Storia della Romania
Le vicende, spesso poco conosciute, del più «occidentale» degli Stati «orientali»

Chi ne sente parlare, si fa della Romania l’idea di un Paese povero e arretrato, da Terzo Mondo, magari anche sfortunato, abitato da gente violenta e poco avvezza a rispettare le leggi, e militarmente incapace. Un Paese «inutile» e di scarso interesse. Ma se solo si inizia a conoscerlo, queste idee cambiano in modo radicale. Lungi dall’essere poco attraente, la Romania rivela un fascino tutto particolare.

La sua storia è stata condizionata in modo preponderante dalla sua poco felice posizione geografica: è infatti un Paese che non ha confini naturali sicuri e ben definiti. Solo il Danubio a Sud può rappresentare un limite effettivo, dato che in alcuni punti è largo un chilometro e – se la riva destra, quella bulgara, è formata generalmente da una ripida e asciutta scarpata – la riva sinistra, quella romena, è bassa e paludosa, di difficile transito e insediamento. Il Prut, che divide la Romania dalla Moldova, non è un ostacolo per le comunicazioni tra le due rive, mentre gli altri confini sono una continuazione del territorio dei Paesi limitrofi, con le catene dei Carpazi e degli Apuşeni che racchiudono un medio altipiano collinare, la Transilvania (nome che significa «regione al di là dei boschi»).

Posta a Settentrione del Danubio, quasi a far da spartiacque tra l’Asia e l’Europa, la Romania fu da sempre terra di transito. Non è un caso se qui, di recente, furono ritrovati alcuni dei più antichi scheletri di Homo Sapiens, arrivati durante la loro lunga migrazione dalle steppe russe verso Occidente.

Intorno al 2000 avanti Cristo giunse nella zona montagnosa della Transilvania, proveniente dal Nord, un popolo di lingua indo-europea, conosciuto dai Greci e dai Romani con il nome di Traci, i cui stanziamenti si spinsero fino all’Egeo e all’Asia Minore: il gruppo che si fermò in Romania era noto con il nome di Daci. A quest’epoca sembra risalire il villaggio rilevato dagli scavi archeologici di Hâbâçeşti presso Iaşi, costruito su un terrapieno, con 50 capanne di piccole dimensioni e due più grandi, dimore di capi-tribù o edifici sacrali.

Nel 1200 avanti Cristo circa penetrarono nella zona, assimilandosi con i Daci, tribù illiriche, parenti di quei Dori che scendevano a occupare la Grecia; affini ai Daci e agli Illiri erano i Geti delle regioni orientali del Paese, alle foci del Danubio e lungo il Mar Nero: furono questi ultimi ad avere i primi contatti con la civiltà greca. Grandi porti commerciali greci sorsero presto sulle rive del Mar Nero, il più importante dei quali fu Tomi, l’odierna Costanza, colonia di Mileto. Nell’interno, tra il I secolo avanti Cristo e il I secolo dopo Cristo, i Daci costituirono un vero Stato, forte e organizzato, il cui potere culminò nell’80 dopo Cristo col Regno di Decebalo. Il più completo esempio di centro residenziale dei Daci è quello di Grădiştea Muncelului, completamente in pietra: una città fortificata, che sfruttava la naturale posizione montagnosa, costruita su un terrapieno su cui si ergeva la cittadella cinta di mura irregolari dello spessore di più di tre metri, contenente una cinta sacra con quattro santuari, e che nell’insieme ricordava vagamente le cittadelle micenee.

Nell’agosto dell’anno 101 dopo Cristo, da Sud si mise in marcia l’esercito romano, guidato dal Generale Traiano: il piano per l’«operazione Dacia» era stato studiato a fondo, erano state calcolate le giornate di viaggio da compiere, gli approvvigionamenti da trasportare, i passi insidiosi da superare.

