Storia della Nazionale di calcio che divenne leggenda: la Grande Ungheria
Tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso, la Nazionale Ungherese diede una svolta al gioco del calcio sul piano tattico, tecnico e storico

Attualmente, molti tra gli appassionati di calcio staranno aspettando di gustarsi i Campionati Mondiali di calcio in Brasile. Si potrebbe ripercorrere la storia dei Mondiali attraverso le vicende delle grandi Nazionali che hanno segnato queste manifestazioni sportive: pensiamo alla Nazionale Spagnola, oppure all’Italia di Lippi, al Brasile di Ronaldo, fino all’Argentina di Maradona o all’Italia di Bearzot (qualcuno tra i più brizzolati si ricorderà dell’Olanda di Cruijff e del suo «calcio totale» o «calcio socialista», come amavano chiamarlo in Ungheria)… ma forse, pochi rammentano le gesta della Grande Ungheria che si potrebbe definire l’«antenata» di tutte queste grandi Nazionali.

La Grande Ungheria iniziò le sue gesta già nel 1948-1949, quando l’allenatore Gusztav Sebes (con una lunga carriera da centromediano in patria) divenne commissario tecnico della Nazionale. In quel periodo l’Ungheria era uno Stato satellite dell’Unione Sovietica, ed il nuovo Governo aveva imposto alle squadre sportive un legame economico con le grandi aziende comuniste e corpi statali, come l’Esercito. Dalla vecchia Kispest, squadra della capitale, nacque la Honvéd (in lingua ungherese «Difesa della patria»), la squadra dell’Esercito, nella quale vennero annessi i migliori giocatori dell’epoca; in poco tempo, la squadra aprì un ciclo straordinario, vincendo quattro scudetti (dal ’50 al ’55) e mostrando un calcio innovativo e spettacolare. Gusztav Sebes, per la sua Nazionale, si affidò al blocco Honvéd, e in parte al Vörös Lobogo, o MTK, la seconda squadra ungherese.

Lo schema di gioco usato da Sebes era il famoso Metodo (o W) – quello che aveva usato Vittorio Pozzo con la Nazionale Italiana durante i Mondiali del 1934 e 1938, vinti dagli «Azzurri» –, cui però l’allenatore aveva apposto sostanziali modifiche, che faranno la fortuna di questa squadra.

La squadra era schierata secondo il classico Sistema (WM), ma con una modifica fondamentale, che ne fece passare alla storia anche il modulo. L’origine era stata suggerita a Sebes dal fatto che il più grande centravanti ungherese, Ferenc «Bamba» Deak, poderoso uomo di sfondamento che nel campionato 1945-1946 aveva messo a segno 66 reti, aveva lasciato la Nazionale per essersi ribellato al regime comunista. Lo aveva sostituito Palotas, notevole interprete ma privo delle caratteristiche preferite dal tecnico. Un giorno, Sebes notò un vero campione, Nandor Hidegkuti, grande ala del Vörös Lobogo col quale aveva vinto tre campionati ungheresi, giocatore dalla grande intelligenza tattica e dalla tecnica cristallina, ma non uomo di sfondamento. Disponendo di due interni da vecchio Metodo, Kocsis e Puskas, eccezionali uomini-gol, Sebes riteneva di dover schierare un attaccante più portato alla manovra che alla conclusione diretta (un po’ come Maradona o Kakà). Si trattava dello sviluppo dell’evoluzione già attraversata dal Metodo, in cui i centravanti in gran parte avevano finito col perdere le caratteristiche di sfondatori, spinti ad arretrare dal continuo avanzamento dei due terzini schierati uno davanti all’altro. L’allenatore lo schierò come vertice basso del WM, ma la manovra della squadra non era fluida, e i marcatori avversari ingabbiavano spesso Hidegkuti, bloccando lo sbocco offensivo della squadra.

