Smog
Quando si incappa in un’inversione termica

«Smog» è un termine comparso per la prima volta sul «Daily Grafhic» di Londra il 26 luglio 1905, in un articolo riguardante una conferenza sugli effetti dannosi dell’inquinamento ambientale sulla salute pubblica; è formato dall’unione di due parole inglesi («smoke» = «fumo» e «fog» = «nebbia»). Con quel termine, l’articolista è riuscito a sintetizzare tutto il dramma che il fenomeno porta dentro e dietro di sé. Lo smog fu una manifestazione climatico-ambientale (del resto lo è tuttora) che divenne di casa nella capitale del Regno Unito a partire dalla rivoluzione industriale; tutto sommato, però, a parte qualche indisposizione regalata alla parte più debole della popolazione (anziani e bambini), i danni fisici furono abbastanza contenuti.

Dagli inizi del XIX secolo fino al XX, la città di Londra fu sempre oberata dalla presenza di fitte nebbie che tutto avvolgevano e bagnavano. La colpa era da attribuire, più che all’inclemenza del tempo, all’abbondante urbanizzazione e più di tutto ai fumi del mezzo milione di impianti domestici di riscaldamento, che si mescolavano con i poco controllati prodotti di scarico delle vicine attività industriali. Si deve però ricordare che l’attività delle fabbriche dava i mezzi per sopravvivere a tantissimi lavoratori e alle loro famiglie. A questo proposito è sintomatico, e amaro, ciò che è stato riportato dallo storico dell’ambiente della Leeds Beckett, Stephen Mosley, prima del fatto di cui si sta parlando: «Gli Inglesi ritengono lo smog un male necessario, quale prezzo da pagare in cambio dei posti di lavoro legati all’industria e ai nuovi elettrodomestici e al comfort per le case».

Tutto andò relativamente bene, finché si giunse, purtroppo, alla calamità del 1952. Questa catturò l’attenzione di tutto il mondo, attivando negli studiosi, «in primis», il pensiero che sarebbe stato necessario rivedere qualcosa in merito all’inquinamento ambientale a livello globale.

Che cos’era successo? Di solito, l’aria a contatto con il suolo, si riscalda e per convezione sale in quota dove, diminuendo la pressione, si espande adiabaticamente, abbassando la sua temperatura. Nei giorni precedenti, per questioni meteorologiche, l’anticiclone delle Azzorre si spostò verso Nord, nell’Atlantico Settentrionale, causando un’imprevista e sgradita inversione termica, che avvolse la capitale britannica. E il giorno 4 dicembre di quell’anno, contrariamente a quanto avviene normalmente, capitò ciò che accade in questi casi: uno strato di aria fredda fu bloccato al suolo da uno strato di aria calda, impedendone la circolazione e ogni ricambio, rendendola pertanto ferma e stagnante. Le concomitanze climatiche e le ancora ridotte conoscenze dei problemi di inquinamento ambientale trovarono tutti (uffici competenti compresi) impreparati; nessuno si rese conto che stesse per avvenire qualcosa al di fuori di ogni norma, rendendo in tal modo possibile il verificarsi della tragedia, che ne fu la conseguenza allora imprevedibile.

A causa di tale fenomeno, la temperatura si abbassò, e alle ore 12:00 di quel giorno era scesa a 3,3°C, mentre l’umidità era abbastanza elevata, al 92%. In tali condizioni era logico che i Londinesi incrementassero il riscaldamento nei luoghi pubblici e nelle loro abitazioni. Sfortunatamente, bisognava utilizzare l’unico combustibile disponibile, che era un carbone di pessima qualità, ricco di zolfo, la cui combustione liberava nell’ambiente aereo grandi quantità di particolati e anidridi (carbonica, solforica e solforosa). Infatti, per aiutare le sgangherate casse dello Stato, abbastanza immiserite alla fine della Seconda Guerra Mondiale, il carbone più puro e di migliore qualità era destinato all’esportazione, essendo economicamente più vantaggioso.

La fusione fra i fumi delle migliaia di fonti domestiche di riscaldamento, rappresentate spesso da stufe o sistemi superati, e gli abbondantissimi prodotti di scarto leggeri messi liberamente nell’atmosfera dalle ciminiere industriali con filtraggi – supposto che ci fossero – non del tutto adeguati, diede luogo a una combinazione letale, formando uno Smog con l’iniziale maiuscola. La nebbia, gialla per la presenza dello zolfo, costituita da goccioline di acqua condensata, unendosi ai fumi di scarico, diede luogo a un aerosol particolarmente pericoloso per gli uomini e gli animali. Inoltre, esso agì negativamente sulle piante, intaccò gli ecosistemi acquatici, si appiccicò a edifici e monumenti, con tutte le conseguenze del caso, poiché con l’abbondante umidità si ha la formazione di acidi solforici e solforosi; proprio per questo fatto si parla di «piogge acide». L’aria era divenuta irrespirabile e i Londinesi accusarono malesseri e malori di ogni tipo. Si riscontrarono irritazione agli occhi e difficoltà alle vie respiratorie. E non si deve dimenticare che quell’aerosol era pure cancerogeno.

