Donbass e dintorni
Un dramma della geopolitica mondiale

L’evoluzione politica dell’Europa contemporanea, al pari di ampie regioni dell’Africa Sub-Sahariana, dell’Asia Centrale, e di altre parti del mondo, è un mistero, o nella migliore delle ipotesi, un’equazione a più incognite. Il caso del Donbass (Ucraina Orientale) è salito alla ribalta mediatica con un ruolo prioritario dopo lo scoppio del conflitto con la Russia (24 febbraio 2022) ma era già all’ordine del giorno da parecchi anni, avendo trovato matrice iniziale nello sfascio della vecchia Unione Sovietica maturato verso la fine del «secolo breve»; e poi nel lungo contenzioso fra i due Paesi, fattosi stringente dopo il 2014. Un acuto osservatore della realtà geopolitica attuale (Massimo Livi Bacci, già Senatore della Repubblica ed Emerito di Demografia nell’Università di Roma) aveva già osservato in tempi non sospetti che proprio l’Europa non ha fatto eccezione al patimento dei «traumi di natura politica» diffusi in tutto il globo, a cominciare dai «casi dell’Irlanda del Nord o delle Province Basche» dove il fuoco cova sotto la cenere, per finire a quelli certamente maggiori presenti «nella regione balcanica» ovvero «ai confini meridionali della Russia». Ciò, con particolare riguardo alle guerre combattute in Cecenia «negli anni Novanta e nel primo decennio del Duemila» e poi a quella «in corso nel Donbass»[1] che non a caso è un territorio assai ricco di risorse, anche d’interesse strategico, tali da motivare un consistente impegno delle parti in causa.

Il 23 febbraio 2022, vigilia della suddetta conflagrazione bellica, ancorché «addolcita» dal titolo apparentemente asettico di «operazione speciale», giustificato da almeno otto anni di precedenti tensioni e da un continuo stillicidio di attentati e di reciproche offese, il Capo del Governo Italiano, Mario Draghi, era intervenuto al Convegno di Firenze in materia di pace nel permanente «segno di Giorgio La Pira». In tale occasione aveva colto l’opportunità per dichiarare che gli ultimi sviluppi della questione ucraina non dovevano tradursi in «prevaricazioni e soprusi» ma richiamarsi ai valori tradizionali di fratellanza, convivenza e tolleranza da difendere coerentemente e costantemente[2].

Ergo, si sarebbe dovuto onorare l’imperativo di mettere «al servizio dei più deboli» i contenuti della grande spiritualità italiana perseguiti tenacemente da tempi lontani, e fino ai giorni nostri, ma trascurando che il celebre «Sindaco Santo» della Città del Giglio era stato uomo di pace in senso assoluto, prescindendo da ogni premessa strumentale di tipo dubitativo, e naturalmente, di contenuto avversativo. In proposito, a distanza di due millenni, torna alla mente, fra le tante possibili, l’accorata invettiva del poeta latino Albio Tibullo, pronunciata in versi immortali nei confronti di «chi per primo aveva inventato le orribili armi»[3].

Dopo mesi di operazioni militari, la distanza fra le parti si è ulteriormente allargata, trasformando ogni opportunità di contatto e di pur vago dialogo in un «nome vano senza soggetto». Ciò ha dato luogo all’unico risultato di avere diviso il mondo in due schieramenti ormai antitetici: da una parte gli Stati Uniti e la Gran Bretagna con gli alleati europei, tra cui alcuni pragmaticamente dubbiosi, e dall’altra parte, l’area BRICS guidata saldamente, almeno sul piano militare, dalla Cina e dalla stessa Russia, con il Brasile, il Sudafrica e soprattutto l’India quali aggregati di prevalente valenza demografica e commerciale. A richiamare la comune attenzione sui «brillanti» risultati di questa dicotomia, tradottasi in un perverso strumento di morte sin dai primi tempi del conflitto, è rimasto soltanto il Sommo Pontefice, ma anche in questo caso, non senza redivivi riferimenti politicamente scontati al verbo di Giuseppe Stalin, quando il «piccolo padre» si chiedeva – durante la Seconda Guerra Mondiale – quante divisioni corazzate avesse il Papa, e minacciando di portare i cavalli dei suoi cosacchi ad abbeverarsi nella fontana di Piazza San Pietro.