«Di lui» racconta Sebes, parlando di Hidegkuti, «sapevo già da anni che era un buon giocatore. Più volte l’avevo anche provato nella Nazionale, ma senza ottenere i risultati che speravo. Hidegkuti giocava magnificamente nella sua squadra di club (il Vörös Lobogo) come ala destra, era lui che dirigeva il gioco. In Nazionale, invece, ogni sua prestazione era nervosa, imprecisa. Che fosse un grande giocatore non potevo avere dubbi, però non riuscivo a farlo giocare come mi sarebbe piaciuto. Aveva una lucida visione del gioco solo quando stava con i vecchi compagni. Aveva straordinarie capacità tecniche, ma in Nazionale – ripeto – le poche volte che lo impiegavo non riusciva a mostrarle. Al punto che, se facevo tanto di chiamarlo in squadra, la stampa specializzata mi attaccava. D’altra parte inutilmente cercavo di trovare in altre squadre un uomo che mi potesse dare il suo stesso apporto potenziale. Eravamo nel 1951, l’anno prima delle Olimpiadi e la nostra Nazionale continuava a mancare di un centravanti. Tra Kocsis e Puskas non potevo mettere uno qualsiasi.

Qualche mese prima dei Giochi erano in programma due partite, a Varsavia e a Helsinki, con i Polacchi e i Finlandesi. Non potei accompagnare la squadra e perciò mi affidai a Gyula Mandi come allenatore e a Ferenc Puskas come giocatore di fiducia. A loro due diedi precise disposizioni per la trasferta, il ritiro e la formazione della squadra. Il centravanti doveva essere Palotas. Tuttavia consegnai a Mandi una busta avvertendolo che doveva aprirla soltanto negli spogliatoi. Incaricai lo stesso Puskas di ricordare a Mandi la busta, semmai se ne fosse scordato.

Negli spogliatoi dello stadio di Varsavia, fu proprio Puskas a sollecitare l’allenatore: “Mandi, si ricordi la busta, deve aprirla ora”. Credevano entrambi che contenesse parole di circostanza per i ragazzi. Invece sul biglietto c’era solo questo: centravanti, al posto di Palotas, doveva essere Hidegkuti. Palotas era già in divisa, Hidegkuti stava in tribuna. Quest’ultimo venne immediatamente avvisato e in tutta fretta, senza aver neanche il tempo di pensare, dovette cambiarsi per entrare in campo. Morale: Hidegkuti giocò in tutta tranquillità, fece una magnifica partita, segnò due gol e l’Ungheria vinse per 5-1. Quando gli fu chiesto perché tutt’a un tratto si fosse trovato in una forma così smagliante, il giocatore rispose che, siccome si era coricato alla vigilia sicuro di non giocare, aveva dormito benissimo [aveva evitato lo stress da prestazione]. Aveva trascorso tutta la giornata pacifico, senza pensieri: senza pensare alla partita e a quello che sarebbe potuto accadere se avesse giocato male. Fu così che io potei finalmente scoprire il centravanti che desideravo per la Nazionale, e che desideravo da anni. E l’evento, felice per Hidegkuti, che poté così affermarsi al massimo livello, fu esemplare per me, che ero il selezionatore. Mi diede maggiore fiducia per il lavoro successivo. Da allora posi più cura nello studio dei caratteri delle persone che lavoravano alle mie dipendenze».

Era il modulo a «M»: la caratura tecnica elevatissima consentiva ai giocatori di disimpegnarsi in più posizioni tattiche durante la partita e proprio una diffusa tendenza all’interscambiabilità dei ruoli è stata vista come l’anticipazione del gioco olandese degli anni Settanta. Puskas ha invece ricordato, con troppa semplicità, che «dietro alle nostre vittorie non c’erano molti segreti. Giocavamo per il piacere di farlo, tatticamente non esistevano soluzioni particolarmente innovative. La filosofia era quella, semplicissima, di buttare la palla in fondo al sacco, sempre e comunque. È vero, gli anni Cinquanta sono stati segnati da molti cambiamenti nell’impostazione tattica delle squadre, e anche noi ne fummo influenzati. Ma la Honvéd non si è mai persa troppo dietro a questi discorsi teorici. Cercavamo il risultato con naturalezza, impegnandoci fino allo spasimo, correndo fino all’ultimo respiro, senza mai risparmiarci e senza troppe alchimie tattiche».

