La democrazia fragile: la crescita dell’autoritarismo in Ungheria e Polonia
Un approccio storico-politico

Negli ultimi anni, l’Europa Centrale e Orientale ha registrato un significativo regresso democratico. L’ascesa al potere di partiti politici e leader autoritari in Paesi come l’Ungheria e la Polonia ha condotto un attacco senza precedenti alle principali istituzioni democratiche, compresi i media. In tutta la regione, il crescente richiamo del populismo di destra, canalizzato attraverso molti organi di informazione tradizionali e piattaforme online, ha contribuito ad ampliare la polarizzazione sociale e consentito il rapido aumento della xenofobia e di atteggiamenti antieuropei nella sfera pubblica. Queste tendenze politiche hanno fatto sì che molti studiosi abbiano sostenuto che «uno spettro infesta l’Europa e gli Stati Uniti: lo spettro della democrazia illiberale», ponendo la regione nella mappa globale del populismo.

Nell’Europa Centrale e Orientale, tuttavia, questo spettro sembra essere particolarmente importante poiché è stato il Primo Ministro Ungherese, Viktor Orbán, che lo ha invocato per la prima volta in modo esplicito nel 2014, sostenendo con orgoglio che il suo Governo aveva costruito «uno Stato illiberale, uno Stato non liberale», sostituendo il liberalismo con il nazionalismo come ideologia centrale dello Stato, e adottando uno stile di governo sempre più autoritario. Molti osservatori sostengono che la Polonia ha intrapreso un percorso simile dopo le elezioni del 2015, emulando l’approccio di Orbán, tentando di paralizzare il Tribunale Costituzionale e prendendo il controllo della magistratura, politicizzando la pubblica amministrazione e trasformando i media del servizio pubblico in portavoci dell’Esecutivo. In altre democrazie della regione, tra cui la Repubblica Ceca e la Slovacchia, l’autonomia dell’informazione è minacciata da potenti élite imprenditoriali, o da oligarchi, che hanno acquistato testate giornalistiche per promuovere e proteggere i loro interessi politici o economici.

Per un paio di decenni dopo il 1989, i Paesi dell’Europa Centrale e Orientale hanno tentato di riprodurre i modelli politici e costituzionali occidentali. Segnali di «stanchezza democratica», persino rischi di «ricaduta» in alcuni Paesi, sono stati interpretati come eredità del passato comunista e del tardivo sviluppo della democrazia nell’Europa Orientale. Al giorno d’oggi, mentre gli euro scettici sono in aumento nell’Europa Occidentale, il rapporto tra centro e periferia sta cambiando: l’Europa Centrale è diventata l’avanguardia populista della crisi delle democrazie occidentali.

Il termine «populista» è usato per descrivere movimenti politici che si richiamano al «popolo» come fonte primaria di legittimazione politica. Il «popolo» è generalmente contrario alle élite liberali accusate di ostacolare l’espressione della volontà popolare. Dato che far derivare legittimità dal popolo è il principio fondante della democrazia, non è sufficiente liquidare tali movimenti come «minacce alla democrazia»; invece, il problema con queste recenti tendenze autoritarie nell’Europa Centrale e Orientale è che i loro leader populisti rivendicano il monopolio nella legittima rappresentanza del popolo e rifiutano il pluralismo. L’altra divisione costitutiva sottolineata dai movimenti populisti è quella che separa il «popolo» o la «Nazione» dalle popolazioni nate all’estero.


Nazionalismo e democrazia illiberale

Dopo il 1989, i Balcani erano attanagliati dalle guerre di dissoluzione della Jugoslavia, dall’arretratezza economica e da società civili deboli, e l’area post-sovietica (con l’eccezione della regione baltica) si evolveva verso regimi ibridi di «autoritarismo competitivo»; al contrario, i Paesi dell’Europa Centrale coniugavano il consolidamento delle democrazie liberali con l’integrazione nell’Unione Europea.

