Germania: nuove nubi all’orizzonte
Dalla tragedia del 1945 al primato europeo e alla crisi del 2022

Al termine di quasi sette anni di sanguinosa belligeranza, iniziata il 1° settembre 1939 con l’attacco alla Polonia, il Terzo Reich non ebbe altra scelta se non quella della resa incondizionata. La firma avvenne in data 8 maggio 1945 da parte dall’Ammiraglio Karl Doenitz, il nuovo Presidente dell’effimero Governo subentrato pochi giorni prima a quello di Adolf Hitler, e letteralmente azzerato due settimane dopo, quando la Germania si trovò divisa, nella sostanza e nella forma, in quattro zone di occupazione amministrate in via separata dalle Potenze Alleate (Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti, Unione Sovietica). La medesima spartizione fu riservata a Berlino, che costituiva una sorta di «enclave» nel territorio orientale controllato dall’Armata Rossa, e che proprio per questo avrebbe creato non pochi problemi strategici e politici durante gli anni successivi. Il «Crepuscolo degli Dèi» di wagneriana memoria non avrebbe potuto assumere dimensioni più tragiche e palesemente umilianti, ma le «colpe» che la Germania era chiamata a scontare avevano assunto grande rilievo mediatico, sia sul piano morale sia su quello giuridico.

La prima conseguenza, largamente peggiorativa anche rispetto a quella pur durissima imposta nel novembre 1918 al termine della Prima Guerra Mondiale, fu la perdita totale di sovranità e di unità territoriale: in pratica, lo Stato aveva cessato di esistere. Tale azzeramento delle istituzioni si protrasse per un intero quadriennio e, per l’esattezza, fino al 23 maggio 1949, quando gli Alleati Occidentali riconobbero la Repubblica Federale Tedesca, mentre nella zona orientale era sorta, specularmente, la Repubblica Democratica, con una divisione che sarebbe durata fino al 1990, quando la caduta del Muro di Berlino, avvenuta a furor di popolo, mise termine alla frattura fra l’una e l’altra, che non dispiacque a Giulio Andreotti quando disse di «amare tanto la Germania da preferire che ve ne fossero due» ma che ebbe carattere oggettivamente antistorico.

Un primo contributo importante al ripristino della sovranità, sia pure limitata al fattore monetario, era stato acquisito nel 1948 con l’introduzione del «nuovo» marco e il recupero di un mezzo autonomo di supporto finanziario all’economia di scambio, che avrebbe finalmente consentito di archiviare la triste moneta d’occupazione.

Il percorso di recupero fu completato il 20 settembre 1949 quando, a seguito di regolari elezioni, la Repubblica Federale si diede il primo Governo del dopoguerra sotto la Presidenza cristiano-democratica del Cancelliere Konrad Adenauer e con l’ausilio della nuova Costituzione. Più tardi, la Germania sarebbe stata ammessa nel rinnovato consesso europeo entrando a far parte, nel 1951, della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio), la prima Organizzazione comunitaria della futura Unione. Se non altro nelle strutture di base, e nel riconoscimento da parte della comunità internazionale, la ricostruzione era un fatto compiuto, che trasse nuovo slancio dall’impegno liberale di Ludwig Ehrard e dai suoi 14 anni di governo propulsivo dell’economia, protrattosi fino al 1963.

Sul piano umano e su quello socio-economico, l’effetto più visibile della lunga e sanguinosa guerra mondiale, caratterizzata da momenti assai drammatici anche sul fronte interno, fu l’esodo della popolazione tedesca dai comprensori orientali, a fronte di provvedimenti indiscriminati di espulsione dai territori trasferiti sotto la sovranità altrui, come la Slesia, il Brandeburgo e la Pomerania, passati a Polonia e Unione Sovietica (nella zona occidentale, la Saar, che sarebbe stata restituita alla «nuova» Germania nel 1955, non vide accadere alcunché di assimilabile). L’esodo si estese a circa 16 milioni di profughi che persero la vita nella misura di un quinto durante una drammatica anabasi dalle dimensioni bibliche, iniziata nell’inverno del 1944 a fronte delle avanzate compiute dall’Armata Rossa in territorio del Terzo Reich. Si aggiunsero i ritorni forzati di vecchie emigrazioni come quelle dei Sudeti o dei «Tedeschi del Volga» che a suo tempo si erano stabiliti nella Russia Sud-Orientale e che furono implacabilmente cacciati, sebbene si fossero ormai «naturalizzati» nei luoghi d’insediamento.