Lo schema della squadra-tipo era: in porta Grosics, fuoriclasse del ruolo; davanti a lui, un trio di difensori solidi: Buzánsky e Lantos terzini laterali, Lóránt stopper. A centrocampo, era l’immenso Bozsik, dotato di una nitida visione di gioco e di personalità spiccata, a dettare i ritmi del gioco, e Zakariás, che assicurava copertura e corsa e che all’occorrenza arretrava fino alla linea dei difensori. Per compiacere al massimo la vocazione delle due punte principali (gli interni Kocsis e Puskas), le ali giostravano lievemente arretrate rispetto al Sistema classico, in quanto una, il vivace Budai II o la sua riserva Toth, era un costruttore di gioco; l’altra invece, Czibor, era un fuoriclasse offensivo, con lo scatto bruciante e il dribbling ubriacante dell’estrema ideale, e giostrava da terzo attaccante, istintivamente proiettato alle incursioni nell’area altrui. Sulla loro linea si trovava anche Hidegkuti, il rifinitore o trequartista della situazione, che realizzò con la Nazionale 39 reti in 68 partite. I «Re» del gol furono Sandor Kocsis, detto «testina d’oro» perché segnava quasi sempre di testa, fece 75 reti in 68 partite (e fu capocannoniere al Mondiale del 1954, con undici reti nelle cinque partite disputate), e Ferenc Puskas, micidiale di sinistro, con 83 reti in 84 partite (venne accreditato, a fine carriera, di 1.328 gol complessivi). I due si completavano mirabilmente a vicenda, praticamente inarrestabili nelle loro incursioni in area.

Lo schema classico prevedeva il rilancio di Bozsik per Hidegkuti, che arretrava fino alla propria mediana risucchiando il suo stopper (in quei tempi giocavano tutti con la marcatura a uomo), aprendo così nuovi spazi nella difesa avversaria, poi apriva sulle ali rimanendo accentrato e così favorendo gli inserimenti dei due interni (Kocsis e Puskas), che partivano da dietro per andare a concludere sui servizi delle ali tornanti. Questo continuo movimento di Hidegkuti «a pendolo», su e giù lungo il campo, creava sempre nuove figure di gioco, cosa che consentiva alla Grande Ungheria un cospicuo bottino di gol segnati. La «W» a tre punte si era trasformata in una «M» a due attaccanti, di micidiale efficacia.

È il 4-2-4: difesa a zona, con due centrali che si occupano solo di difendere e due esterni veloci che spingono tantissimo e si sovrappongono spesso e volentieri con le ali, che a loro volta giocano più arretrate rispetto alle punte, coprono lo spazio quando c’è da difendere, e hanno un compito più di sostegno che di finalizzazione; un regista (Bozsik) davanti alla difesa, perno di tutto il gioco, e il «centravanti alla Hidegkuti», libero di concludere personalmente o di inventare calcio per le due punte, una forte di testa e l’altra potente nel gioco a terra.

Tra il 14 maggio 1950 (sconfitta in Austria per 5-3) e il 4 luglio 1954 (caduta nella finale del Mondiale ad opera dei Tedeschi, 3-2), la Nazionale Ungherese collezionò 29 vittorie e 3 pareggi su 32 partite, con l’incredibile bilancio di 143 gol fatti e 33 subiti: alle Olimpiadi del 1952 vinse la medaglia d’oro sconfiggendo una dopo l’altra Romania, Italia, Turchia, Svezia e Jugoslavia, segnando venti gol e subendone solo due. Durante la premiazione, Stanley Rous, presidente della Football Association avvicinò Sebes per invitare quei magnifici atleti ad esibirsi nel tempio del football inglese: il Royal Wembley Stadium. La data fu fissata al 25 novembre 1953, quando i Magiari erano a fine stagione, pronti al letargo invernale e gli Inglesi si esaltavano nell’umida bruma autunnale, con il terreno allentato ed il clima pungente che sollecitò la performance atletica.

Prima, però, gli Ungheresi, il 17 maggio 1953, a Roma, all’inaugurazione dello Stadio Olimpico, sconfissero per 3-0 la Nazionale azzurra (da ventotto anni gli Ungheresi non vincevano sul suolo italiano); la partita fu trasmessa in diretta dalla radio ungherese.