Da un punto di vista militare, si potrebbe parlare di guerra di conquista; ma da un punto di vista politico, occupare quei territori era una necessità assoluta per la difesa dell’Impero Romano: la Dacia era una regione di frontiera, e stabilirvi un punto di forza voleva dire proteggere efficacemente l’Impero dalle invasioni dei barbari. Come era accaduto per quasi tutte le guerre combattute da Roma in Europa, si prevedevano due tempi per l’operazione: 1) conquista della regione e sottomissione dei barbari; 2) trasferimento di numerosi coloni romani nella zona.

L’esito dell’impresa fu favorevole: nel 107, dopo sei anni, Roma aveva un’altra provincia nella quale si erano trasferite molte migliaia di coloni, in maggioranza gli stessi valorosi soldati che l’avevano conquistata, oltre a legionari e civili provenienti dalla Siria e dall’Asia Minore, dall’Africa, dalla Dalmazia, dalla Pannonia, in quello che fu il più colossale esperimento di colonizzazione dell’epoca. Nel fregio della Colonna Traiana, a Roma, sono raffigurate le scene della conquista della Dacia da parte delle legioni.

Particolare dalla Colonna traiana

Particolare dalla Colonna Traiana in cui è raffigurato l’esercito romano che passa il Danubio su un ponte di barche, Roma (Italia)

Terra opulenta d’oro, d’argento e di grano, la Dacia divenne una provincia modello; i rapporti fra Daci e Romani si fecero amichevoli, e gli storici del tempo chiamarono questa terra «Dacia felix» («Dacia felice»). I nuovi arrivati tappezzarono la regione di ampie vie selciate che conducevano dai grandi porti danubiani fino a Sarmizegetusa (l’odierna Várhely-Grădiştea al centro del Paese, in piena Transilvania), e da lì fino al Mar Nero: Viminacium, Oescus, Pontes, Drobetae, Apulum, Napoca, Tomi, sono le più importanti città, quasi tutte – tranne Sarmizegetusa – di fondazione romana. In alcune credenze popolari è rimasta ancor oggi la figura dell’Imperatore che romanizzò la regione: Baba Traiàn in certe località è una specie di bonario Babbo Natale che porta i doni. Ma era una felicità che non poteva durare, perché sempre nuovi popoli barbari premevano ai suoi confini.

Dopo 150 anni di relativa tranquillità, la situazione precipitò: gli invasori slavi e germani affluivano senza sosta dall’Asia, e nel 270 l’Imperatore Aureliano decise di spostare le guarnigioni militari più a Sud, facendo riattraversare il Danubio all’esercito romano.

La provincia, abbandonata a se stessa, divenne zona di transito o di provvisorio insediamento di diversi popoli migranti: per centinaia di anni Goti, Gepidi, Unni e Avari rimasero padroni dell’antica «Dacia felix», schiantando la resistenza dei suoi abitanti, dividendosene i territori, impadronendosi delle sue ricchezze.

Ma l’impronta che Roma aveva dato al Paese non si cancellò: molto sangue latino scorreva nelle vene degli abitanti, e l’organizzazione romana sopravvisse nei costumi e soprattutto nella lingua di quel popolo. Dalla fusione fra il latino volgare dei legionari e dei coloni romani e i dialetti indigeni, nacque infatti il romeno, parlato oggi dal 90% degli abitanti: deriva direttamente dal latino nella morfologia, nella sintassi, nella toponomastica e nel 60% delle parole (le altre sono di provenienza slava, greca, turca, ungherese e albanese, riflettendo la policromia dei rapporti culturali intrattenuti nei secoli). Il romeno è la più orientale, e la più isolata, fra le lingue romanze o neolatine, oltre che il principale elemento aggregante della nazionalità romena, tanto che su di essa la retorica nazionale ha intessuto, a diverse riprese, anche vaghe e gratuite fantasie.