Non fu firmato il trattato di pace con gli Stati vincitori, per cui si sarebbe dovuto attendere addirittura il 1990. Ciò avvenne per la discrasia tra le due Repubbliche tedesche di opposta estrazione politica, e prima ancora, tra i protagonisti della «Guerra fredda» che aveva toccato livelli di forte tensione a causa del blocco di Berlino (il cui unico collegamento con l’Occidente era rimasto quello aereo) e delle tragiche fughe dall’Est che avrebbero provocato un elevato numero di vittime, la cui effettiva quantificazione è rimasta sconosciuta (le stime indicano in parecchie centinaia il numero dei caduti nel tentativo di raggiungere la zona occidentale della sola Berlino). In effetti, il mezzo secolo intercorso tra la fine delle ostilità e la firma del trattato dimostra con quanti lutti e con quali difficoltà la Germania uscita dalla guerra si dovesse confrontare.

Il Paese era ridotto in condizioni disastrose, non solo per le enormi perdite umane, incolmabili nel breve e medio termine, ma anche per la distruzione delle infrastrutture, delle attività produttive e della stessa edilizia civile. In tale ambito, la necessità di avviare una possibile ripresa partendo proprio dalle infrastrutture e dall’industria pesante, indusse uno sviluppo economico ad ampio spettro, sebbene circoscritto in larga maggioranza alla Repubblica Federale di Bonn, dove la differenza decisiva fu apportata dai programmi occidentali di aiuto, a cominciare dal Piano Marshall e dalla scelta, imposta in primo luogo dagli Alleati, di intervenire prioritariamente nella base industriale e di bandire qualsiasi investimento di natura militare, politicamente precluso e sostanzialmente improduttivo ai fini del «new deal». In realtà, la preferenza attribuita agli investimenti in grado di promuovere un tasso accelerato di sviluppo ebbe un ruolo di fondamentale importanza nella ripresa.

Tra le conseguenze che il Secondo Conflitto Mondiale avrebbe lasciato nella struttura politica e sociale della «nuova» Germania, si deve menzionare il ruolo esercitato sulle scelte collettive in senso realmente democratico: al riguardo basti dire che tutte le consultazioni elettorali dal dopoguerra in poi avrebbero visto una ricorrente alternanza delle forze moderate o progressiste capaci di riconoscersi nella Costituzione e nella dialettica parlamentare, se del caso ricorrendo alla «Grande Coalizione» (come nella nuova intesa intervenuta a fine 2013 con la stipula del «contratto» governativo di legislatura) e ripudiando, già dal programma socialdemocratico di Bad Godesberg, ogni suggestione massimalista. Analogamente, nel territorio della vecchia Repubblica Democratica di stampo sovietico il ripudio dello «Stato partito» dopo la svolta storica del 1990, propedeutico alla riunificazione, fu altrettanto categorico, per motivazioni della stessa matrice.

La Germania unita ha mantenuto a lungo il rango di «locomotiva europea» e quello, economicamente decisivo, di massima realtà esportatrice, nonostante i costi produttivi tipici di un Paese sviluppato. Ciò si deve alla massimizzazione della produttività, a rapporti di lavoro scarsamente conflittuali, agli investimenti oculati e al controllo funzionale del debito pubblico, ma in misura non marginale, anche all’esperienza «formativa» della guerra, della ricostruzione, dell’impegno, e in definitiva, di un moderno e consapevole senso dello Stato, cui non era estranea la grande filosofia idealistica.

Il disastro totale del 1945, diversamente da quanto era accaduto nel 1918, ha indotto una profonda modificazione del cosiddetto «spirito del popolo» anche dal punto di vista filosofico, pur salvaguardando i momenti fondamentali del criticismo kantiano e dell’idealismo hegeliano, con particolare riguardo a quelli dell’autocoscienza che assurge a valore, nella matura e piena consapevolezza del suo inserimento in una sintesi capace di superare ogni forma d’individualismo e di assumere la dimensione superiore dell’«ethos». Sul piano politico, questo percorso si è tradotto, nella parte occidentale del territorio tedesco, in un forte ripudio della violenza come strumento di azione politica, e dall’altra, come avrebbe detto il politologo francese Jean François Revel a proposito della Germania Orientale, in quello di un collettivismo coatto a sfondo marxista, destinato a tradursi in «un quarantennio di marcia verso il nulla».