Per più di due decenni la regione ha subito un formidabile processo di convergenza con l’Europa Occidentale, storicamente senza precedenti, in termini economici (misurato dal Prodotto Interno Lordo pro capite rispetto alla media dell’Unione Europea), in termini sociologici (dalla mobilità ai modelli di consumo, dagli stili di vita alla speranza di vita) e nello sviluppo di istituzioni politiche di democrazia liberale. Il «potere di trasformazione» dell’Unione Europea, un’istituzione basata su principi e norme giuridiche condivisi, si basava sul collegamento tra la condizionalità dell’adesione all’Unione Europea e la formazione delle istituzioni dello Stato di diritto nell’Europa Centro-Orientale.

Negli ultimi anni, tuttavia, è emerso un diverso modello di regressione democratica nell’Europa Centro-Orientale. Unisce due caratteristiche principali: un allontanamento dallo Stato di diritto come fondamento della democrazia liberale e l’ascesa del nazionalismo come fonte primaria di legittimazione, basandosi sulla nozione di «sovranità del popolo» e rafforzando la politica identitaria. Entrambe le caratteristiche, nel contesto della grave crisi migratoria degli ultimi anni, hanno riportato in superficie un divario Est-Ovest nell’Unione Europea. Il precursore è stato il partito Fidesz di Viktor Orbán in Ungheria, che è salito al potere nel 2010 e ha utilizzato la sua maggioranza costituzionale di due terzi in Parlamento per minare la separazione dei poteri, l’indipendenza della Corte Costituzionale e della magistratura, così come l’autonomia dei media pubblici.

Lo studioso di diritto Kim Lane Scheppele ha definito il risultato un «Frankenstate» in quanto abbina le peggiori pratiche esistenti in tutte le aree della «governance». Da allora, Fidesz ha governato senza un’opposizione adeguata: i socialisti non sono più importanti nel Parlamento Ungherese e il partito di estrema destra Jobbik continua ad alzare la posta. Questa maggioranza ha permesso all’Esecutivo di approvare più di 600 progetti di legge e soprattutto una nuova Costituzione, già modificata sei volte. L’indipendenza dei media e le prerogative della Corte Costituzionale sono in pericolo dal 2011. Il controllo dell’amministrazione da parte del partito al potere – la lealtà politica prima della competenza – sta ora completando questa svolta antiliberale.

Da una prospettiva storica, Ungheresi e Polacchi condividono esperienze simili, soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale. Nonostante le differenze nella storia costituzionale, le particolarità storiche e la traiettoria emotiva sia degli Ungheresi che dei Polacchi sembrano creare un humus perfetto per la ricettività al populismo e la richiesta di un leader autocratico.

Molti studiosi hanno argomentato che la traiettoria storica ungherese – influenzata da un senso di vittimismo collettivo causato principalmente dal trattato di pace di Trianon nel 1918 – abbia fatto sentire i cittadini abbandonati e delusi da tutti i Governi. Il Trattato del Trianon fu l’accordo di pace del 1920 che pose formalmente fine alla Prima Guerra Mondiale tra gli Alleati e il Regno d’Ungheria; circa due terzi del territorio ungherese furono assegnati ai Paesi vicini, insieme alla sua popolazione. Un terzo degli Ungheresi si trovò fuori dai confini ungheresi post-Trianon.

I Polacchi rappresentano una Nazione traumatizzata a causa della perdita di sovranità e indipendenza, una Nazione che ha un atteggiamento controverso nei confronti della libertà e una consolidata fede cattolica, con conseguente mancanza di pluralismo. Persistono anche un forte provincialismo e un struttura sociale ispirata al «Folwark», il latifondo in polacco. Il «Folwark» era la terra appartenente a un signore feudale su cui i contadini erano obbligati a fornire lavoro gratuito. Di conseguenza, i Polacchi si sono organizzati creando una gerarchia sociale con all’apice un leader forte.

Alla fine degli anni Ottanta, Ungheria e Polonia hanno subito processi similari di transizione dal socialismo alla democrazia. Usando approcci diversi verso la Costituzione, hanno creato nuovi sistemi statuali, basati sullo Stato di diritto, la democrazia e i diritti umani.

Dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, l’Ungheria e la Polonia, insieme ad altri Stati del blocco orientale, hanno iniziato i loro percorsi per stabilire nuovi Governi democratici. La Polonia è stata la prima a veder nascere delle rivoluzioni politiche, che alla fine hanno portato alla caduta del muro di Berlino nel 1989, facendo sembrare che lo spirito democratico fosse molto forte. Era considerata come il «membro più ribelle del Patto di Varsavia», con quattro precedenti sconvolgimenti sociali. Durante la rivolta del 1981, i leader sovietici accettarono persino di non intervenire per paura di ritorsioni estreme; alla fine il leader polacco Jaruzelski attuò un colpo di Stato militare nel dicembre del 1981 e soppresse rapidamente Solidarnosc.

Idealmente, la Polonia appariva uno Stato promettente per un futuro consolidamento democratico. L’Ungheria, spesso accomunata alla Polonia negli ultimi anni della Guerra Fredda, aveva generalmente opposto una maggiore resistenza al comunismo sovietico. I due Paesi si erano distinti dagli altri Paesi del blocco orientale, essendo più propensi a «esperimenti di democratizzazione», rispetto alle molto più esitanti Germania dell’Est, Cecoslovacchia, Bulgaria e Romania.

I due Paesi furono tra i primi ad adottare delle istituzioni democratiche durante il Governo di Gorbaciov. Quando l’Ungheria e la Polonia uscirono dalla Guerra Fredda, sembravano essere le Nazioni più promettenti per il consolidamento democratico.

Il processo di trasformazione fu facilitato e attivamente assistito dalle Corti costituzionali. Sia la Corte Costituzionale Ungherese che il Tribunale Costituzionale Polacco abbracciarono un approccio attivista nei confronti del passaggio alla democrazia, data la fragilità della transizione e la vaghezza delle disposizioni costituzionali. Entrambi gli Stati sono entrati a far parte dell’Unione Europea nel 2004, il che significa che hanno riconosciuto gli interessi e i valori condivisi dagli altri Stati membri e hanno adattato i loro sistemi legali.

L’Ungheria e la Polonia hanno adottato un costituzionalismo liberale – la necessità di vincolare il potere pubblico e difendere i diritti umani attraverso lo Stato di diritto come prescritto in una costituzione scritta – e la democrazia-governo del popolo, di solito ma non esclusivamente attraverso rappresentanti eletti che, in una certa misura e senza trascurare le opinioni delle minoranze, rappresentano il punto di vista della maggioranza. Pertanto, nel sistema costituzionale di recente istituzione, che chiamiamo democrazia costituzionale, il costituzionalismo liberale e la democrazia non sono valori contrastanti, ma sono destinati a completarsi a vicenda.

Entrambi i Paesi hanno redatto le loro Costituzioni dopo la loro separazione dall’Unione Sovietica, tuttavia, la Costituzione Ungherese non è stata scritta fino al 2011, sotto la guida di Viktor Orbán.

Sebbene entrambe le Costituzioni mantenessero, almeno formalmente, i cardini base di uno Stato di diritto democratico, i leader ungherese e polacco hanno attuato politiche e cambiamenti che minano le regole e i valori stabiliti dalle loro Costituzioni nel loro insieme.

Thomas Humphrey ha osservato che senza uno Stato di diritto rigoroso o un impegno per la difesa della Costituzione, la transizione democratica può non avere successo, perché senza lo Stato di diritto, i diritti liberali e democratici non sono al sicuro e l’uguaglianza dei cittadini è in pericolo.

L’Ungheria e la Polonia sono uscite da una storia travagliata, che ha segnato il percorso emotivo delle loro popolazioni. Questo stato di emozioni, con un forte risentimento sottostante, può essere facilmente intensificato e sfruttato da leader populisti contemporanei.