Nel VI secolo, numerose tribù di Slavi occuparono le regioni romene della Transilvania e della Valacchia, fondendosi poi con la popolazione dacio-romana: questa unione diede origine all’attuale popolazione del Paese, che mostra nei volti dei suoi abitanti la varietà delle radici etniche che la compongono .

Per secoli la Romania non poté costituirsi in uno Stato indipendente per la sua infelice posizione di «ponte» tra l’Oriente e l’Occidente: ogni migrazione di barbari passava infatti attraverso questa terra, distruggendo e saccheggiando.

Pian piano però i Romeni si radunarono in Principati, retti da un «Voivoda» («Principe»), e cominciarono ad allearsi fra loro opponendo resistenza agli invasori.

Tra il XII e il XIII secolo si costituirono i grandi Principati di Valacchia, di Moldavia e di Transilvania. La loro nascita segnalò una tappa importante nella storia romena: per la prima volta i Romeni tornarono padroni della loro terra, dai lontanissimi tempi dei Re Daci, anche se il potere dei Voivoda era condizionato da quello dei nobili rurali non sempre fedeli, le cui rivalità lacerarono periodicamente il Paese in lotte intestine. Questo periodo di libertà fu però di breve durata. Nuovi nemici si profilavano minacciosi: i Magiari e i Polacchi a Nord, i Turchi a Sud!

I Voivoda combatterono disperatamente per la difesa delle loro terre e dei loro costumi, contro un popolo di lingua e di tradizioni così diverse; ma furono costretti a cedere agli eserciti del Sultano. Prima a cadere fu la Valacchia. La Moldavia resisté più a lungo, i suoi valorosi soldati e condottieri, pur nel quadro di una totale disfatta, diedero prove di grande coraggio. Il massimo splendore della Moldavia fu raggiunto sotto lo scettro del Voivoda Stefano il Grande (1457-1504): divenne famoso in tutto il mondo sia per aver messo in fuga il Re Ungherese Mattia Corvino nella battaglia di Baia (1467), sia – soprattutto – per la sconfitta che, con soli 40.000 soldati, inflisse a 100.000 Turchi presso le paludi di Racova (10 gennaio 1475). Le sue battaglie contro gli infedeli gli fruttarono il titolo di «atleta di Cristo», conferitogli dal Papa Sisto IV. Intervenuto nelle lotte intestine valacche, Stefano riuscì anche a controllare il Principato gemello, ma fu un successo effimero: stabilitisi alle foci del Danubio e del Dnestr, i Turchi finirono col prevalere, imponendo nel 1489 il tributo anche alla Moldavia. Stefano il Grande resta tuttavia il solo Voivoda Romeno che sia riuscito a stabilire rapporti diplomatici e culturali con l’Occidente, specialmente con Venezia e con Roma, identificando nel proprio nome la prima presa di contatto del popolo romeno con la civiltà italiana. La Transilvania cadde sotto l’egida dell’Ungheria, ma la popolazione non ebbe una buona sorte, perché era costituita da servi della gleba privi di ogni diritto.

Stefano il Grande

Monumento di Stefano il Grande a Chisinau (Moldova)

Fu in questo periodo che ebbe il primo palpito la letteratura romena con tutta la sua originalità, il cui manoscritto più antico a nostra disposizione è il Codice di Voronet, scritto alla fine del Quattrocento in un alfabeto cirillico modificato per adattarlo alla lingua romena (nel 1860 si passò decisamente all’alfabeto latino); naturalmente documenti scritti esistevano già precedentemente, ma le frequenti razzie delle soldatesche turche e gli incendi o la distruzione di chiese e conventi – i luoghi della trasmissione della cultura – hanno impedito che giungessero fino a noi. Così, la letteratura di alto livello, il teatro, la musica fiorirono in Romania solo dopo la fine del dominio turco.