Arriviamo poi, il 25 novembre 1953, a Wembley, con un 6-3 alla Nazionale inglese (i Tre Leoni da novant’anni non perdevano sul proprio campo). Tra l’altro, il primo gol ungherese avvenne dopo un minuto e mezzo, con gli Inglesi che non erano ancora riusciti a toccare palla!

Un aneddoto: Sebes, recatosi a Londra prima della partita ed accortosi che il pallone non rimbalzava mai per più di mezzo metro, andò sul campo e vestito da passeggio com’era provò a correre, a condurre il pallone, a calciarlo in aria, valutandone le traiettorie. Gli operai che lavoravano sul campo lo presero per pazzo; lui prima di far ritorno a Budapest chiese in regalo all’amico Rous (l’allora Presidente della Federazione Inglese e futuro Presidente FIFA) tre palloni di marca inglese. In patria, fece allargare un campo di allenamento per raggiungere i 110 per 70 metri del mitico tempio del calcio d’Albione e tre volte la settimana vi chiamava ad allenarsi i migliori giocatori ungheresi, ovviamente coi tre palloni britannici. Ebbene, quando il giorno fatidico giunse, gli Ungheresi chiusero con tre reti di Hidegkuti, che stordì lo stopper inglese coi suoi arretramenti, due di Puskas e una di Bozsik.

Il fatto destò enorme scalpore, ma ancor più ne procurò la rivincita, concessa il 23 maggio dell’anno successivo, all’approssimarsi dei Mondiali: a Budapest gli Ungheresi si affermarono per 7-1 (la peggiore sconfitta della storia inglese) – due reti di Puskas, due di Kocsis, una a testa per Lantos, Hidegkuti e Toth.

Nel giugno del 1954, la Grande Ungheria ebbe la migliore occasione di mostrare a tutto il mondo la sua forza: i Mondiali di Calcio in Svizzera.

Fu un cammino glorioso verso la finale: 9-0 alla Corea del Sud, 8-3 alla Germania Ovest, 4-2 sia al Brasile che all’Uruguay (ai tempi supplementari). La partita contro il Brasile terminò al 90° minuto con una maxi-rissa che coinvolse giocatori, tecnici e dirigenti per ben venti minuti; memorabile il commento dell’arbitro: «Quel che è successo dopo il 90° non l’ho visto, per quanto riguarda la partita posso dire che è stata la più scorretta della mia intera carriera».

In finale, il 4 luglio, giornata fredda e piovosa, i Magiari incontrarono la Nazionale Tedesca già sconfitta in precedenza e considerata tutt’altro che tra le favorite per alzare al cielo la Coppa del Mondo (allora chiamata Coppa Rimet). La compagine tedesca era infatti grintosa e molto forte fisicamente, vantava un giocatore di altissimo livello (il capitano Fritz Walter, cervello, regia e cuore del gruppo), ma aveva uno scarso gioco di squadra.

Dopo otto minuti gli Ungheresi erano già in vantaggio di due reti, di Puskas (che non aveva giocato le due partite precedenti per un problema alla caviglia ed era ancora dolorante) e Czibor: la prima realizzazione venne siglata con una potente conclusione da pochi passi, mentre il raddoppio arrivò dopo un grossolano errore del portiere tedesco, che si scontrò con un compagno, e Czibor fu abile ad approfittarne e battere a rete. Poi i Tedeschi cominciarono pian piano a mostrare una vigoria atletica insospettabile, pareggiando nell’arco di dieci minuti con Morlock e Rahn (grazie ad un fallo sul portiere ungherese). Per contro, Hidegkuti prese un palo, Puskas – che aveva iniziato a zoppicare vistosamente – fallì due occasioni che in condizioni normali non avrebbe mai fallito (nella seconda Kohlmeyer respinse proprio sulla linea di porta, facendosi perdonare il pasticcio che aveva portato al secondo gol dell’Ungheria), e pochi minuti dopo Kocsis colpì la traversa. La difesa ungherese non era più irresistibile e appariva decisamente stanca, soprattutto quando i Tedeschi premevano sulla fascia: Rahn provò un paio di volte a segnare, ma Grosics era un portiere di classe mondiale e neutralizzò. Rapido contrattacco ungherese, il portiere teutonico Turek uscì a valanga e si prese una botta in testa, mentre Toth da posizione decentrata non riuscì ad infilare la porta sguarnita. All’84° minuto, Rahn, servito da Fritz Walter, evitò tre avversari e batté Grosics con la complicità del palo. 3-2 per i Tedeschi. Mancavano poco più di cinque minuti, ma non era ancora finita. L’Ungheria non si arrese: lancio per Puskas, solo davanti a Turek, e lo superò! Era l’89° minuto, l’Ungheria aveva pareggiato! E invece no, il gol venne annullato per un fuorigioco inesistente. Rimase il tempo per il tiro della disperazione di Czibor, che il portiere tedesco in qualche modo respinse, e poi fu veramente la fine. La Germania Ovest vinse la sua prima Coppa Rimet contro ogni pronostico, sconfiggendo l’imbattibile Ungheria di Puskas, che fu considerata comunque la vincitrice morale del Campionato Mondiale (Kocsis fu il capocannoniere con undici reti, e la sua squadra aveva mostrato il gioco migliore e più innovativo).

