James Bond: la vera storia di 007
Contrariamente a quanto si potrebbe supporre, le avventure dell’agente segreto più famoso del mondo non sono del tutto fantasia del loro autore, ma basate su fatti e persone realmente vissuti

«My name is Bond, James Bond!». È forse la «battuta» più famosa del cinema: anche chi non ha mai visto un film di 007 la riconosce e sa classificarla nel genere, attribuirla al personaggio. Col passar del tempo, James Bond non solo si dimostra estremamente longevo, ma entra a far parte di quei personaggi «mitologici» del mondo della celluloide. Eppure, questa sorta di «gangster internazionale con a disposizione […] una licenza d’uccidere» (come lo definì John Le Carré) ha molti punti di contatto con persone e fatti reali. Molti più di quanti si potrebbe credere. Anzi, potremmo dire che, in un certo senso, James Bond è realmente esistito... anche se con un altro nome!

La storia di James Bond è in parte la storia del MI6 (Military Intelligence section 6), la branca dei servizi segreti britannici (Secret Intelligence Service – SIS) incaricata di raccogliere informazioni in territorio estero, nato ufficialmente nel 1909. Capo dell’ufficio parigino del SIS era Wilfred «Biffy» Dunderdale: ricco, intelligente e dal sangue freddo, aveva la passione per le belle donne e le macchine sportive (James Bond predilige le auto della casa di Cricklewood nei libri, l’Aston Martin nei film). Durante la Seconda Guerra Mondiale gestiva la Resistenza Francese da Orleans, e il suo ufficio distava pochi metri da un enorme deposito di munizioni: «Mi assicurano» raccontò «che nel caso in cui dovesse essere centrato da un bombardamento potrei contare su una morte istantanea e priva di dolore» – una perfetta battuta in «stile Bond». Al suo nome è anche associata una missione che diventerà tipica di 007: James Bond che si sfila la muta da sub scrollandosi l’acqua di dosso e rivelando uno smoking immacolato. È successo realmente, nel 1940: Pieter Tazelaar, un agente segreto danese spedito via mare a prendere contatto con agenti olandesi, toccò terra non lontano da un casinò in abito da sera protetto da una speciale tuta di gomma che avrebbe dovuto tenerlo asciutto durante lo sbarco; anziché lasciarlo sulle dune, l’idea era di permettergli di mescolarsi alla gente, oltretutto spruzzandogli addosso qualche goccia di brandy per rafforzare l’immagine festaiola.

Ma il vero Bond fu Valentine Fleming, padre di Ian Fleming (il creatore di James Bond). Valentine, allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, era un giovane politico conservatore che andò al fronte occidentale con il reggimento degli ussari dell’Oxfordshire, di bell’aspetto e di pronta intelligenza. Lasciò a casa la moglie e i quattro figli piccoli: Ian, il primogenito, aveva solo quattro anni.

Il padre divenne per tutti un eroe: i figli lo veneravano. Valentine fu ucciso in azione nel 1917 e Ian colmò il vuoto ricalcando la figura di James Bond su quella del padre. Il 17 febbraio del 1952 cominciò a scrivere il primo romanzo di 007, Casino Royale, che ebbe un immediato e insperato successo, come anche i vari seguiti; dieci anni dopo, con la Gran Bretagna che si stava lasciando alle spalle l’austerità del dopoguerra e i Beatles che facevano capolino nelle classifiche musicali del Paese, James Bond sbarcò nel cinema con Dr No (Licenza di uccidere nella traduzione italiana). E il Bond della celluloide finirà ben presto per oscurare quello letterario.

James Bond interpretato da Sean Connery

James Bond interpretato da Sean Connery in Agente 007 - Licenza di uccidere nel 1962

Torniamo a Ian Fleming. Era un uomo profondamente crudele che viveva per se stesso, si divertiva a sculacciare e in certi casi a ferire la moglie, che tradì varie volte. La sua carriera militare non fu certo prestigiosa: espulsioni, mancati ingressi, assunzioni procurategli sempre dalla madre, come agente segreto non fu mai in azione ma rimase sempre relegato a una scrivania nella sede della Naval Intelligence. Qui si mise a ideare piani arzigogolati per confondere le forze dell’Asse e far vincere la Seconda Guerra Mondiale agli Alleati: fu lui, per esempio, a proporre di far trovare ai nazisti il cadavere di un finto aviere con dei finti documenti compromettenti. L’idea andò in porto e Hitler si convinse che in quel 1943 il nemico preparava uno sbarco in Grecia, anziché in Italia – e lasciò la Sicilia quasi sguarnita di truppe. Il resto è noto.