L’occupazione ottomana della Valacchia e della Moldavia durò fino alla fine del ’600, e fu durissima. Recita una lirica popolare romena che «così è l’uomo fra stranieri: / un albero da frutta fra gli spini; / lo spino cresce in lungo e in largo, / l’albero rimane disseccato». L’instabilità diventò la caratteristica dominante del panorama politico: nel corso del Cinquecento e del Seicento, un centinaio di Voivoda si succedettero sui troni di Valacchia e di Moldavia, raramente finendo i loro giorni al potere. Il capriccio dei boiardi (i grandi proprietari terrieri) e l’estrema corruzione della Corte Turca di Costantinopoli favorivano questa instabilità. I tributi imposti dagli Ottomani furono sempre più pesanti, e impoverirono Valacchia e Moldavia, fino a che la nobiltà locale non ebbe più il potere di esprimere i propri Voivoda ma dovette subire gli sfruttatori giunti dalla Balcania, da Costantinopoli, dall’Albania, dall’Oriente.

Fu durante questi anni oscuri che i Romeni cominciarono a chiamare la loro terra «Romania», che significa «Terra dei Romani», proprio per riaffermare chiaramente la loro fedeltà e i loro legami con il mondo occidentale contro l’oppressore turco. Ancor oggi ai bambini romeni viene insegnato a ricordare che essi sono per metà Daci e per metà Romani, e la stessa parola «Romeno» sarebbe più correttamente tradotta con «Romano».

Nuovi padroni comparvero nell’infelice Romania all’inizio del ’700. L’Impero Turco scricchiolava e, se all’interno gli ambienti del patriarcato ortodosso e dei Greci di Costantinopoli diventarono i fornitori di Voivoda-esattori di tributi (che accentuarono la corruzione e l’avventura dei troni valacco e moldavo), all’esterno gli Ottomani furono battuti dagli Austriaci e costretti a concedere ai vincitori, con il trattato di pace di Passarovitz (1718), alcune regioni romene. Poi, alla fine del secolo, arrivarono anche i Russi; e così i Romeni si trovarono ancor più divisi, sotto tre padroni.

L’avvento del regime austriaco in Transilvania portò al trionfo del Cattolicesimo in un Paese dove le lotte di religione avevano avuto riflessi drammatici: parte dei Romeni ortodossi, per opera dei Gesuiti, furono indotti a divenire cattolici, pur conservando il rituale ortodosso; questa operazione politico-religiosa ebbe, come conseguenza non calcolata, il contatto con Roma che accentuò in alcuni preti romeni greco-cattolici il senso della propria latinità, destando con esso più propriamente il sentimento dell’autonomia nazionale. In seno agli ambienti ortodossi danubiani furono invece i Russi a essere visti come gli alfieri della rinascita contro il giogo ottomano. In un ambiente dove vigeva l’identità Nazione-confessione religiosa, la religione venne ad assumere la funzione di battistrada del risveglio nazionale. Scoppiarono delle rivolte, nel 1821 e nel 1848, ma invano.

România Revoluționară

Constantin Daniel Rosenthal, România Revoluționară (ritratto di Maria Rosetti), 1848, Museo Nazionale delle Arti di Romania, Bucarest (Romania)

Al Congresso di Parigi, nel 1856, per garantire maggiormente l’equilibrio europeo e impedire l’espansione russa verso Costantinopoli e i Balcani, l’Imperatore Francese Napoleone III e il Conte di Cavour, rappresentante della giovanissima Nazione Italiana, proposero la creazione di uno Stato Romeno indipendente e solido. Da parte di Cavour si valutava anche la possibilità di ulteriori reciproci incoraggiamenti nazionali tra Italiani e Romeni.

Nel 1858, le grandi potenze decisero la ricostituzione dei due Principati di Valacchia e di Moldavia. Agli inizi del 1859, i Romeni elessero come unico Voivoda di Valacchia e Moldavia il Colonnello Moldavo Alessandro Cuza. Egli si trovava così a capo di uno Stato dai confini convenzionali, tracciati sulla carta, che tra l’altro non comprendevano tutta la Romania odierna.