A proposito delle guerre tipiche del mondo contemporaneo, generalmente «ibride e complesse, sempre determinate dal fattore militare e sempre più condizionate dall’esterno» sia politico-diplomatico sia economico-sociale[4], giova aggiungere che quella russo-ucraina, almeno nelle origini e nelle sue prime manifestazioni strettamente militari, non ha fatto eccezioni, assumendo caratteri sempre più evidenti di un reciproco logoramento[5] non senza interventi esteriori di consistenza variabile (fornitura incessante di armi occidentali all’Ucraina e dichiarazioni di solidarietà tecnico-commerciale alla Russia da parte cinese). In ultima analisi, quello che è cresciuto in rapida progressione è stato solo il numero delle vittime, ivi comprese quelle civili, iterando una vecchia prassi della «Realpolitik» ottocentesca e senza contare il lungo flusso degli esuli ucraini, in buona parte donne e minori (secondo cifre ufficiose si tratterebbe di circa un decimo della popolazione).

Giovanni Sartori, indimenticabile maestro fiorentino di Scienza politica, amava rammentare che in diversi casi basta dividere il tronco in due, senza affannarsi nell’improbabile tentativo di spaccare il capello in quattro. Nel caso del Donbass e dintorni, la regola si attaglia perfettamente alla situazione, e soprattutto, alla lunga storia da cui ha tratto origine, e che secondo ogni logica ha bisogno di una conoscenza oggettiva e fedele, lungi dalle scorciatoie di comodo. Del resto, i sondaggi italiani, pur con tutte le riserve del caso, dicono che la Russia è considerata dalla maggioranza dei cittadini quale Paese aggressore, sulla falsariga di quella storia e di una sua interpretazione per lo meno approssimativa; ma nello stesso tempo, che esiste un’analoga maggioranza contraria all’invio di armi e mezzi militari all’Ucraina. Questa sostanziale dicotomia, che richiama alla memoria quelle del migliore Calvino, dovrebbe essere un momento di sana riflessione che purtroppo manca: oggi si va di fretta perché in politica, come nella vita quotidiana, «non c’è tempo da perdere».

L’antico saggio amava ripetere che «oportet ut scandala eveniant». In linea generale, l’assunto può essere condiviso, ma perché ciò corrisponda agli autentici scopi di base è necessaria, per l’appunto, una corretta informazione preliminare che faccia giustizia di tanti luoghi comuni e di troppe affermazioni strumentali, non suffragate da una conoscenza storica oggettiva. Il caso russo-ucraino non fa eccezione ma conferma le regole: infatti, un giudizio davvero «super partes» e quindi non inficiato da pregiudiziali politiche o altrimenti subordinate (militarmente o commercialmente) deve essere formulato sulla scorta degli accadimenti intervenuti dopo la deflagrazione dell’Unione Sovietica, e soprattutto, di quelli maturati nello scorcio del nuovo millennio. La vera pace, come quella che Giorgio La Pira avrebbe fortemente voluto, si costruisce alla luce di un’autentica comunità spirituale, e non certo con la forza delle armi che, come quella delle iniquità di cui all’alto messaggio di Monsignor Antonio Santin, Vescovo di Trieste nella plumbea stagione delle foibe, «non può essere eterna».

Nel frattempo, il campo di battaglia è andato assumendo aspetti omerici, che sembrano rivivere la storia cantata dal vecchio Poeta Ellenico. Infatti, i tempi si dilatano in misura ormai incommensurabile, la voce della diplomazia diventa sempre più flebile, la logica delle armi riprende il sopravvento con singolare prepotenza, e l’Occidente non sembra in grado di programmare strategie alternative alla retorica del buonismo e alla promulgazione di rinnovate sanzioni, spesso a danno proprio prima ancora che del destinatario. Ancora una volta, si dimostra come siano valide le ragioni di quanti osservano che la storia non è maestra di vita, perché altrimenti non si continuerebbe a commettere gli errori del passato, facendolo con singolare pervicacia.

