Presenza italiana in Istria
L’attività mineraria dalla grande espansione alle foibe

La tradizione estrattiva della Venezia Giulia, e più specificamente dell’Istria, risale alla notte dei tempi: marmi e pietre del comprensorio erano noti sin dall’antichità classica, essendo stati impiegati nelle massime opere locali, a cominciare dall’Arena di Pola, ed in altri grandi lavori come il Mausoleo di Teodorico a Ravenna, per proseguire con le prestigiose commesse della Repubblica di Venezia, ed in età moderna con quelle dell’Impero Asburgico. Del resto, anche oggi la produzione e l’esportazione di lapidei grezzi e lavorati sono un fiore all’occhiello dell’economia locale.

L’industria mineraria, che in questa sede è oggetto di più specifica attenzione, in quanto relativa a materiali di prima categoria, ed in quanto tali di interesse strategico, vanta tradizioni altrettanto importanti e vecchie di secoli. In particolare, il distretto di Albona è stato oggetto di attività produttive e distributrici durante la presenza della Serenissima, e più tardi, durante il breve intermezzo francese che diede il primo impulso modernamente industriale, ma lo sviluppo di gran lunga più importante si ebbe nell’ultimo trentennio della dominazione austriaca: nell’Albonese, già nel 1881 il volume estratto raggiunse le 90.000 tonnellate, con livelli occupativi assai elevati per l’epoca e con l’avvento di una maturità sindacale avanzata. Basti dire che la prima società operaia di mutuo soccorso era stata fondata sin dal 1867, e che dal 1883 in poi si ebbe una nutrita serie di scioperi, interrotti soltanto dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale; in effetti, le condizioni di lavoro erano molto dure, con la giornata lavorativa di 12 ore, con retribuzioni inferiori a quelle dei maggiori Paesi minerari e con un sistema di «welfare» istituzionale praticamente nullo.

Nel dopoguerra, con la nuova sovranità italiana e la disponibilità di capitali freschi, si ebbe qualche miglioramento nella gestione industriale e nelle politiche d’investimento, ma la conflittualità sindacale rimase elevata: è di quel periodo la costituzione dell’effimera Repubblica Rossa di Albona che si riconosceva nella mitica leadership di Giuseppina Martinuzzi.

A partire dalla costituzione del nuovo Governo Fascista, le sorti produttive dell’Istria volsero rapidamente verso una crescita quasi esponenziale, dapprima attraverso la Società Mineraria dell’Arsia, ed a far tempo dal 1935, con la sua fusione nell’Azienda Carboni Italiani (ACAI). Anzitutto, si ebbe una notevole proliferazione dei nuclei estrattivi: accanto alle miniere storiche dell’Albonese, ai nuovi pozzi contigui di Carpano, Pozzo Littorio, Ripenda, Stermazio e Vines, ed alla funzionale discenderia di Valmazzinghi, si unirono quelli di Chersano e Pedena in agro di Pisino. La produzione, che nel 1921 era ancora ristretta a 100.000 tonnellate di carbone ed a 40.000 di minerale d’alluminio, in un ventennio giunse rispettivamente a 1,2 milioni ed a 380.000 tonnellate, con un’accelerazione più significativa dal subentro di ACAI. Dal canto suo, l’occupazione fece registrare incrementi altrettanto spettacolari, con un organico salito dalle 2.300 unità del 1935 alle 11.000 del 1940.

Il 4 novembre 1937, diciannovesimo anniversario della Vittoria, venne inaugurata Arsa, la nuova città di fondazione voluta dal Governo assieme alle altre 146 distribuite su tutto il territorio nazionale (di cui alla puntuale catalogazione di Antonio Pennacchi), per ospitare dirigenti, impiegati ed operai e costituire, anche per questa via, un nucleo organico di cooperazione e di osmosi, in qualche misura interclassista. Arsa ebbe naturalmente una chiesa, un teatro, un dopolavoro, e tutti i servizi sociali necessari al buon funzionamento di tutta la comunità, nel quadro di una politica rivolta, non tanto alla massimizzazione del profitto quanto a quella del prodotto (non si deve dimenticare che l’Italia non aveva risorse importanti di rilievo, fatta eccezione per quelle della Sardegna, della Toscana, ed in misura minore, della Sicilia).

In questo contesto di sviluppo, durante il cosiddetto periodo di «non belligeranza» sopravvenne la terribile sciagura del 28 febbraio 1940, in cui, per cause tecniche mai chiarite definitivamente, 185 uomini persero la vita nella miniera di Arsa: cifra mai superata in Italia, anche se nel dopoguerra seguito al Secondo Conflitto Mondiale, ed in condizioni tecnologiche certamente più avanzate grazie al progresso della ricerca, se ne ebbero altre non meno dolorose, fra cui quella di Ribolla del 1954, per non parlare della tragedia belga di Marcinelle tra le cui vittime si contarono 128 minatori italiani, e di tante altre sciagure avvenute in tutto il mondo sino ai giorni nostri, dalla Cina agli Stati Uniti, dalla Germania al Sudafrica, dall’India alla Gran Bretagna, dalla Francia alla Turchia, e via dicendo (talvolta, con cifre di caduti largamente superiori a quella istriana del 1940).