«Budapest a Varsavia»

Jan-Werner Müller ha studiato «l’ondata mondiale del populismo» e sostiene che il populismo non può essere percepito come una parte autentica della moderna politica democratica o come una sorta di patologia causata da cittadini irrazionali, ma è un’ombra permanente sulla politica rappresentativa. Tuttavia, i casi ungherese e polacco sono unici a causa del potere di trasformazione del populismo. I partiti populisti, in entrambi gli Stati, hanno vinto le elezioni generali dopo precedenti episodi di Governo infruttuoso – in Ungheria nel 2006-2010 e in Polonia nel 2005-2007 – con la maggioranza costituzionale in Ungheria nel 2010, 2014 e 2018 e la maggioranza assoluta in Polonia nel 2015.

Subito dopo aver creato il nuovo Governo, i leader populisti Viktor Orbán – Primo Ministro Ungherese – e Jarosław Kaczyński – leader del PiS («Diritto e Giustizia») –, hanno iniziato a trasformare le democrazie liberali esistenti. A causa dei differenti risultati delle elezioni generali, questi leader hanno utilizzato mezzi dissimili di trasformazione legislativa. La via ungherese è stata più «formale», basata su misure costituzionali come gli emendamenti. La Polonia ha utilizzato strumenti informali di trasformazione, violando e ignorando le disposizioni costituzionali, soprattutto in relazione al Tribunale Costituzionale e alla magistratura.

«Budapest a Varsavia» è stato uno degli slogan del partito PiS durante le elezioni polacche dell’ottobre 2015 e l’Ungheria è rimasta un modello per la Polonia dopo la vittoria elettorale. Da allora, la loro solidarietà si è consolidata. Nel settembre 2016, il leader del PiS Jarosław Kaczyński e Viktor Orbán si sono incontrati al Krynica Economic Forum in Polonia per invocare una «controrivoluzione» in Europa, volta a «cambiare la stessa Unione Europea, le sue strutture, il suo processo decisionale». In occasione del 60° anniversario della rivoluzione ungherese del 1956, Viktor Orbán e il Presidente Polacco Andrzej Duda hanno ribadito la solidità dell’«asse» Budapest-Varsavia, radicato nella storia e nei valori cristiani.

Nelle settimane successive alla sua ascesa al potere, l’Esecutivo Polacco ha modificato le regole relative alla nomina dei giudici costituzionali, ha ampiamente «ripulito» i canali televisivi e radiofonici pubblici da quelli che riteneva suoi oppositori e ha abolito l’imparzialità politica della pubblica amministrazione. Fino ad allora, l’autoproclamatasi «democrazia illiberale» di Viktor Orbán avrebbe potuto essere considerata un’eccezione. Con la Polonia, Paese cardine dell’area, che ha seguito la stessa direzione, il contesto geopolitico regionale è radicalmente cambiato.

Nel 2015, quando il partito PiS ha ottenuto la maggioranza in Parlamento, è riuscito a nominare cinque nuovi giudici suoi sodali nel Tribunale Costituzionale, cercando di attuare, allo stesso tempo, delle riforme giudiziarie che avrebbero rimosso «gli ostacoli» esistenti, a livello costituzionale, per una maggiore autonomia dell’Esecutivo. La riforma del Tribunale Costituzionale prevedeva anche la maggioranza dei due terzi per l’approvazione delle Leggi, dando così ai nuovi alleati del PiS un potere di veto; inoltre, le riforme riguardavano anche una nuova legislazione che fondamentalmente consegnava al Parlamento un controllo ancora maggiore sul potere giudiziario. Questo gruppo di riforme è stato dichiarato incostituzionale nel 2016, ma ha mostrato senza dubbio le intenzioni di Kaczyński e del PiS di avere il controllo su tutti i rami dell’Esecutivo. Fu il Presidente Polacco Andrzej Duda a porre il veto, a dispetto dei desideri di Kaczyński; in seguito, il Presidente propose una propria riforma, risultata meno praticabile.


