Rapporti con la Jugoslavia e le nuove Repubbliche indipendenti
Una pervicace cooperazione a fondo totalmente perduto

Sono passati quattro decenni dalla scomparsa di Tito – avvenuta il 4 maggio 1980 – che parve aprire una nuova epoca nelle relazioni jugoslave con l’Occidente e nello sviluppo di una cooperazione che aveva trovato momenti di grande visibilità nel movimento dei «Non Allineati» e nelle frequenti visite di Stato rese a Belgrado dai leader di tutto il mondo, spesso col supporto di cospicui flussi finanziari. Tanti Paesi, a cominciare dalle grandi Potenze, avevano confidato nel funambolismo politico del vecchio Maresciallo, che aveva avuto un lontano inizio nella rottura del 1948 con Mosca, per giungere a un vero e proprio capolavoro tattico con l’aggregazione di 44 Paesi guidati dalla Jugoslavia – unico Stato Europeo del gruppo – in quel suggestivo coacervo del Terzo Mondo che affermava di propugnare l’affrancamento dei popoli oppressi.

L’Occidente aveva sperato che l’unione dei «Non Allineati» potesse costituire un fatto nuovo idoneo ad aprire nuovi orizzonti e a stemperare la guerra fredda con l’Unione Sovietica e le democrazie popolari, ma gli effetti più visibili furono le soddisfazioni dell’incessante ambizione personale di Tito e le continue iniezioni di mezzi finanziari nell’economia jugoslava, sebbene già votata al disastro. Con la scomparsa del satrapo di Belgrado le cose non cambiarono, nonostante le rinnovate illusioni occidentali: anzi, nel decennio intercorso fra la morte di Tito e la caduta del Muro di Berlino le trasferte in Jugoslavia si moltiplicarono, e contestualmente ebbero rinnovato impulso i flussi di denaro fresco in favore della sua economia, pur caratterizzata da un tasso d’inflazione che in quel momento si stava rivelando come il più alto d’Europa, senza dire di taluni scandali epocali.

I Grandi della Terra, prontamente imitati da altri Capi di Stato, offrirono amicizia e servigi, a cominciare dal Presidente Statunitense Jimmy Carter e dal Premier Francese Raymond Barre che furono i più solleciti, seguiti a breve distanza dal leader libico Muammar Gheddafi, da quello greco Andreas Papandreu, dal Presidente Egiziano Mubarak, e più tardi, dal Cinese Li Xian Nian. In seguito, si distinsero nella lista delle visite a Belgrado statisti del calibro di François Mitterrand e di Helmut Kohl, ma anche gli Italiani non furono da meno, a cominciare da Sandro Pertini e da Emilio Colombo, per non dire di Giovanni Goria, il cui Governo avrebbe elargito, all’inizio del 1988, un contributo «gratuito» pari a 500 miliardi di lire, che faceva seguito al rifinanziamento dell’impegno tedesco verso la Jugoslavia e all’apertura di una nuova linea di credito europeo per il tramite della BEI, pari a 660 milioni di dollari. In buona sostanza, Belgrado ebbe la ventura di accogliere un vero e proprio diluvio finanziario, ma senza poter scongiurare l’esito infausto; quanto alle donazioni dell’Occidente, sarebbero rimaste agli atti quale esempio clamoroso di un’azione politica all’insegna di pervicaci illusioni collegate a una sostanziale impotenza.

A proposito dell’Italia, vale la pena di ricordare che un altro suo Governo, quello di di Bettino Craxi, fu capace di definire la Repubblica Federativa quale «partner di assoluta preferenza» e di confermare tale opzione quando fece in modo che trovasse rifugio proprio a Belgrado un terrorista di prima grandezza come Abul Abbas, mente dell’attacco al transatlantico Achille Lauro e della proditoria uccisione di un passeggero statunitense, oltre tutto invalido, gettato in mare unitamente alla sua carrozzella.

Tali aperture facevano passare in seconda linea la sostanziale continuità della politica jugoslava con quella già perseguita da Tito: nessuno mosse un dito quando vennero condannati a lunghe pene detentive per reati d’opinione Gojko Dogo (colpevole di avere criticato il defunto Maresciallo), i «tredici» di Sarajevo (imputati per avere denunciato l’ateismo e il materialismo di Stato), i «sei» di Belgrado (accusati di azione antisocialista), il gruppo di «Mladina» (perseguito per presunte attività sovversive) e Thomas Mastnik (che aveva protestato contro le repressioni programmate dal Governo di Branko Mikulic con ricorso alla tortura). Nessuno avrebbe protestato nemmeno nel 1986, quando il pescatore italiano Bruno Zerbin venne ucciso nel Golfo di Trieste dalle raffiche di mitra sparate da una motovedetta slava nel corso della «guerra del pesce», caratterizzata dal consueto atteggiamento rinunciatario di Roma. Né vennero sollevate eccezioni di sorta nel 1987, quando il grande scandalo da cui venne investita Agrokomerc, l’Azienda di Stato del comparto agricolo, parve travolgere definitivamente il sistema dell’autogestione, tanto da indurre al suicidio, in segno di protesta per la clamorosa vergogna, qualche eroe della «grande guerra patriottica» contro le forze dell’Asse, come il vecchio Ljubiscia Veselinovic.