Lo stile di vita di Fleming ricalcava spesso quello del suo personaggio: fumatore indefesso, forte bevitore, appassionato per il gioco d’azzardo, possedeva uno spiccato senso dell’umorismo e uno spirito vendicativo. Tanto da modellare il nome del nemico numero uno di Bond in Missione Goldfinger, il perfido magnate Auric Goldfinger, su quello di Erno Goldfinger, architetto ungherese maestro del modernismo. Costui aveva fatto le sue case squadrate nell’esclusivo quartiere londinese di Hampstead, dove viveva Ian Fleming; questi odiava il modernismo, e se a ciò si aggiunge che Goldfinger aveva un caratteraccio, andava su tutte le furie per un nonnulla, era privo della più elementare ironia e un rigido estimatore delle più ristrette dottrine marxiste, si può capire come mai i due non avrebbero mai potuto andare d’accordo. L’arcinemico di Bond fu battezzato Goldfinger dopo una «chiacchierata» di Fleming con la moglie di Goldfinger. Che cosa si siano detti in quell’occasione, però, non è noto.

Nell’immaginario collettivo, James Bond ha il viso e la voce di Sean Connery, il primo (e il migliore) di tutti gli attori che lo impersonarono al cinema. Si presentò all’audizione per il posto camminando «come una pantera», e i produttori – Broccoli e Saltzman – ne rimasero affascinati. I loro uffici si trovavano in Audley Street, davanti a un lampione. Quando nel 1980 l’agente del KGB Oleg Gordievsky si consegnò ai Britannici, rivelò che quel lampione, per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta, era stato usato dalle spie sovietiche di stanza nel Regno Unito come nascondiglio per scambiare biglietti, microfilm e altri documenti compromettenti con i loro superiori, e tutto grazie a un piccolo sportello e a uno spazio cavo; discreti segnetti tracciati con il gesso segnalavano ai Russi quando c’era posta per loro. È strano come, a volte, realtà e finzione s’incrocino: mentre Connery si preparava a portare sullo schermo l’agente segreto più famoso del mondo, dinanzi a lui veri agenti segreti conducevano la loro Guerra Fredda!

Persino la sezione gadget impossibili, guidata dall’impareggiabile Q, appartiene alla realtà, fin nei minimi particolari: Q era infatti la denominazione in codice del capostruttura, un colonnello dell’Esercito. Tra le reali invenzioni troviamo un silenziatore che non diventava meno silenzioso con l’uso, macchine fotografiche nascoste in scatole di fiammiferi, sigarette drogate, una penna che sparava pallottole lacrimogene in miniatura; e ancora, sottomarini monoposto, motociclette pieghevoli, balestre a elastici, radiotrasmittenti nascoste in ogni tipo di oggetti, scarpe con le suole disposte al contrario per lasciare false tracce, bombe dalla foggia di frutta tropicale, statue del Budda farcite di esplosivo, pillole suicide nascoste nei bottoni dei cappotti. Durante la guerra, questo singolare «negozio dei giocattoli», come veniva chiamato, si trovava in un’ala del Natural History Museum. La CIA americana – modellata sull’esempio del SIS – si diede da fare per copiare i gadget di James Bond, sia quelli reali, sia quelli inventati da Fleming: gli Americani erano rimasti affascinati soprattutto dalle scarpe da cui usciva una lama avvelenata, usate nel romanzo Dalla Russia con amore; mentre un congegno per pedinare i nemici, a cui ricorre Bond in Missione Goldfinger, venne effettivamente realizzato ma nelle zone urbane non poteva funzionare, si perdeva il segnale. Robert Wallace, l’addetto all’equipaggiamento della CIA, negli anni Settanta e Ottanta riceveva dai suoi capi richieste di riprodurre le armi di Bond non appena usciva un nuovo film.

Lapidario rimane il giudizio del già citato Le Carré: «Alla radice di James Bond c’era un qualcosa di neofascista e di materialista. Uno non riesce a fare a meno di pensare che avrebbe fatto le stesse cose per qualunque altro Paese, ammesso che le donne fossero sempre molto belle e i Martini molto secchi»; ma forse è proprio questa vena da eroe «nero» che ha conquistato i cuori e le menti del pubblico, sia dei lettori che degli spettatori televisivi. Ora, per essere dei buoni agenti segreti non basta aver studiato lettere antiche a Oxford o a Cambridge, ma servono competenze informatiche di prim’ordine e origini etniche variegate per confondersi nella Babele del terzo millennio. James Bond, possiamo crederlo, ha tutto questo, ma anche qualcos’altro: il fascino d’essere già entrato nel campo del mito.

(marzo 2019)

Tag: Simone Valtorta, James Bond, agente segreto 007, MI6, SIS, CIA, Wilfred Dunderdale, Aston Martin, Pieter Tazelaar, Valentine Fleming, Casino Royale, Missione Goldfinger, Sean Connery, Q, KGB, Guerra Fredda, Ian Fleming, Erno Goldfinger, Oleg Gordievsky, Robert Wallace, John Le Carré.