Del resto, sempre ad Arsa, dopo la ripresa della produzione ad opera della mano pubblica jugoslava una volta intervenuto il trasferimento di sovranità formalizzato nel Trattato di pace, si sarebbe verificata una nuova sciagura già nel 1948, con altri 92 morti, fra cui molti Tedeschi «trattenuti in stato di prigionia ed in regime di lavori forzati»[1].

La storia di Arsa aveva conosciuto una tragica stagione di sangue anche durante la plumbea vicenda delle foibe, con particolare riguardo alla cosiddetta «prima ondata» dell’autunno 1943, scatenata in Istria, a Fiume ed in Dalmazia all’indomani dell’8 settembre e della resa incondizionata italiana, cui aveva fatto seguito il disfacimento dello Stato e del principio di autorità. Fra i tanti «colpevoli di italianità» che caddero, massacrati nelle foibe, precipitati nelle cave, annegati nelle acque dell’Adriatico od altrimenti «liquidati» dai partigiani comunisti di Tito, si annoverano parecchie decine di dirigenti, impiegati ed operai dell’ACAI[2]: per la maggior parte infoibati a Vines, ma anche a Cregli od a Terli, od uccisi a Fianona, a Pozzo Littorio, a Santa Marina di Albona ed in altre località del comprensorio. Alcuni vennero eliminati più tardi, ed in qualche caso a guerra finita, mentre altri riuscirono a salvarsi grazie all’Esodo degli ultimi 16 mesi di conflitto, con particolare riguardo a tanti immigrati, segnatamente da Sardegna, Toscana e Sicilia, ma anche dalle altre regioni settentrionali.

Tra le vittime della «prima ondata» si deve ricordare, a titolo di esempio emblematico, l’Ingegner Alberto Picchiani, Direttore tecnico del complesso[3], infoibato a Vines il 5 ottobre 1943, il cui ultimo grido sull’orlo della voragine, in faccia agli assassini, fu dedicato eroicamente alla Patria: «Viva l’Italia!».

L’attività produttiva nelle miniere istriane è cessata da oltre un ventennio, dopo un lungo periodo di decadenza dovuta alla concorrenza, soprattutto extra-europea, ma nello stesso tempo alla gestione sempre più precaria indotta dalla crisi economica e politica della Jugoslavia; del resto, anche in Italia, dove sopravvivono poche produzioni di nicchia, le cose non sono andate per il meglio. Nondimeno, vale la pena rammentare il grande contributo storico che l’industria estrattiva e trasformatrice diede allo sviluppo dell’Istria, assieme a quelle del cemento, della silice e del settore alimentare, per non dire della creazione di varie infrastrutture di base, alcune delle quali ne sono tuttora viva testimonianza.

Nello stesso tempo, è altrettanto doveroso ricordare alla comune «pietas» le vittime di grandi tragedie epocali, in ossequio a valori di civiltà e giustizia che prescindono da latitudini e longitudini perché appartengono al patrimonio etico dell’umanità degna di questo nome.


Note

1 Antonio Venturin, Istria, Arsia ed altre tragedie dimenticate, Edizioni New Print, Fossalta di Portogruaro 2014, pagina 182. La pubblicistica settoriale ha insistito spesso sulle presunte responsabilità del Governo Fascista circa la sciagura del 1940, ma ha potuto solo ascriverle ad una politica di intenso sviluppo industriale indotta dalle forti esigenze energetiche statali: una realtà assimilabile a quella di parecchi altri Paesi. In effetti, le fonti più recenti non hanno potuto negare che «Arsa era una bella cittadina creata dal nulla» dove «il Regime aveva voluto che non mancasse niente» (ibidem, pagina 133).

2 L’incrocio ragionato delle fonti più autorevoli, con particolare riguardo all’Archivio Valentini (Internet), all’elenco nominativo dei martiri infoibati od altrimenti massacrati dai partigiani di Tito (Luigi Papo, Albo d’Oro, Edizioni Unione degli Istriani, Trieste 1989) ed alla ricerca di Antonio La Perna (Pola Istria Fiume 1943-1947: l’agonia di un lembo d’Italia e la tragedia delle foibe, Edizioni Mursia, Milano 1992), permette di affermare che le vittime infoibate od altrimenti massacrate, appartenenti all’organico ACAI del sistema minerario dell’Arsia, furono non meno di 60 (ma gli elenchi disponibili nelle fonti menzionate non possono ritenersi esaustivi).

3 L’Ingegner Alberto Picchiani, un Fiorentino che non era politicamente impegnato, era stato trasferito d’ufficio dalla Versilia, dove operava alle dipendenze di un’importante società marmifera leader nel suo settore: ciò, al pari della prassi seguita per vari altri dirigenti, impiegati e capi reparto che provenivano da diverse zone italiane. Tra i suoi meriti riconosciuti (alla memoria del caduto è stata conferita la Medaglia di cui alla Legge 30 marzo 2004 numero 92) c’è anche quello di avere dato un contributo importante alla cooperazione tra le maestranze italiane e jugoslave. I resti mortali di questa nobile figura patriottica, come quelli di altre vittime della «prima ondata» (dopo la successiva di fine guerra non si ebbe modo di effettuare ulteriori prospezioni nelle foibe dell’Istria, in quanto le ricerche vennero impedite dalla definitiva occupazione slava), furono recuperati alcune settimane dopo la strage dalla squadra dei vigili del fuoco comandata dall’eroico Maresciallo Arnaldo Harzarich e traslati nel cimitero di Forte dei Marmi, dove riposano tuttora.

(gennaio 2016)

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