Nel 1878, il Congresso di Berlino sancì l’indipendenza romena; essa fu riconosciuta prima dall’Italia (dicembre 1879) e l’anno successivo dalle altre grandi potenze europee. Il 14 marzo 1881, il Parlamento di Bucarest proclamò la nascita del Regno di Romania!

I Romeni si trovavano così liberi e padroni, una volta per tutte, del proprio destino: essi offrivano di sé l’immagine di un popolo pastore e agricoltore per cultura, guerriero per necessità, intimamente congiunto in ogni suo impulso terreno o religioso alla vita della natura, solitaria e grandiosa. Nella lirica popolare, quella che tratteggia l’immagine più fedele e genuina dell’anima del popolo, il motivo dominante è quello del «dor», parola che designa un desiderio nostalgico: è ciò che provano l’innamorato lontano dalla fanciulla a lui cara, il pastore solo col suo gregge, l’esiliato e l’esule. «Il mio “dor”, dovunque si volga, / non v’è uccello che lo superi; / è più rapido del vento, / e del lampo e del pensiero». «Dovunque passo col mio “dor” / piangono le fronde del ruscello; / dovunque passo col mio duolo / piange l’erba della valletta». «Chi non ha amato sotto il sole / non sa quando sorge il “dor”, / né come la pena afferra, né come trafigge il dolore». «Ti arda il fuoco, o “dor”, / che m’hai ingiallito come il sambuco; / la fiamma ti arda, o “dor”, / che m’hai ingiallito come la cera». Naturalmente, la letteratura popolare romena è ricca anche di canti che accompagnano il lavoro e le festività, così come di proverbi, di indovinelli, di fiabe, di leggende (soprattutto sugli uccelli).

Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale trovò la Romania aderente alla Triplice Alleanza (con Germania, Austria e Italia). Ma, di fronte alla dichiarazione di neutralità italiana, anche la Romania dichiarò la propria, nel contempo intavolando trattative con l’Intesa per un intervento in suo favore; venne anche concluso un accordo di solidarietà italo-romena in caso di aggressione austriaca. Il 17 agosto 1916 fu firmata a Bucarest l’alleanza tra la Romania e l’Intesa; il 28 dello stesso mese, la Romania dichiarò la guerra alla sola Austria-Ungheria, e le sue truppe passarono il confine transilvano. Subito, però, sopravvennero le dichiarazioni di guerra tedesca, bulgara e turca. Stretto in una tenaglia tra il Danubio e i Carpazi Transilvani, l’esercito romeno subì una disfatta tremenda. Fu ricostituito in Moldavia, dove l’anno successivo respinse un’offensiva austro-tedesca, ma il successo fu vanificato dal crollo della Russia, dilaniata dalla Rivoluzione d’Ottobre. La Romania fu costretta a firmare l’armistizio col nemico, salvo riaprire le ostilità il 9 novembre 1918, quando gli Imperi Centrali erano ormai al collasso. Sotto la spinta delle rivendicazioni degli irredentisti, e in accordo coi vari trattati di pace, la Romania si annetté la Bessarabia (1918) e la Bucovina (1919) tolte alla Russia, più la Transilvania (1920) tolta all’Ungheria.

La «România Mare» («Grande Romania») era diventata uno Stato di 17 milioni di abitanti, di cui quattro milioni appartenenti a minoranze ungheresi, tedesche, ucraine, bulgare ed ebree, tutelate da impegni internazionali allegati ai trattati. Venne attuata una riforma agraria che ridistribuì le terre (più della metà della superficie coltivabile del Paese era di proprietà di circa 8.000 individui), concesso il suffragio universale, soppressa la censura, conclusi trattati di alleanza con gli Stati vicini, ma l’instabilità politica interna e la mancanza di adeguate misure di assistenza tecnica e creditizia causarono una grave crisi economica, giunta a tal punto che lo Stato non poteva nemmeno pagare i funzionari, mentre il crollo dei prezzi agricoli costrinse il Governo ad abbonare ai contadini il 70% dei loro debiti.