Libera da sovrastrutture ideologiche, ma consapevole del suo ruolo propulsivo, la Germania contemporanea ha conquistato il ruolo di un grande Stato moderno, la cui «leadership» europea – almeno sul piano economico – è rimasta fuori discussione, mentre il suo esempio di tutela dei diritti umani, coniugato con un ragionevole pragmatismo nella gestione della cosa pubblica alla luce d’impegni generalmente condivisi, ha costituito un utile paradigma di riferimento e, se non altro, un modello di buon senso da meditare e per quanto possibile, da iterare. Nondimeno, l’imprevisto è sempre dietro l’angolo, e le ultime vicende ne hanno data una probante dimostrazione, aprendo prospettive per molti aspetti imprevedibili.

Le condizioni della Germania sono cambiate in maniera netta, e nello stesso tempo subitanea, con lo scoppio del conflitto russo-ucraino (24 febbraio 2022) e col suo progressivo avvitamento in una prospettiva di lungo termine, resa a più forte ragione precaria dall’impossibilità di programmare un assetto successivo improntato, se non altro, alla logica della cooperazione e del comune interesse. In proposito, la dipendenza energetica tedesca dalle risorse russe, accentuata dalla progressiva chiusura delle proprie miniere carbonifere, sebbene parzialmente compensata dagli investimenti alternativi, ha condizionato in modo immediato le attività produttive con aggravio di costi e con riflessi negativi sulla tradizionale vocazione esportatrice. D’altra parte, il forte vincolo con l’alleanza atlantica, sostanzialmente inderogabile sin dai tempi dell’ardua ma efficace ripresa del dopoguerra, non ha permesso al Paese di operare con l’opportuna autonomia nella congiuntura «straordinaria» del 2022, rivelando un condizionamento di base, tale da renderla non troppo dissimile, con una metafora di frequente utilizzo anche altrove, dalla tradizionale «anatra zoppa».

La divisione del mondo in blocchi separati e distinti, o peggio ancora, talmente competitivi da ridurre lo stesso ruolo dell’ONU in difesa della pace mondiale a quello di una semplice «voce nel deserto», non avrebbe potuto essere più chiara. Ne è conseguito un facile successo dei «falchi» tale da mettere all’angolo ogni iniziativa di pace, che sin dalle prime fasi del conflitto è stata sostanzialmente vanificata da entrambe le parti, nonostante taluni sforzi oggettivamente commendevoli come quelli della Turchia. In queste condizioni, il rischio di prosecuzione del conflitto a medio e lungo termine, che diversi osservatori hanno paventato, è tutt’altro che teorico, con gli effetti a cascata che ne stanno derivando a livello mondiale, sia sul piano economico, sia su quello dei maggiori rischi militari.

Come in altri grandi Paesi dell’Unione Europea, iniziando dall’Italia, anche in Germania si è cercato di sopperire alle nuove, gravi difficoltà in materia di energia. L’obiettivo è stato perseguito tramite approvvigionamenti da Paesi terzi, con tutte le difficoltà derivanti dalle naturali vischiosità del mercato, dalla fisiologica produttività degli investimenti estrattivi proiettata dovunque nel lungo termine, e prima ancora, dall’immediato aumento dei prezzi, e conseguentemente dei maggiori oneri a carico delle attività trasformatrici, come quelle presenti massicciamente in vari Paesi del Vecchio Continente, ma soprattutto in Germania (per non dire della stessa Italia, caratterizzata da una presenza notevolmente più ampia delle piccole imprese).

Dal canto suo, la Russia ha avuto buon gioco nel trasferire ad altri acquirenti le quote conseguentemente inevase della sua produzione energetica, con immediato potenziamento dei rapporti commerciali con Cina, India e Paesi in via di sviluppo, riducendo con buon successo l’effetto negativo delle sanzioni promosse dall’Occidente, alcune delle quali sono rimbalzate a danno degli Stati che le avevano promosse senza considerare l’effetto «boomerang» pressoché scontato. Nondimeno, la dipendenza europea dalla «leadership» americana è di tale rilievo da rendere velleitaria qualunque ipotesi di sganciamento, fatta eccezione per qualche caso marginale come quelli dell’Ungheria e della Serbia (peraltro, quest’ultimo Paese non fa parte dell’Unione).