Vincitori e vinti della transizione

Diverse ipotesi, che non si escludono a vicenda, possono essere proposte per spiegare la regressione democratica. La più diffusa è la tesi di una società divisa tra vincitori e vinti nella transizione post-1989. Indica il fatto che i benefici della crescita economica sono stati condivisi in modo non uniforme e, più in generale, contrappone grandi città, laureati e giovani – tutti e tre a sostegno del corso liberale che aveva prevalso per circa due decenni – contro altri membri dell’elettorato, rurali, meno istruiti e più anziani per i quali la democrazia liberale non ha prodotto una prosperità economica inclusiva. Da qui l’emergere della tesi su due Polonie e due Ungherie, in cui il «popolo» si contrappone alle élite cosmopolite urbane, riattivando vecchie divisioni all’interno della cultura politica. In Ungheria è una variazione della divisione tra «urbanisti» (liberali o socialdemocratici) e «populisti» (nazionalisti) che risale alla fine del XIX secolo. In effetti, il caso polacco sembra adattarsi a uno schema storico: le mappe elettorali dell’ultimo decennio corrispondono grosso modo alle divisioni storiche che risalgono alle partizioni della Polonia alla fine del XVIII secolo, con la parte occidentale del Paese che tende a votare per il partito liberale PO (Piattaforma Civica) e la parte orientale per i conservatori PiS.

Definire i regimi politici dell’Ungheria di Orbán e della Polonia di Kaczyński non è un compito facile, poiché mentre non sono più democrazie liberali, non possono (ancora?) essere considerate autocrazie come Russia e Turchia. Sono regimi ibridi dove la deriva verso l’autoritarismo e la concentrazione dei poteri distorce la competizione politica: «democrazie illiberali» dalle parole dello stesso Orbán; da cui si evince che i pesi e contrappesi della democrazia liberale limitino indebitamente la sovranità del popolo. «L’impossibilità giuridica», per usare la frase di Kaczyński, è il nemico. Questo pensiero politico è più vicino alla «volontà generale» di Rousseau che alla separazione dei poteri di Montesquieu. Abbiamo di fronte un regime egemonico con un partito ultra-maggioritario eletto democraticamente, e il decennio in corso sarà studiato come quello delle «transizioni verso l’autoritarismo». L’argomento di fondo contro la democrazia liberale è stato forse meglio formulato da Zdzisław Krasnodębski, ideologo di spicco del PiS: la democrazia liberale, ha a lungo sostenuto, è un progetto dell’élite post-1989 che ha portato all’atomizzazione della società, durante il quale l’economia polacca è stata soggiogata da interessi stranieri. Deve essere fondata una nuova Quarta Repubblica.

Una delle ragioni principali dietro il successo di Orbán e Kaczyński è il loro rifiuto del mantra liberale degli anni ’90 che confondeva il liberalismo politico ed economico e che era incarnato nell’agenda allora dominante della costruzione di «democrazie di mercato». Nel suo discorso «illiberale» del 2014, Orbán ha sostenuto che uno Stato non ha bisogno di essere liberale per avere successo economico (si consideri Singapore, Cina, India o Turchia, per esempio). E in effetti, Fidesz e soprattutto il PiS devono una parte della loro affermazione alla combinazione del nazionalismo economico con l’attenzione verso le preoccupazioni sociali di larghi strati della società civile.

Sebbene l’argomento «vincitori versus vinti della transizione», che si traduce nella politica del «popolo contro le élite», possa essere una spiegazione plausibile di questa regressione democratica, non è affatto del tutto convincente, specialmente nel caso polacco. La Polonia è l’unico Paese Europeo a non entrare in recessione dopo il 2008; la sua economia è cresciuta del 3,5% all’anno nell’ultimo decennio. Naturalmente, i benefici di questa crescita sono stati distribuiti in modo non uniforme, ma lo slogan elettorale del PiS, «Polonia – un Paese in rovina», dimostra che l’«efficacia» di una narrazione non è in alcun modo correlata alla realtà.

L’argomento economico non è valido, ma si è dimostrato efficace come parte di un pacchetto antiliberale. Il partito liberale PO ha perso le elezioni polacche dopo otto anni in carica non a causa dell’economia, ma perché non aveva più un progetto collettivo. Al contrario, il PiS aveva un progetto collettivo: la Nazione sovrana, unita attorno ai valori cristiani, in opposizione alle élite liberali di Bruxelles.