In realtà, pare che i Tedeschi abbiano giocato sporco: a parte un arbitraggio discutibile (un gol non valido assegnato ai Tedeschi ed uno valido non assegnato agli Ungheresi), vi furono voci che incolparono le autorità magiare di aver venduto l’incontro in cambio di una cospicua partita di trattori indispensabili alla propria agricoltura in difficoltà. Ma l’ipotesi più realistica venne lanciata subito dopo la partita: l’innaturale condizione atletica dei Tedeschi, che recuperavano troppo facilmente le energie da una partita all’altra e la loro capacità di crescere nel finale, proprio mentre gli Ungheresi, spossati, crollavano, faceva pensare ad un massiccio ricorso al doping. Infatti, qualche settimana dopo la finale, cinque giocatori tedeschi (Fritz e Ottmar Walter, Max Morlock, Helmut Rahn e il portiere di riserva Kubsch), oltre all’allenatore, vennero colpiti in massa da uno strano morbo itterico dalle pesanti conseguenze (furono addirittura costretti all’abbandono temporaneo dell’attività). Una corrispondenza del novembre 1954 da Ginevra, di Lelio Rigassi, dichiarava che «la notizia che ben cinque giocatori della Nazionale Germanica […] siano afflitti dall’itterizia infettiva ha provocato enorme impressione in Svizzera ed ancora maggiore impressione ha fatto una dichiarazione del dottor Loogen, medico ufficiale della spedizione germanica, fatta un po’ alla leggera, secondo la quale il microbo dell’itterizia sarebbe stato attaccato ai giocatori tedeschi durante la loro permanenza a Spiez sul lago di Thun. Il direttore dell’Hotel Belvedere, dove alloggiarono i Tedeschi, ha protestato energicamente presso la Federazione Germanica contro quest’asserzione, facendo presente che il dottor Loogen deve sbagliarsi di grosso, perché non è concepibile, qualora il microbo fosse esistito a Spiez, che solo alcuni giocatori tedeschi e nessun cliente o impiegato dell’albergo ne siano stati infezionati. Ciò che anche dal punto di vista medico è ampiamente giustificato. A meno che il dottor Loogen non la sappia lunga e cerchi qualche diversivo di fronte agli attacchi e ai sospetti formulati da numerosi giornali tedeschi... Che cioè i loro giocatori siano stati eccessivamente “drogati”». Si racconta anche che dopo la partita furono trovate delle siringhe sospette nello spogliatoio teutonico, ma il medico ha sempre affermato di aver iniettato nei giocatori del semplice placebo; ci sono diversi indizi, però, che conducono alla possibilità di un’iniezione di Pervitin e non di semplice vitamina C, come era stato dichiarato: il Pervitin è uno stimolante che, guarda caso, è stato anche distribuito ai soldati tedeschi nella Seconda Guerra Mondiale per trasformare le loro paure in aggressività. Sia come sia, dopo quel fatidico 4 luglio, i Campioni del Mondo collezionarono una serie di rovesci «inspiegabili», avviati col 2-0 loro inflitto dal mediocre Belgio a Bruxelles in settembre, prima uscita ufficiale.