Alla sera del 4, sia la visibilità sia la nebbia erano nella norma. Il giorno successivo a mezzogiorno la temperatura si era ancora abbassata, segnando 0,6°C, mentre l’umidità stazionava sull’82%. Essendo più freddo, non fu un errore fare lavorare a pieno ritmo il riscaldamento; purtroppo, però, la situazione peggiorò, poiché, essendo aumentata l’emissione di fumi di scarico, la visibilità iniziò velocemente a diminuire. Durante la notte fra il 5 e il 6 dicembre, la temperatura ebbe un ulteriore ritocco al basso, e la nebbia iniziò a essere la caratteristica «nebbia londinese» nel vero senso della parola. Il mattino successivo giunsero i veri guai, quando i particolati presenti nell’atmosfera favorirono la condensazione delle minuscole gocce d’acqua, dando luogo a uno smog con una densità tale da ridurre la visibilità in modo esagerato, mentre si cominciarono a notare i sintomi pesanti sulle persone più deboli e quelle aventi problemi fisici. All’ora di pranzo, il termometro segnava -2,2°C e l’umidità era al 100%. La visibilità si era ulteriormente ridotta, giacché si poteva scorgere qualcosa a non più di qualche metro. La gente camminava rasente i muri per non perdersi. Le autorità, a quel punto, fecero solamente ciò che il buon senso suggeriva: chiudere le scuole, per evitare che i bambini, qualora si spostassero da soli per le vie, potessero perdersi oppure finire sotto le ruote dei veicoli che si muovevano a passo d’uomo, suonando il segnalatore acustico, per non correre il rischio di scontrarsi con altri o di finire chissà dove; poi, giustamente, fu bloccata la circolazione dei veicoli privati e dei mezzi pubblici, gli aeroporti furono chiusi così come tutti i locali pubblici (cinema, teatri eccetera), mentre i privati furono sollecitati a tenere chiuse le loro abitazioni, perché quel tremendo miscuglio, favorito dalle dimensioni minime dei suoi componenti, entrava dappertutto, giacché nessuna fessura, per quanto stretta fosse, lo era troppo per lui. Funzionava solamente la metropolitana, troppo affollata, con lunghe code alle biglietterie. L’aria era divenuta irrespirabile e i Londinesi accusarono malesseri e malori di ogni tipo. Si riscontrarono irritazioni agli occhi e difficoltà alle vie respiratorie; non mancarono bronchiti e polmoniti.

Le cose non migliorarono nemmeno nei giorni 7 e 8. Solamente nel giorno successivo, il 9 dicembre, finalmente l’inversione termica mollò, grazie a una perturbazione, per cui lo smog si disperse, mentre la temperatura aumentò.

Fu la fine di un incubo che, però, lasciò una scia di dolore e di morte, che nessuno avrebbe mai potuto immaginare. S’iniziò a fare i conteggi delle perdite in vite umane: inizialmente si valutarono in 4.000, ma ci fu chi parlò addirittura di 8.000, oltre naturalmente alla mortalità normale; alla fine, si dovette accettare la disastrosa cifra di 12.000 e forse più, mentre coloro che riscontrarono malattie riconducibili allo smog appena cessato furono dalle 100.000 alle 150.000.

Si è pure tentato di valutare le quantità si sostanze che furono rilasciate nell’atmosfera durante quei cinque spaventosi giorni e di seguito si riportano le corrispondenti cifre veramente da capogiro: 1.000 tonnellate di particelle di fumo, 140 tonnellate di acido cloridrico, 14 tonnellate di composti di fluoro, 370 tonnellate di anidride solforosa, convertita in 800 tonnellate di acido solforico. Che situazione elegiaca!

Per potersi fare un’idea dell’entità del fenomeno, si può fare il confronto con il valore massimo del particolato PM 10 raggiunto a Milano: nel 2002, in quella città si riscontrò il valore di 400 microgrammi al metro cubo (quando i valori medi sono stati di 50), mentre quello di quei cinque giorni, che hanno tenuto sotto assedio Londra, è stato di 5.000 microgrammi: il confronto parla da solo!

Il grande smog e la conseguente tragedia, misero sul piede di guerra gli studiosi del problema dell’inquinamento, stimolandoli a tentare di mettervi un freno, consapevoli che, continuando a ignorarlo, si correva il rischio di compromettere la sopravvivenza del genere umano insieme con tantissimi animali superiori. Il 5 luglio 1956, fu approvato, per questo motivo, il primo grande provvedimento dal titolo Clean Air Act, una legge puntata alla limitazione dell’impatto sull’ambiente da imputare all’inquinamento urbano, con l’investimento di mezzi per impedire che in avvenire si potesse ripetere un caso come quello che ha messo Londra a terra. Innanzitutto, si propose di ridurre drasticamente le emissioni in atmosfera d’inquinanti derivanti sia dal riscaldamento sia dalla produzione di energia elettrica e dall’industria in genere. Fu un atto di grande importanza e fondamentale a favore del movimento ecologista, che insisteva nell’affermare che il problema dell’inquinamento atmosferico esisteva ed era veramente grave. La legge che ne scaturì fu migliorata, fissando le zone della città dove il consumo di combustibili che liberavano polveri sottili fosse vietato, stabilendo che i camini e le ciminiere fossero più alti e, veramente significativo, che le fabbriche fossero tenute lontane dalle città.