La politica delle sanzioni inaugurata dall’Occidente dopo l’inizio delle operazioni militari ha dato luogo a una lunga serie di provvedimenti accompagnati dalle continue forniture di armi e di mezzi finanziari all’Ucraina. Ne sono scaturiti effetti a cascata nel potenziamento delle operazioni militari, ma nello stesso tempo, senza apporti di rilievo (salvo qualche apprezzabile tentativo turco e qualche invocazione vaticana) alle strategie per giungere, se non altro, al «cessate il fuoco» necessario ad aprire una pur difficile trattativa di pace. Nel caso della Germania si è giunti a qualche conseguenza paradossale, come quella concernente la fornitura alla Russia di un’infrastruttura indispensabile alla manutenzione straordinaria del gasdotto, bloccata dal regime sanzionatorio col duplice risultato di indurre pesanti conseguenze economiche per il fornitore, e di dare al Cremlino un argomento di grande rilievo mediatico per ridurre o per azzerare il flusso delle forniture, con effetti di tutta evidenza sul sistema economico, «in primis» proprio della Germania.

Le valutazioni economiche internazionali, anche a prescindere da questo episodio, sono state concordi nel rilevare che l’effetto «boomerang» delle sanzioni appare largamente maggioritario per i Paesi Europei, mentre per gli Stati Uniti si è rivelato oggettivamente minoritario per ragioni di ogni evidenza, in primo luogo geografica. Ciò, senza trascurare quelle di natura finanziaria, industriale e sociale: in quest’ultimo caso, se non altro, per le ovvie ricadute in campo occupazionale, che hanno penalizzato l’Europa mentre Washington ha tratto vantaggio dalla crescita delle proprie forniture energetiche. Per usare un’altra metafora, il paragone con quel personaggio che, per punire la consorte di colpe gravi o presunte tali, si sarebbe tagliato gli attributi, può sembrare a prima vista paradossale, ma rende bene l’idea di un comportamento dell’Unione per lo meno affrettato, e talvolta francamente dannoso.

Non c’è che dire. In Germania le conseguenze dell’invasione russa in Ucraina sono state doppiamente traumatiche rispetto a quelle che hanno danneggiato gli altri grandi Paesi Europei, perché in un colpo solo ne è scaturita la fine della lunga «Ostpolitik» inaugurata con indubbia lungimiranza da Willy Brandt. Lo stesso può dirsi per quella proseguita dai suoi successori che talvolta sono stati così abili da farne lo strumento di legittimi successi personali, come si è verificato per Gerhard Schroeder, nel momento in cui decise di abbandonare l’attività politica per dedicarsi agli affari. Ciò, senza dire di Mikhail Gorbaciov e del suo tentativo di spingere il leader vetero-comunista della Repubblica Democratica Tedesca, Erich Hoenecker, verso un’improbabile conversione alla «perestrojka» nell’istante in cui, giungendo a Berlino alla vigilia degli eventi che finirono per distruggere il Muro, lo mise in guardia circa l’impossibilità di porre un freno al nuovo corso della storia, tanto più ineluttabile perché sostenuto dalla volontà popolare.

Non meno evidente, infine, è la svolta compiutasi dopo la cosiddetta «epoca» di Angela Merkel, chiusa in concomitanza con la nuova guerra scoppiata tra «cugini» ex sovietici, dopo una difficile opera di mediazione tra l’alleanza con l’Occidente e l’occhio di riguardo per la nuova Russia post-comunista; e nello stesso tempo, di nuovi successi per la vecchia «locomotiva d’Europa» ma pur sempre leader dell’export dal Vecchio Continente. Quel periodo vide una Germania ormai convinta di dover ripristinare e conservare una politica di costante amicizia col Cremlino, che era suffragata dalle consolidate esperienze di una Russia invincibile non solo per Hitler, ma prima ancora per Napoleone e per Carlo XII di Svezia, se non altro grazie alle straordinarie dimensioni del Paese, corroborate dal ruolo del «Generale Inverno» e quindi, dall’arma «gratuita» costituita da invasioni condannate all’insuccesso per semplice fatto naturale, a conferma di un primato della geopolitica che in taluni casi assume un ruolo decisivo; ma nello stesso tempo, della ricorrente incapacità di comprendere grandi errori storici, e di trarne lezioni probanti.