È proprio il caso di dire che la cooperazione con la Jugoslavia fu un esempio emblematico di surreali erogazioni a fondo perduto, non solo nell’epoca di Tito, ma a più forte ragione, nell’ultimo decennio di vita della Repubblica Federativa, quando i segnali di sfascio si andarono rapidamente moltiplicando fino a provocare secessioni come quelle di Croazia e Slovenia, che tra l’altro – non è male ricordarlo – vennero ratificate con maggioranze «bulgare» dalle apposite consultazioni popolari, quasi a sottolineare che il vecchio edificio era caduto come un castello di carte mettendo in evidenza la vera realtà storica: quella di un forte nazionalcomunismo, che del resto si era potuto manifestare chiaramente sin dai primordi con il supporto di una diffusa e occhiuta organizzazione poliziesca.

Non a caso, una volta consolidate le istituzioni statuali sorte sulle ceneri della vecchia Jugoslavia, il nuovo corso avrebbe dato prove scioviniste significative, tra cui si possono citare, a titolo di esempi, l’uso reiterato dello scalpello contro i segni della presenza veneta o italiana in Istria e Dalmazia; l’attentato al sacrario istriano di Cava Cise in memoria di 24 Caduti massacrati dai partigiani comunisti; i festeggiamenti di Albona per la ricorrenza dell’effimera «Repubblica Rossa» costituita nella primavera del 1921 sotto l’egida di Giuseppina Martinuzzi; la grande adunata nostalgica di Kumrovec per onorare Tito quale «padre della patria»; e infine, l’incidente diplomatico fra il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il suo omologo croato Stipe Mesic sulla questione delle foibe e delle violenze a danno degli Italiani, per non dire dell’ostracismo agli Esuli Istriani – peraltro preventivamente autorizzati dalla polizia slovena – che volevano deporre un fiore e recitare una preghiera sui luoghi dell’eccidio, e nel caso di specie sulla «foiba dei colombi».

Nel frattempo, in Italia si era dichiarato il «non luogo a procedere» nei confronti di Ivan Motika, Oskar Piskulic, Avianka Margetic e altri assassini, mentre negli ambienti dell’Estrema Sinistra si continuava a parlare degli infoibamenti alla stregua di un mito propagandistico, o al massimo, di una motivata reazione alle cosiddette violenze «fasciste» che secondo alcuni ex Parlamentari di Rifondazione Comunista come gli Onorevoli Luigi Malabarba e Gianfranco Pagliarulo avrebbero causato, vicende militari a parte, oltre 100.000 vittime (in realtà, nel ventennio compreso fra il 1922 e il 1941 le condanne capitali pronunciate a carico di terroristi slavi da parte del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato si erano contate sulle dita di una mano, essendosi limitate a quelle contro Vladimir Gortan e i «quattro» di Basovizza; e senza dire delle numerose commutazioni disposte da parte italiana dopo il voltafaccia jugoslavo del 27 marzo 1941 e l’occupazione della Jugoslavia compiuta dalle forze dell’Asse).

La storia corre in fretta: oggi, Slovenia e Croazia fanno parte dell’Unione Europea dopo gli osannati ingressi che ebbero luogo rispettivamente nel 2004 e nel 2013, almeno a parole con grande soddisfazione del mondo economico, interessato a congrui affari soprattutto nell’attività costruttiva e nell’interscambio. Tuttavia, anche se la storia, diversamente da quanto è stato sostenuto più volte, non serve a evitare gli errori del passato, spesso ripetuti con insistenza, è bene fare una valutazione oggettiva della realtà, con particolare riguardo a quelle di una Slovenia che per evitare i rischi di «default» fu costretta a chiudere diverse Ambasciate e a mettere in vendita importanti risorse storico-culturali; ovvero di una Croazia le cui condizioni, con la sola apprezzabile eccezione del turismo, presentano notevoli affinità con quelle degli anni Ottanta, obiettivamente disastrose, sottolineando come le nuove iniziative cooperatrici eventualmente realizzabili debbano essere attentamente calibrate e valutate senza indulgere a un’euforia aprioristica quanto meno immotivata.

Giovanni Sartori, nella sua finezza di politologo, si compiacque di affermare che «la sola esperienza che dà l’esperienza è che l’esperienza non dà alcuna esperienza» mentre qualche Esule illustre non manca di ricordare ai troppi immemori che siamo stati sempre «maestri nel fare gli interessi degli altri». Ecco un’amara verità su cui riflettere: farne tesoro nella memoria collettiva non risolve il problema di fondo, ma è sempre meglio che nulla.

(maggio 2020)

Tag: Carlo Cesare Montani, Josip Broz detto Tito, Movimento dei Non Allineati, Jimmy Carter, Raymond Barre, Muammar Gheddafi, Andreas Papandreu, Hosni Mubarak, Li Xian Nian, François Mitterrand, Helmut Kohl, Sandro Pertini, Emilio Colombo, Giovanni Goria, Bettino Craxi, Abul Abbas, Goiko Dogo, «tredici» di Sarajevo, «sei» di Belgrado, Gruppo Mladina, Thomas Mastnik, Branko Mikulic, Bruno Zerbin, Ljubiscia Veselinovic, Caduti di Cava Cise, Giuseppina Martinuzzi, Giorgio Napolitano, Stipe Mesic, Ivan Motika, Oskar Piskulic, Avianka Margetic, Luigi Malabarba, Gianfranco Pagliarulo, Vladimir Gortan, «quattro» di Basovizza, Giovanni Sartori, rapporti con la Jugoslavia e le nuove Repubbliche indipendenti.