secondo alcuni gli Italiani uccisi furono vittime della «rabbia popolare», ma in realtà vennero eliminati in maniera organizzata su disposizioni prese dall’alto. A tali persecuzioni parteciparono anche gruppi di comunisti italiani inquadrati nelle milizie titoine con l’avvallo sostanziale di Togliatti. Interessante notare è che le persecuzioni sia pure in forma ridotta continuarono negli anni e nei decenni successivi, e secondo gli studiosi Tomislav Sunic e Nikola Stedul numerosi intellettuali furono uccisi all’estero dove erano emigrati.

Come in tutti i Paesi Comunisti dell’epoca le prime misure del Governo furono la nazionalizzazione di tutte le attività economiche, anche di quelle a livello artigianale e la cosiddetta riforma agraria, con la istituzione delle cooperative obbligatorie con poteri riservati alle autorità e pesanti prelievi obbligatori da parte dello Stato; per un certo periodo si arrivò alla collettivizzazione forzata con i contadini privati di ogni diritto e di ogni bene. L’economia riprese il modello di sviluppo staliniano con i piani quinquennali finalizzati a progetti grandiosi e la concentrazione degli investimenti nell’industria pesante. La durezza dei provvedimenti economici portò il Paese sull’orlo della carestia, situazione che perdurò fino al 1950. L’11 novembre 1945 si tennero le elezioni che conferirono il 96% dei voti al Fronte Popolare. Tito divenne oggetto di un culto della personalità, diversamente da altri leader comunisti ebbe una vita sentimentale molto attiva, frequentava il jet set internazionale e non nascondeva il suo amore per il lusso, gli yacht e le ville di prestigio. Come nei Paesi Comunisti Asiatici si parlava della creazione dell’«uomo nuovo», un cittadino con uno stile di vita conformista e ovviamente disciplinato.

La politica estera jugoslava fu particolarmente attiva, Tito non ritenendosi sottoposto a Stalin come gli altri leader comunisti avanzò molte pretese territoriali: Venezia Giulia italiana, Carinzia austriaca, territori bulgari, greci e albanesi. Perseguitò gli Albanesi del Kosovo, tentò di sottomettere l’Albania con l’invio di truppe in quel Paese (per difesa da un ipotetico attacco greco) e di istituire una federazione balcanica in cui la Jugoslavia avrebbe avuto una posizione di preminenza. Tale politica ritenuta troppo attiva lo portò in duro contrasto con Stalin che riteneva il Paese fragile e sul quale pendevano accordi economici vessatori favorevoli ai Sovietici. Per alcuni anni l’accusa di titoismo divenne l’equivalente di quella di trotzkismo degli anni precedenti e portò all’eliminazione di importanti dirigenti comunisti (particolarmente quelli che avevano combattuto nella Resistenza) in tutti i Paesi dell’Europa Orientale. Numerosi furono anche gli scontri di frontiera, ma il leader comunista resistette anche grazie all’aiuto dei Paesi Occidentali. Il contrasto all’interno del mondo comunista portò nello Stato Jugoslavo all’uccisione e all’internamento di migliaia di comunisti ritenuti per qualche motivo vicini a Stalin. Il trattamento degli internati nei campi di concentramento risultò più crudele di quello riservato ai deportati nei lager di Russia e Germania con lavoro coatto, violenze di vario tipo e il ricorso a tecniche di distruzione della personalità.

Una volta espulsa la Jugoslavia dalla organizzazione dei Paesi Comunisti, Tito diede vita al movimento dei Paesi non allineati che raggruppava un vasto numero di Paesi Afroasiatici, anche se al loro interno non mancavano forti tensioni e sul piano pratico l’organizzazione non producesse risultati. Negli anni successivi si ebbero ancora persecuzioni e provvedimenti restrittivi nei confronti di compagni di partito non allineati, comunque prevalse una certa moderazione, vennero allentate le misure durissime nel settore economico e si introdusse la cosiddetta autogestione operaia anche se costituì più un proclama che una istituzione reale. Nel 1953 venne reintrodotta la piccola proprietà terriera, nel 1954 l’accordo con l’Italia sui confini, nel 1965 venne ampliata la produzione dei beni di consumo e nel 1975 venne concessa una maggiore autonomia alle Repubbliche. Il processo di «destalinizzazione» non fu lineare e non mancarono ritorni al vecchio dogmatismo, morto Tito nel 1980 il Paese iniziò il processo di tragica disgregazione.

(novembre 2013)

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