I preti slavi tra fascismo e comunismo
La persecuzione del clero slavo sotto Mussolini e Tito

La dittatura di Benito Mussolini e il regime di Josif Broz Tito pur essendo due governi fondati su due ideologie radicalmente opposte quali sono il fascismo e il comunismo, presentano tuttavia in certe politiche diversi elementi comuni. In particolare, nei confronti rispettivamente degli Slavi e degli Italiani, i fascisti e i titoisti cercarono di attuare una politica di snazionalizzazione forzata che mirò a colpire quelli che erano i rappresentanti della comunità, ovvero gli insegnanti e il clero.

Negli anni in cui fu al potere, Mussolini cercò infatti di attuare nel confine nordorientale una «bonifica etnica» mettendo in atto una politica di discriminazione nei confronti degli Slavi attraverso una serie di decreti vessatori che prevedevano, ad esempio, il divieto di parlare lingue diverse dall’italiano. Tale azione discriminatoria venne attuata anche contro i membri del clero attraverso l’abolizione dell’uso della lingua slovena nella liturgia e nella catechesi. Come afferma infatti la Relazione della Commissione storico culturale italo-slovena riguardante i rapporti tra i rispettivi popoli dal 1880 al 1956: «L’azione snazionalizzatrice fascista si diresse anche contro la Chiesa Cattolica, dal momento che fra gli Sloveni – dispersi e in esilio i quadri dirigenti e intellettuali – fu il clero ad assumere il ruolo di punto di riferimento per la coscienza nazionale, in continuità con la funzione già svolta in epoca asburgica»[1].

Fin dai primi anni del cosiddetto «fascismo di confine», i sacerdoti sloveni e croati furono perciò oggetto di azioni mirate con aggressioni fisiche e devastazioni di canoniche. A partire dagli anni in cui Mussolini ottenne il potere assoluto, alle aggressioni squadriste si sostituì invece l’azione repressiva dello Stato con violenze e condanne al confino. Nel maggio del 1925 il congresso dei fascisti istriani dichiarò: «Il fascismo è dunque religioso e protegge la fede. Tuttavia, ci sono in questa regione sacerdoti che non sono italiani e che non comprendono che cosa significhi essere italiano e cocciutamente insistono nel celebrare le funzioni religiose in lingua slovena. Noi invece affermiamo che in Italia bisogna pregare solo in italiano». Il duro intervento delle autorità politiche ebbe l’effetto di spaccare la comunità cattolica tra gli Slavi da una parte e gli Italiani dall’altra, e tale spaccatura si aggravò a partire dal 1929 poiché la Santa Sede, di fronte alle opportunità della Conciliazione, fu infatti disponibile ad isolare le figure «scomode»: nel 1931 venne allontanato dalla propria sede, in seguito ad un provvedimento concordato tra le autorità politiche ed ecclesiastiche, il Vescovo di Gorizia, Monsignor Borgia Sedej, e la stessa sorte toccò al Vescovo di Trieste, Monsignor Luigi Fogar, nel 1936. Al loro posto fu chiamato Monsignor Carlo Margotti, prelato perfettamente allineato nei progetti di snazionalizzazione del fascismo[2].

Di fronte alla politica fascista, non desta perciò stupore il fatto che diversi membri del clero slavo accolsero con favore nel dopoguerra il passaggio di potere dalle autorità italiane alle autorità popolari jugoslave[3]: il 10 febbraio 1946, un gruppo di sacerdoti sloveni e croati aveva infatti inviato alla Commissione alleata per la delimitazione dei confini un memoriale nella quale si affermava che «il Litorale tutto intero va annesso alla Jugoslavia federativa»; mentre alcuni preti sloveni dei dintorni di Trieste avevano partecipato insieme alla delegazione jugoslava alla Conferenza di Pace di Parigi. Tuttavia, anche questi si accorsero ben presto che le benemerenze patriottiche non sarebbero bastate al clero slavo per metterlo al riparo dalla persecuzione religiosa[4].

Il regime del Maresciallo Tito, rifacendosi ad un’ideologia materialista qual è il comunismo, non poteva difatti tollerare la presenza di Chiese, specialmente se dipendenti da uno Stato estero come il Vaticano. Nei territori della Jugoslavia comunista si verificarono perciò violenze contro il clero cattolico di qualunque etnia che si manifestò attraverso arresti, minacce e violenze: il Vescovo di Lubiana, Antonio Vovk, venne arrestato nel 1945; il Vescovo di Zara, Pietro Doimo Munzani, venne espulso; il Vescovo di Ragusa, Giuseppe Carevic, scomparve e alcuni brandelli delle sue vesti vennero ritrovate in un pozzo con alcuni cadaveri in decomposizione, e nel 1946 venne inoltre condannato a 16 anni di lavori forzati il Primate di Croazia, Alojzije Stepinac, con l’accusa di collaborazionismo con gli ustascia (la vera causa del processo fu dovuta al rifiuto del prelato cattolico di costruire una Chiesa Nazionale Jugoslava separata da Roma)[5]. Nell’immediato dopoguerra centinaia di sacerdoti, sia italiani che slavi, scomparvero all’interno della Jugoslavia, e migliaia furono i parroci che ricevettero minacce ed intimidazioni nel corso della loro attività pastorale. Una parte di questi ecclesiastici imprigionati o uccisi, seppur limitata, proveniva dai territori italiani passati sotto amministrazione jugoslava[6] (basta pensare ai casi di Don Miroslav Bulešić o di Don Izidor Zavadlav). Occorre comunque ricordare che il numero di Slavi condannati dalle autorità fasciste nel corso di venti anni fu notevolmente inferiore al numero di Italiani che subirono condanne da parte dei comunisti jugoslavi nel 1943 e nel 1945: le condanne a morte di Slavi comminate dal Tribunale Speciale Fascista furono una ventina a fronte delle migliaia emesse dagli Jugoslavi.[7]