Dopo l’avvento al potere di Hitler in Germania (1938), anche in Romania si formò un movimento antisemita denominato «Guardie di ferro» fondato da un giovane esaltato di nome Corneliu Codreanu, che si rese responsabile di numerosi attentati, quali l’assassinio dei Primi Ministri Duca (1933) e Călinescu (1939). Il Sovrano ingaggiò una dura lotta per sciogliere il movimento e annientarlo (lo stesso Codreanu venne ucciso), ma con l’infeudamento prima economico e poi politico della Romania alla Germania le «Guardie di ferro» vennero amnistiate e lo Stato si orientò decisamente in senso filotedesco. All’inizio della Seconda Guerra Mondiale, la Romania dichiarò la propria neutralità, ma dopo il crollo della Francia dovette restituire la Bessarabia e parte della Bucovina alla Russia, la Dobrugia Meridionale alla Bulgaria e la Transilvania Settentrionale all’Ungheria. Tali restituzioni provocarono all’interno del Paese gravi contraccolpi; ne approfittò il Generale Antonescu, capo delle «Guardie di ferro», per impadronirsi del potere.

Egli schierò la Romania a fianco della Germania nazista. Nel giugno del 1941, l’esercito romeno invase l’Unione Sovietica a fianco delle truppe tedesche, e a ottobre riuscì a occupare Odessa. I territori tra il Dnestr e il Bug furono annessi alla Romania sotto il nome di Transnistria e servirono da luogo di deportazione degli Ebrei Romeni. Ma dopo la disfatta di Stalingrado e la resa dell’Italia, la Romania si risolse a chiedere la pace, firmando a Mosca l’armistizio il 23 agosto 1944; Antonescu venne arrestato. Il giorno precedente le truppe sovietiche avevano varcato i confini romeni senza incontrare alcuna resistenza, giacché l’esercito romeno non aveva imbracciato le armi o si era schierato al fianco dei Russi contro i Tedeschi e gli Ungheresi. Altri reparti di militari, oltre a numerosi civili, diedero invece vita a una guerriglia anticomunista che sarà duramente stroncata solo nel 1960.

Soldato rumeno sul Fronte Orientale

Soldato rumeno dell'esercito combattente sul Fronte Orientale, 21 giugno 1942, German Federal Archives, Coblenza (Germania)

Dopo un periodo di occupazione militare sovietica, la Romania (a cui era stata restituita, in sede di trattati di pace, la sola Transilvania Settentrionale) si trasformò in una Repubblica popolare retta da un Governo di tipo comunista, conformandosi alla condizione di Stato satellite dell’Unione Sovietica. Era un Paese povero e a economia arcaica, nonostante le abbondanti ricchezze minerarie che compagnie straniere avevano sfruttato nei decenni precedenti; la popolazione viveva prevalentemente dell’attività agricola, e ancora negli anni Ottanta l’insediamento rurale raggiungeva quasi la metà del totale. A partire dagli anni Cinquanta, però, la Romania fu interessata da uno sviluppo rapido e straordinario, superiore come tasso di incremento annuo a quelli di tutti gli altri membri del COMECON (un’organizzazione economica e commerciale dei Paesi socialisti): il settore industriale, per esempio, superò addirittura le aspettative dei piani quinquennali di Stato, grazie anche ai giacimenti petroliferi che garantivano l’autosufficienza energetica al Paese; nei primi anni Settanta il commercio estero raddoppiò, riguardando per metà i Paesi Occidentali. Besti pensare alla Dacia, azienda romena (ora acquistata dalla casa francese Renault) produttrice di autoveicoli esportati in Europa, in Africa e in alcuni Paesi Asiatici. Nei rapporti economici con l’Occidente e nelle questioni di politica estera la Romania seguì una sua linea abbastanza indipendente dalle scelte sovietiche: mantenne le relazioni con la Cina popolare quando quest’ultima era in forte attrito con l’Unione Sovietica, e condannò nel 1868 l’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del Patto di Varsavia. Negli anni Ottanta, la recessione mondiale e il conseguente aumento dei prezzi delle merci provenienti dall’Occidente costrinsero la Romania a dirottare i suoi rapporti commerciali sui Paesi socialisti.