Nel caso russo-ucraino si ha l’impressione molto netta di procedere sul filo del rasoio, o meglio sul ciglio di un abisso senza fine: quello di una conflagrazione atomica, potenzialmente indotta da qualche «casus belli» che nella fattispecie russo-ucraina può essere dietro l’angolo. Al riguardo, il primo pensiero corre alla grande «enclave» russa di Kaliningrad, oggi staccata dalla Federazione a causa delle interferenze territoriali di Polonia e Lituania. In effetti, si tratta di un territorio ex tedesco, comprensivo anche di Memel, che al termine della Seconda Guerra Mondiale fu conferito all’Unione Sovietica senza problemi di sorta, tanto più che a Varsavia e Vilnius regnava l’ordine garantito dal Cremlino. Oggi le cose sono cambiate, tant’è vero che Kaliningrad[6], diversamente dalle vecchie Leningrado e Stalingrado, è la sola grande città russa «dedicata» a un importante rivoluzionario del secolo scorso, e primo Capo di Stato dell’Unione Sovietica, Mikhail Ivanovic Kalinin, scomparso proprio nell’ultimo mese della «Grande Guerra patriottica».

Una conclusione a priori, ma non per questo dogmatica, si può trarre comunque. Non si tratta più di una guerra del sangue contro l’oro, a somiglianza di quanto era accaduto più volte nella lunga storia italiana, ma di un conflitto «speciale» in cui a farla da protagonisti sono gas e petrolio, non senza convitati di pietra quali dollaro, euro e rublo, e con il sangue delle vittime declassato da valore comunemente riconosciuto a semplice strumento bellico, inteso come «instrumentum regni» o meglio quale espressione della «perfida civiltà» maledetta da Giosuè Carducci ma eletta dai soloni del terzo millennio a misura di tutte le cose.


Note

1 Massimo Livi Bacci, I traumi d’Europa: natura e politica al tempo delle guerre mondiali, Il Mulino, Bologna 2020, pagina 140. La tesi dell’Autore, in tutta sintesi, si riassume nell’affermazione secondo cui «la cattiva politica può attizzare le tensioni» mentre «la buona politica può attenuarle e risolverle». Tra l’altro, vista la minore vulnerabilità di molti popoli a fronte dei ricorrenti «traumi inferti dalla Natura», in specie nell’ambito degli Stati tecnicamente più avanzati, l’apporto delle crisi politiche al malessere mondiale spesso crescente è diventato un fattore a più forte ragione prioritario, che affida (o dovrebbe affidare) proprio al momento politico il compito di agire per il bene comune, secondo un’antica definizione tuttora attuale. Nondimeno, la discussione sugli obiettivi, e soprattutto sui mezzi per conseguirli è rimasta drammaticamente aperta, e non è stata in grado di prevenire il rischio di una nuova guerra europea, come i fatti hanno puntualmente dimostrato.

2 Mario Draghi, Mediterraneo frontiera di pace, Atti della CEI, Basilica di Santa Maria Novella, 23 febbraio 2022, in «Nuova Antologia», anno CLVII, numero 2.301, Fondazione Spadolini, Firenze 2022, pagine 29-37. Il Primo Ministro Italiano, nell’occasione, ha fatto riferimento anche alla necessità di garantire il «pluralismo delle identità» (Ibidem, pagina 33). Ciò, con un implicito richiamo a quanto siano legittime diverse impostazioni del problema geopolitico, ma nello stesso tempo con una sostanziale presa di distanza da ogni soluzione non violenta fondata sulla cooperazione piuttosto che sulla logica delle armi, anche a prescindere da ogni riferimento alla Costituzione che «ripudia» la guerra (e che sarebbe stato necessario se non altro per chiarire il fondamento etico e giuridico di una possibile deroga). Del resto, il pensiero di Draghi circa la priorità della soluzione militare è stato perseverante anche in tempi successivi, tanto da potersi attribuire un sostanziale primato nella politica europea dell’intransigenza, in linea con quelle analoghe di Stati Uniti e Gran Bretagna, con buona pace delle reminiscenze universalistiche e messianiche di Giorgio La Pira.