Gli Ungheresi ebbero un ben triste ritorno in patria: l’appartamento di Sebes in Piazza Baross venne saccheggiato da tifosi inferociti, riunitisi spontaneamente per manifestare la propria collera. Amareggiato, il commissario tecnico rifiutò le dimissioni, nonostante le implorazioni della spaventatissima moglie. Venne esonerato solo due anni dopo, nell’estate 1956, quando ormai i carri armati sovietici avevano invaso il Paese e soffocato la rivolta libertaria del popolo ungherese (memorabili le immagini dei ragazzi che, barricati nelle strade, lanciavano bombe molotov contro le unità corazzate nemiche). In quei cupi giorni, il nerbo della Nazionale si trovava all’estero in tournee con la propria squadra di club, la Honvéd, per motivi propagandistici: il Governo fantoccio filosovietico voleva far credere che tutto fosse normale, che la vita continuasse come se niente stesse accadendo.

All’ordine di rientrare in patria, pochi ubbidirono: tra questi non c’era Kocsis che trovò rifugio in Svizzera, nella terra che aveva visto diventare leggenda i suoi gol, i suoi ineguagliabili colpi di testa, il suo scatto felino. La nostalgia per la sua terra, l’impossibilità di giocare, lo mandarono in depressione. Fu ingaggiato dallo Young Fellows per un anno, poi si trasferì al Barcellona dove finì la sua carriera come uno sconosciuto, affranto, piegato e sconfitto da un destino contro il quale nulla aveva potuto. Cercò di fare l’allenatore e non ebbe successo. Nel luglio del 1978 temette di avere un male incurabile e non accettò di rimanere sconfitto un’altra volta: si gettò dalla finestra del decimo piano.

Hidegkuti continuò a giocare in Nazionale (non a caso disputò pure i Mondiali di Calcio nel 1958, dove l’Ungheria non brillò, in quanto ormai non vi erano più campioni come Puskas, Czibor e Kocsis: i Magiari vennero eliminati dal Galles dopo una vittoria, un pareggio e due sconfitte). Da allenatore, Hidegkuti guidò l’MTK Budapest (ex Vörös Lobogo) prima di trasferirsi nel 1960 in Italia, dove fu sulla panchina della Fiorentina, con la quale conquistò la Coppa Italia, la Coppa delle Coppe (battendo in finale i Rangers di Glasgow) e la Coppa delle Alpi. Dopo essere approdato anche al Mantova, «zio Nandor» lavorò sia in Egitto (con buoni risultati) sia in patria, assistendo al malinconico declino del calcio ungherese. Morì il 14 febbraio del 2002 per problemi cardiaci e polmonari (era malato da tempo), poco prima del suo ottantesimo compleanno.

L’altro grande attaccante, Puskas, si trasferì al Real Madrid dove ebbe occasione di giocare con i grandi Di Stefano, Gento e Kopa; vinse cinque campionati consecutivi, conquistò quattro volte il titolo di capocannoniere. Il 18 maggio 1960, a Glasgow, 135.000 spettatori si goderono la finale di Coppa dei Campioni tra il Real e l’Eintracht di Francoforte, in cui Puskas segnò quattro gol, Di Stefano tre. La partita finì 7-3 per gli Spagnoli. In seguito, ritiratosi dal calcio giocato, tentò la carriera di allenatore, ma senza grandi successi. Ritornato in patria dopo molti anni (ma con la cittadinanza spagnola), gli fu riservata un’accoglienza degna di un eroe nazionale. Nel 2002, il Governo decise di intitolargli il principale stadio di Budapest: il Nepstadion, stadio del popolo, si chiamò Ferenc Puskas Stadion. Morì nel novembre del 2006 e, con lui, si spense il trio d’attacco.

Il mito della «squadra d’oro», l’Aranycsapat, la più grande di tutti i tempi, quella che aveva anticipato il calcio moderno mostrando doti tecniche all’avanguardia, era ormai caduto in pezzi… per non rinascere più.

(giugno 2014)

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