La divisione sinistra-destra è stata sostituita da quella tra liberali europeisti e conservatori nazionalisti. In un contesto di grande crisi migratoria, sono le guerre culturali, piuttosto che l’economia, ad aver indebolito le agende liberali e facilitato la deriva verso l’autoritarismo.


«La causa della Nazione contro la causa della libertà»

Analizzando l’Ungheria negli anni ’20, lo storico Oszkár Jászi ha osservato che una regressione della democrazia si verifica in tempi di crisi quando riaffiorano vecchie strutture. Forse l’Europa Centrale, anzi l’Europa nel suo insieme, è entrata in questi tempi di crisi e regressione. Un altro pensatore politico ungherese, István Bibó, nel suo capolavoro sul nazionalismo dell’Europa Centrale scritto durante la guerra, ha sostenuto che la democrazia era sotto la minaccia del fascismo «quando, per qualsiasi motivo, shock o malinteso, la causa della Nazione e la causa della libertà si scontrano l’una contro l’altra, dove un crollo storico infonde la paura convulsa che il progresso della libertà metta a repentaglio la causa della Nazione». L’ondata migratoria del 2015, senza precedenti nell’Europa del dopoguerra, è stata inquadrata dalle élite politiche dell’Europa Centro-Orientale come uno di questi shock, dove la «causa della libertà» (libertà di movimento) incarnata dalla decisione dell’Unione Europea e del Cancelliere Tedesco Merkel di aprire le frontiere era presentata (e ampiamente percepita dalla popolazione) come una minaccia all’identità nazionale, anzi europea. Ciò ha portato alla costruzione di una recinzione al confine ungherese durante l’estate del 2015, seguita da un fermo rifiuto il 4 settembre 2015 da parte dei Paesi del Gruppo Visegrad del sistema di quote della Commissione Europea per l’accoglienza dei rifugiati.

Le élite politiche hanno chiaramente usato e abusato della politica della paura, concentrandosi su una «invasione musulmana» in cui si mescolano questioni di sicurezza e identità. Il referendum ungherese sulle quote dei migranti del 2 ottobre 2016 è stato interpretato come un plebiscito, con la data scelta in coincidenza con la ripetizione delle elezioni presidenziali austriache. Sebbene il 98% abbia votato a favore della proposta di Orbán di rifiutare queste quote, il tasso di partecipazione di solo il 40% ha invalidato questo referendum anti-immigrati.

Questa politica dell’identità ha una profonda risonanza storica nelle società dell’Europa Centrale e Orientale. Dalla fine dell’Ottocento sono terre di emigrazione e non di immigrazione. Negli ultimi 20 anni, circa un milione di Polacchi si sono stabiliti nel Regno Unito, per non parlare dei circa 100.000 Slovacchi e cittadini degli Stati Baltici che ne hanno seguito l’esempio. Ancora più importante, nel 1918, sulle rovine di Imperi multinazionali (Asburgico, Ottomano, Russo), le nuove Nazioni si imbarcarono nella costruzione di Stati-Nazione con minoranze che rappresentavano circa un terzo della loro popolazione. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, durante la quale Hitler aveva sterminato gli Ebrei e Stalin aveva incoraggiato l’espulsione dei Tedeschi, le terre dell’Europa Centro-Orientale assistettero a un processo di omogeneizzazione etnica. Per la prima volta nella loro storia, Polonia e Repubblica Ceca divennero Stati omogenei, mentre i Paesi Occidentali, con il loro passato coloniale e un flusso costante di migranti dalle sponde meridionali del Mediterraneo, si trasformavano, dalla fine degli anni Sessanta, in società multi-etniche.

Nell’Europa Occidentale, società multietniche liberali si sono sviluppate per quasi mezzo secolo, al contrario l’Europa Centro-Orientale era costituita da Paesi chiusi prima del 1989, non esposti alle migrazioni dal Sud. Queste Nazioni non condividono il retaggio coloniale dell’Europa Occidentale. In effetti, si considerano emersi di recente dall’ultimo Impero coloniale, il blocco sovietico. Ancora più importante, la crisi dei migranti ha rivelato una percezione diffusa nell’Europa Orientale secondo la quale l’Europa Occidentale/l’Unione Europea stesse cercando di imporre loro un modello di società multiculturale considerata un «completo fallimento», prendendo in prestito il termine dal discorso di Angela Merkel durante la conferenza del partito CDU nel dicembre 2010. Nell’affrontare l’ondata migratoria, la narrazione politica e i media hanno unito la minaccia all’identità con la minaccia alla sicurezza.