La Romania era ancora in fase di ripresa quando venne «travolta» dall’onda della rivoluzione del 1989; ma, a differenza degli altri regimi comunisti dell’Europa Orientale, caduti senza spargimento di sangue, la rivolta iniziata a Timisoara si concluse con il processo sommario e l’emininazione del dittatore Nicolae Ceausescu e della moglie, evento ripreso dalla televisione e diffuso nel mondo intero. Era la notte della Vigilia di Natale. Per eccitare la folla al massacro, nei giorni precedenti erano stati fatti vedere in televisione dei corpi di cui si diceva fossero state vittime di torture a opera del regime; si trattava invece di cadaveri sui quali era stata fatta l’autopsia.

La Romania tornava così a far parte del mondo «occidentale», ma con un’economia inadeguata alle nuove regole del mercato. Anche la delocalizzazione sul suo territorio di alcune aziende estere non portò alcun rilevante beneficio, dato che le operazioni erano fatte non per dare lavoro alla popolazione, quanto per pagare salari più bassi e risparmiare sulle misure di sicurezza a cui avrebbero dovuto adeguarsi nei Paesi dell’Europa Occidentale (Italia «in primis»).

Il 1° gennaio 2007 la Romania entrò nell’Unione Europea. La crisi economica è grave, il cammino da fare per risollevarsi è ancora lungo e accidentato, ma il popolo romeno ha dato prova lungo tutta la sua storia di una grande tenacia, e si può sperare che possa tornare a vedere il sole di una nuova alba.


Date fondamentali della storia della Romania

101-107 dopo Cristo: la conquista della Dacia da parte di Traiano dà un’impronta latina che non sarà più cancellata nei secoli seguenti alla regione tra il Danubio, i Carpazi, il Nistro e il Mar Nero che verrà detta, proprio per questo, Romania («Terra dei Romani»).

270: lo sgombero della Dacia da parte dei Romani apre la regione alle invasioni dei barbari che però, più che stanziarsi in quelle terre, le attraverseranno.

Metà dei secoli XIII e XIV: si formano i due Principati di Valacchia e di Moldavia tributari ora dei Polacchi, ora degli Ungheresi, il primo dei quali andrà definitivamente, verso la fine del XIV secolo, sotto l’alta sovranità feudale del Sultano Ottomano.

1489: anche la Moldavia diviene tributaria dei Turchi.

1774: la Russia, imponendo alla Turchia sconfitta il trattato di Küciuk-Kainarge, fa dei due Principati Romeni una specie di condominio turco-russo che verrà ribadito nel 1827 e durerà sino al 1856.

1859: con la doppia elezione del Voivoda Cuza in Moldavia e in Valacchia, ha inizio la fusione dei due Stati che diventeranno la Romania.

1878: il Congresso di Berlino riconosce la totale indipendenza dello Stato Romeno.

1919: con la Rivoluzione Russa e la sconfitta degli Imperi Centrali la Romania acquista la Bessarabia e annette Bucovina e Transilvania realizzando la Grande Romania.

1940: durante la Seconda Guerra Mondiale inizia la crisi interna e internazionale dello Stato Romeno che, dopo la guerra e la sconfitta, diventerà nel 1947 una Democrazia popolare.

1989: cade il regine comunista.

2007: il 1° gennaio, la Romania entra a far parte dell’Unione Europea.

(marzo 2021)

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