3 Sull’argomento, confronta Carlo C. Montani, Guerra: una costante universale. Riflessioni sulla conflittualità storica e su quella contemporanea, in «Rivista della Cooperazione giuridica internazionale», anno XXII, numero 66, Edizioni Aracne, Roma 2020, pagine 211-215. Nel merito, giova rammentare che, trascorsi vent’anni dalla storica decisione di Monterrey, quando i maggiori Stati «decisero di destinare alla cooperazione internazionale e alle sue iniziative di sviluppo almeno un punto del prodotto interno lordo», tale impegno è rimasto puntualmente sulla carta contribuendo anche per questo aspetto alla crescita della conflittualità, e infine allo scoppio del nuovo contenzioso, cui hanno fatto seguito le conseguenze visibili a livello mondiale.

4 Massimo Panebianco, L’Euro – crisi globale russo-ucraina 2022, in «Rivista della cooperazione giuridica internazionale», anno XXIV, numero 70, Edizioni Aracne, Roma 2022, pagine 11-24. In buona sostanza, quello che in origine era sembrato un conflitto di ampio respiro locale ma pur sempre limitato a due Stati ex sovietici, ha finito per diventare una guerra con evidenti riflessi mondiali, se non altro per gli effetti dirompenti sui prezzi di alcune materie prime, anche se circoscritta ad alcune zone meridionali e orientali del confine russo-ucraino, con riguardo prioritario al Donbass e ad alcune città portuali del Mar Nero, a cominciare dalla «martire» Mariupol.

5 Questo «modus operandi» si colloca in evidente antitesi al lucido pensiero di Nicolò Machiavelli (1469-1527) che persino a due mesi dalla prematura scomparsa esortava a «rifabbricare la guerra o conchiudere la pace» senza inutili soluzioni compromissorie, per loro natura transeunti e generatrici di ulteriori incomprensioni, e soprattutto di lutti (Federico Chabod, Scritti su Machiavelli, Einaudi Editore, Torino 1964, pagina 388). Il Segretario Fiorentino, diversamente dalla prassi diventata consuetudinaria in epoca contemporanea, considerava con estremo realismo le esigenze della «realtà effettuale» proponendo che lo Stato, quale massima espressione della vita associata, agisse in conseguenza, con chiarezza e tempestività, e naturalmente, non senza una congrua e consapevole preparazione. Ecco una lezione che, sia pure «mutatis mutandis», appare sempre attuale.

6 La storia di Kaliningrad evidenzia una cesura particolarmente traumatica: quella avvenuta nel 1945. L’antica città di Koenigsberg, così chiamata in onore di Ottocaro II che aveva assistito i Cavalieri Teutonici nella sua conquista (1255) fino a farla diventare capitale del loro Stato monastico (1454), fu importante sede universitaria dal 1544, ospitò minoranze polacche e lituane in un clima collaborativo, e diede i natali a Immanuel Kant che vi sarebbe vissuto sino alla morte (1724-1804). Dopo essere diventata dapprima prussiana e poi grande porto del Reich, la svolta si sarebbe compiuta al termine della Seconda Guerra Mondiale, quando fu conquistata dall’Armata Rossa al termine di un assedio di parecchi mesi, e conferita all’URSS nell’ambito degli Accordi di Potsdam. Gli abitanti tedeschi superstiti (un quinto dei 370.000 residenti nel 1939) andarono ad accrescere le file dei tanti esuli (circa 17 milioni come da puntuale ricostruzione di Marco Picone Chiodo, E malediranno l’ora in cui partorirono: L’odissea tedesca negli anni 1944-1949, Mursia Editore, Milano 1987, 248 pagine) e la città venne russificata tramite una ricostruzione «ex novo» funzionale a una forte immigrazione dagli altri territori ex sovietici, legata anche al ruolo di nuova sede della flotta russa nel Baltico. Nel 1991, con il crollo dell’Unione Sovietica si venne a trovare nella nuova condizione di «enclave» con un isolamento tanto più avvertito dal 2004, quando Polonia e Lituania entrarono in Europa, e poi nella Nato.

(agosto 2022)

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