Sono emerse due narrazioni contrastanti dell’identità europea con profonde implicazioni politiche. Mentre Orbán ha affermato, con la costruzione della recinzione al confine, di proteggere la Nazione e la «civiltà europea», Angela Merkel ha fatto appello al dovere di offrire asilo in nome dei valori europei e dei diritti umani universali. L’Unione Europea, si è detto, si basa su valori e norme condivisi. La politica in materia di asilo, parte di quella che ora in Germania viene chiamata Willkommenskultur, non è un’opzione, ma un obbligo coerente con gli impegni sui diritti umani approvati da tutti gli Stati membri dell’Unione Europea. «La dignità umana sarà inviolabile» dice la prima frase della Legge fondamentale, la Costituzione Tedesca (la maggior parte delle Costituzioni degli Stati membri dell’Unione Europea riporta formulazioni simili), che la Merkel ha interpretato nell’estate del 2015 come un diritto «de facto» illimitato di accettare i richiedenti asilo.

La narrativa dominante nell’Europa Centrale e Orientale si basa su una diversa definizione di nazionalità ed Europa. Risale al XIX secolo, quando queste Nazioni apolidi adottarono quello che era il modello tedesco di costruzione della Nazione, cioè la nazionalità definita dalla lingua, dalla cultura e spesso dalla denominazione religiosa. Ironia della sorte, i Mitteleuropei hanno trasposto questo concetto culturale/civile «tedesco» di Kulturnation in Europa proprio nel momento in cui la Germania lo ha abbandonato ed è diventata universalista. Mentre i migranti dal Medio Oriente hanno preso la rotta ottomana in Europa attraverso la Turchia e i Balcani, le élite politiche dell’Europa Centro-Orientale sono tornate a un discorso storicamente carico in cui la protezione della Nazione va di pari passo con la sua missione di «bastione dell’Europa» contro minacce esterne. Nel dopoguerra hanno offerto una resistenza culturale e spirituale al totalitarismo sovietico che veniva dall’Est, mentre oggi questa «resistenza» è contro la minaccia islamista del Sud. Negli anni Ottanta, mentre nella parte occidentale del continente «l’Europa» rappresentava un «mercato comune», questi Paesi dell’Europa Centrale sottolineavano l’appartenenza a una cultura occidentale e alla civiltà europea. Questa narrativa degli anni Ottanta sull’Europa Centrale come «Occidente rapito» (Kundera), sviluppato da scrittori e intellettuali esiliati, ha trionfato nel 1989. Per un po’, quando gli intellettuali dissidenti sono stati spinti al centro della scena, c’era un’aspettativa o un’illusione messianica che l’Europa Centrale avrebbe contribuito a ridefinire l’identità di un’Europa riunita. Invece, gli intellettuali sono stati messi da parte e la priorità è stata data all’integrazione economica, portando la narrativa dell’Europa Centrale a svanire a favore di un processo più prosaico dettato dall’agenda «normativa» di adesione all’Unione Europea.

Negli anni Ottanta, questa narrazione dell’Europa Centrale coniugava l’idea di Europa come cultura e civiltà pluralista con il linguaggio dei diritti umani, della società civile e del cambiamento democratico. Il «momento Kundera» combinato con il «momento Havel». Oggi i due sono in contrasto.


L’esaurimento del ciclo liberale post-1989

Il ritorno dell’Europa Centrale in abiti illiberali ha rianimato le percezioni di una divisione Est-Ovest e persino suggestioni che l’allargamento dell’Unione Europea fosse prematuro o un errore. Sarebbe una lettura errata del problema e della situazione odierna. Ci sono infatti caratteristiche specifiche del contraccolpo populista nell’Europa Centro-Orientale, a causa delle diverse culture politiche e atteggiamenti verso il progetto europeo.