Bisogna aggiungere che una forte maggioranza del popolo tedesco, secondo diffuse interpretazioni non solo storiografiche, avrebbe manifestato anche a lungo termine un vivo «senso di colpa» per la guerra scatenata dal nazionalsocialismo, con riguardo prioritario a quella contro la Russia, tradotta – stando a stime sufficientemente attendibili – in almeno 23 milioni di caduti da parte sovietica, e oltre sette da parte tedesca: cifre spaventose, e senza eguali negli altri Stati belligeranti. Nondimeno, l’esistenza di tale intimo convincimento autorizza a presumere, per logica deduzione, quella di persistenti richiami etici alla priorità dell’intesa, e quindi della pace, nei confronti di un potenziale conflitto sia pure «freddo». In questo senso, la lunga cooperazione russo-tedesca maturata dopo la Seconda Guerra Mondiale aveva risposto alle necessità economiche di comune interesse ma nello stesso tempo aveva soddisfatto il bisogno catartico che – a livello inconscio ancor prima che consapevole – avrebbe sostenuto certe «simpatie» tedesche, nonostante il ricordo non meno traumatico del tremendo conflitto, dell’invasione sovietica e della grande fuga verso Ovest dei 16 milioni di profughi orientali: vaccini indubbiamente efficaci nei confronti di ogni eventuale tentazione autoritaria.

Da questo punto di vista, è facile comprendere che la cosiddetta «operazione militare speciale» voluta da Vladimir Putin nel febbraio 2022 dopo otto anni di continue tensioni e di guerriglia strisciante nelle regioni ucraine con rilevanti presenze russofone (talvolta maggioritarie) ha dato luogo a modificazioni sostanziali del «Volksgeist» tedesco che in qualche misura fanno propendere per la tesi dell’irreversibilità, aggiungendo un altro elemento critico nel già complesso e precario sistema politico dell’odierna Europa Orientale. Ormai, i tempi del «mitico» Cancelliere Otto von Bismarck sembrano appartenere alla preistoria e non certo alla stagione – tuttora relativamente recente – della massima potenza tedesca, sia in Europa sia nel mondo coloniale, abbattuta dalla Grande Guerra del quinquennio 1914-1918; a più forte ragione, tali considerazioni valgono per la più breve parabola nazionalsocialista del Novecento e per la sua dissoluzione nel disastro finale.

Il futuro si colloca in una congiuntura complessa, se non anche nel mistero. L’assunto è tanto più valido per la nuova Germania nella misura in cui il popolo e la classe politica dovranno scegliere, verosimilmente loro malgrado, fra un atlantismo reso più forte dalla nuova realtà internazionale, e la reminiscenza di vecchi rapporti collaborativi con l’Europa Orientale e con la stessa Russia, suffragati dal senso della storia e dalla riscoperta di valori rivenienti, dopo la lunga eclissi, dalla grande filosofia tedesca del criticismo e dell’idealismo, di cui si diceva.

Questo «viatico» è sempre di grande portata etica ma inidoneo a respingere la tentazione di abbandonarlo per strada e di perseverare nel malinteso ossequio alle contingenze della convenienza politica che hanno avuto nuove manifestazioni palesi nelle indebite interferenze di cui il nuovo Cancelliere Olaf Scholz, e poi la stessa Presidente Europea Ursula von der Leyen, si sono resi protagonisti durante la campagna elettorale per le elezioni generali italiane del 25 settembre 2022, quando hanno dichiarato in modo molto esplicito di temere intenti non conformi allo spirito dell’Unione e di non escludere adeguati interventi correttivi, con esempi non certo marginali di comportamento diplomatico e politico oggettivamente fuori tempo e fuori luogo, tanto da suscitare motivate e pertinenti prese di posizione, per l’appunto, da varie parti del mondo politico italiano, e non solo da quello: al riguardo, il meno che si possa dire è che la vecchia «locomotiva» tedesca, oltre a perdere lo «sprint» di una volta, sta mettendo in forse i suoi primati di velocità, durata e stile.

(marzo 2014; terza ripubblicazione: dicembre 2022)

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