Fu una legislazione efficace, che ebbe risonanze non solo nazionali ma internazionali ed europee, puntata a migliorare la qualità dell’aria. Comunque, al fine di giungere a una valida risoluzione del problema, non bastava la comprensione degli altri Stati, bensì si rendeva necessaria una cooperazione internazionale, giacché la salubrità dell’aria non riguarda un solo Paese, ma la globalità. Così, gli studi andarono avanti, e negli anni Sessanta del XX secolo si riconobbe, per esempio, che l’acidificazione riscontrata nei fiumi e nei laghi della Scandinavia era dovuta a sostanze provenienti dall’Europa Continentale. Da qui nacque il primo vero e proprio strumento giuridico vincolante, puntato ad affrontare e tentare di risolvere i problemi legati all’inquinamento ambientale, cioè la Convenzione sull’Inquinamento Frontaliero a Lunga Distanza della Commissione Economica delle Nazioni Unite per l’Europa (LRTAP) del 1979.

Ci furono risultati soddisfacenti: molte auto migliorarono l’efficienza con un maggior controllo del tipo di carburante; i motori diesel furono dotati di filtri antiparticolato, gli impianti industriali furono forniti di dispositivi di abbattimento degli inquinanti alle ciminiere, con riduzione di anidride solforosa, ossido di carbonio e benzene. Tasse specifiche e incentivi fiscali giunsero a buon fine, consentendo di immettere sul mercato autovetture più pulite. L’uso del gas naturale ridusse l’emissione di anidride solforosa.

Nonostante tutto, però, secondo l’OMS (Organizzazione Mondiale per la Salute) ancora oggi il 90% delle persone è esposto a livelli d’inquinamento atmosferico troppo elevati, e in risposta la «Green Economy» ha stilato un decalogo riportante le misure fondamentali che si devono adottare, se si desidera raggiungere risultati soddisfacenti.

Le indicazioni sono succintamente le seguenti: affrontare il problema dell’inquinamento atmosferico tutti insieme (nessuno deve essere lasciato solo), ricorrere a fonti energetiche pulite e rinnovabili, usare tutto quanto è disponibile per muoversi senza inquinare o inquinando il meno possibile (uso plurimo delle auto e uso delle biciclette, come si fa nella «capitale delle biciclette», Amsterdam e, a casa nostra, a Ferrara, la «città delle biciclette»), riqualificare gli edifici, disciplinare l’uso delle biomasse (il legno, per esempio, libera abbondante particolato), avere maggiore attenzione in agricoltura nell’uso di concimi, diserbanti eccetera.

Sicuramente, negli ultimi anni si è fatto qualche passo in avanti, ma si è ancora molto lontani da una meta rilevante. Basti esaminare il «report» annuale dell’EEA (Agenzia Europea per l’Ambiente), facendo attenzione alle ripercussioni che si hanno sulla salute degli esseri umani, per rendersi conto che le emissioni di sostanze gassose, come il biossido d’azoto, l’ozono e le polveri sottili (PM 2,5), continuano a essere troppo abbondanti.

Certamente ci può essere la buona volontà di operare per il meglio, ma quando si vanno a considerare le disponibilità minerali di tanti Paesi, che di queste vivono, può lasciare l’amaro in bocca il riconoscere che, se da un lato essi riconoscono che sarebbe bene agire virtuosamente a proposito dell’inquinamento atmosferico, dall’altro possono chiedersi di che cosa vivranno in avvenire, se su queste non potranno più contare. Il riferimento è chiaramente a chi ha giganteschi giacimenti di carbone, abbondanti riserve di petrolio in giacimenti tradizionali o rinchiuse nelle argille, e sacche gigantesche di gas naturale. (Questo non è un problema che interessi direttamente il nostro Paese, poiché nei suoi confronti la natura si è dimostrata alquanto avara).

Comunque, sembra che qualcosa si stia muovendo anche nei Paesi restii alle restrizioni necessarie; del resto, i disastri che si stanno verificando ultimamente sembrano ridurre gli oppositori dell’uso di energie rinnovabili non inquinanti a più miti conigli. L’avvenire, necessariamente prossimo, mostrerà quanto l’uomo tenga al suo Mondo che, oggi come oggi, è unico.

(settembre 2021)

Tag: Mario Zaniboni, smog, inversione termica, inquinamento ambientale, salute pubblica, Gran Bretagna, Inghilterra, Londra, rivoluzione industriale, Stephen Mosley, calamità del 1952, anticiclone delle Azzorre, piogge acide, Clean Air Act, Convenzione sull’Inquinamento Frontaliero a Lunga Distanza, Green Economy.