Il ciclo liberale post-1989 si è esaurito. Nell’Europa Centro-Orientale ha significato una triplice transizione: verso la democrazia, verso un’economia di mercato e verso l’Europa. Tutti e tre questi obiettivi sono stati raggiunti con l’adesione all’Unione Europea più di 10 anni fa. Eppure tutti e tre ora sono in crisi. Le istituzioni democratiche sono state costruite ma ora affrontano una regressione «illiberale». L’integrazione nell’economia di mercato occidentale è stata completata poco prima della crisi finanziaria globale del 2008. L’adesione all’Unione Europea nel 2004 è stata celebrata come l’unificazione dell’Europa, solo per scoprire poco dopo che la stessa integrazione europea era minacciata. La fine dei progetti politici orientati al futuro ha lasciato il posto all’economia e alla tirannia dell’immediatezza (mercati e media). Le élite liberali in tutta Europa (non solo nell’Europa Centro-Orientale) si stanno ritirando perché nell’era della globalizzazione non sono più in grado di mantenere una leadership culturale e politica. La loro scomparsa, insieme a quella dei partiti tradizionali, ha lasciato uno spazio per le politiche identitarie dei movimenti populisti. Dopo più di due decenni di liberalismo dominante, stiamo assistendo a un ritorno al comunitarismo e al nazionalismo.

Potrebbe esserci un modo diverso, forse complementare, di intendere questa fine di un’era alla luce di quello che Michael Walzer chiama il «paradosso della liberazione». Esaminando i casi di Algeria, India e Israele, Walzer mostra come l’eredità dei movimenti secolari di liberazione nazionale sia stata sfidata 25 anni dopo da contraccolpi religiosi, con la sostituzione dei costruttori di Stati-Nazione con conservatori religiosi. Un modello in qualche modo simile vale per l’Europa Centro-Orientale: dopo un quarto di secolo di «Grande Trasformazione» stiamo assistendo a una reazione conservatrice contro le élite filoeuropee liberali e modernizzanti che hanno dominato dal 1989.

Al di là della riflessione sulla modernizzazione e sui cicli del liberalismo, si pone la questione se l’attuale ondata populista e conservatrice culturale non faccia parte della fine di un lungo ciclo storico iniziato con l’Illuminismo. L’appello di Orbán e Kaczyński alla «controrivoluzione» culturale può essere visto in qualche modo come un rifiuto dell’Illuminismo.

In conclusione, sarebbe fuorviante interpretare l’attuale crisi della democrazia rappresentativa e l’ascesa del populismo nazionalista come un’aberrazione dell’Europa Centro-Orientale. Si tratta invece di un fenomeno trans-europeo che ha caratteristiche specifiche o più acute nella parte orientale del continente. Le sue radici affondano nella chiusura del ciclo liberale post-1989, accompagnato dall’esaurimento dei progetti ideologici ereditati dal XX secolo e dalla parallela erosione del sistema partitico fino ad allora prevalente. Il divario sinistra-destra si è ridotto quando la globalizzazione ha limitato lo spazio per scelte economiche alternative. Il populismo illiberale è in aumento nella maggior parte dei Paesi dell’Unione Europea, con la tradizionale divisione sinistra-destra sostituita dalla divisione «sovranisti-europeisti».

L’ondata migratoria, l’eliminazione delle linee di demarcazione tra politica interna ed estera, nonché la potente sfida populista, stanno portando gli Europei a ripensare criticamente il progetto europeo nel suo insieme. Una questione troppo seria per essere lasciata a Orbán o Kaczyński, né – per impostazione predefinita – ad Angela Merkel, ormai alla fine della sua carriera politica.

Dovrebbe diventare oggetto di un dibattito trans-europeo tra intellettuali e società civile. Forse in questo modo, in questa grave situazione, potremmo ricostruire uno spazio pubblico europeo, senza il quale il progetto europeo stesso non potrebbe sopravvivere.


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(luglio 2021)

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