Le vicende del confine nordorientale hanno a volte generato polemiche tra chi accusa di voler rimuovere, attraverso la commemorazione delle vittime di parte italiana o jugoslava, il ricordo degli eccidi compiuti dai fascisti o dai comunisti. Si spera nel prossimo futuro che il raffreddamento delle discussioni politiche permetta di analizzare meglio il passato e di ricordare le persone innocenti che subirono le repressioni di entrambi i totalitarismi.


Note

1 Problemi per il clero sloveno risiedente in Italia si verificarono anche dopo la caduta del fascismo dato che, secondo la Relazione della Commissione italo-slovena, nel dopoguerra questo «incontrò difficoltà sia con le autorità civili sia con quelle religiose diocesane nell’affermare il proprio ruolo di riferimento per l’identità degli Sloveni della Slavia Veneta a partire dall’esercizio dei suoi compiti pastorali in lingua slovena». Per quanto riguarda invece la politica del Maresciallo Tito, si deve rilevare che nell’immediato dopoguerra le autorità jugoslave erano intenzionate ad effettuare una forte epurazione nei confronti della popolazione italiana, tollerando solamente la presenza di una comunità ridotta e politicamente conforme agli orientamenti ideologici e nazionali del regime. Come similmente avevano fatto i fascisti contro il clero sloveno, le autorità popolari si accanirono perciò contro il clero italiano in quanto punto di riferimento della comunità che si voleva snazionalizzare. L’attacco contro i sacerdoti inoltre si mischiò con la politica antireligiosa attuata dai comunisti. Come afferma infatti la Relazione della Commissione italo-slovena: «Allo stesso modo, la persecuzione religiosa del regime assunse nei confronti del clero italiano, che costituiva un elemento chiave per la difesa dell’identità nazionale, un’oggettiva valenza snazionalizzatrice».

2 Confronta Gianni Oliva, Foibe, Milano 2000, pagine 43-44.

3 L’atteggiamento del clero sloveno nei confronti dei partigiani comunisti variò a seconda delle zone. Se nella provincia di Lubiana le forze anticomuniste trovarono il sostegno di buona parte della Chiesa locale, nelle provincie di Trieste e Gorizia il clero sloveno sostenne invece largamente il movimento di liberazione, ottenendo per questo promesse di rispetto che il regime di Tito si guardò bene dal mantenere. Confronta Raoul Pupo, Trieste ’45, Bari 2010, pagine 16-17.

4 Confronta Raoul Pupo, Il lungo esodo, Milano 2005, pagine 168-169.

5 La figura di Stepinac ha diviso la storiografia tra gli studiosi che ritengono che il Cardinale fosse stato effettivamente complice dei crimini del regime di Ante Pavelic, e tra chi invece lo ritiene un martire del comunismo. Tra gli elementi noti vi è il fatto che Stepinac accolse con favore nel 1941 la nascita di uno Stato Croato separato da Belgrado; ma sono accertati anche gli interventi del Vescovo a favore di Serbi, Ebrei e zingari, le principali vittime dei massacri degli ustascia. È certo anche che il procedimento intentato contro il Vescovo nel dopoguerra non fu affatto equo, ma fu un processo-farsa dovuto al rifiuto del Primate di collaborare con il Maresciallo Tito, come ammise anche un ex esponente di primo piano del regime, Milovan Gilas, che dichiarò che il problema di Stepinac non fu «la sua politica verso gli ustascia, ma quella verso i comunisti».

6 Confronta Guido Rumici, Infoibati (1943-1945), Milano 2002, pagine 299-300.

7 Durante la guerra contro i partigiani jugoslavi le autorità fasciste adottarono delle drastiche misure repressive comprendenti fucilazioni, incendi di villaggi e deportazioni in campi di prigionia che provocarono la morte di diverse migliaia di persone. Sbaglia, tuttavia, chi ritiene che gli «eccidi delle foibe» fossero nient’altro che una risposta alle atrocità italiane: come hanno rilevato gli storici, esse furono una sorta di «epurazione preventiva» volta ad eliminare i possibili oppositori del nuovo regime. Non è difatti un caso che tra le vittime delle foibe vi furono anche non pochi partigiani «colpevoli» di opporsi alle mire espansionistiche del Maresciallo Tito.

(dicembre 2017)

Tag: Mattia Ferrari, fascismo, comunismo, Mussolini, Tito, Chiesa Cattolica, Borgia Sedej, Luigi Fogar, Carlo Margotti, Antonio Vovk, Pietro Doimo Munzani, Giuseppe Carevic, Alojzije Stepinac, Milovan Gilas, Miroslav Bulešić, Izidor Zavadlav, totalitarismo.